Da La storia siamo noi: “Oggi: gli Ultimi”

t1_la_storia_siamo_noi_02.jpgLa storia siamo noi, l’antologia edita da Neri Pozza nella collana Bloom per la curatela di Mattia Carratello (€ 17.50), è di fatto un’antologia che rientra a pieno nei parametri del memorandum sul New Italian Epic steso da Wu Ming 1. Il racconto della storia italiana, dal 1848 a oggi, avviene per scene topiche, momenti apicali, ritratti devianti, e termina con un esito che è fantascientifico e attuale. Gli scrittori che hanno partecipato a questa iniziativa editoriale sono quattordici: Antonio Scurati, Giosuè Calaciura, Antonio Franchini, Mario Desiati, Andrea Camilleri, Helena Janeczek, Sebastiano Vassalli, Laura Pariani, Sandra Petrignani, Laura Pugno, Giancarlo Liviano D’Arcangelo, Nicola Lagioia, Leonardo Colombati.
In chiusura, c’è il Miserabile sottoscritto, che si occupa di un momento storico particolare della storia nazionale: l’oggi e il presente avanzato, da cui il titolo, che è Oggi: gli Ultimi.
Pubblico qui, grazie al permesso dell’Editore, il racconto in versione integrale, invitando i Miserabili Lettori interessati a fidarsi del mio giudizio personale e ad andare a visionare in libreria l’antologia, che mi pare un momento importante nella vicenda della narrativa italiana contemporanea.
La versione integrale del racconto è in formato pdf. Basta cliccare sull’icona o sul link e il file è visualizzabile.

Da La storia siamo noi (Neri Pozza): un estratto del mio racconto

t1_la_storia_siamo_noi_02.jpgE’ uscita e credo farà scalpore (uno scalpore letterario, s’intende) la sorprendente antologia curata da Mattia Carratello (una delle migliori menti operanti in Italia da anni) per la collana Bloom di Neri Pozza. Si intitola LA STORIA SIAMO NOI [qui la scheda ufficiale], in cui quattordici scrittori raccontano l’Italia dal 1848 a oggi ed è una raccolta di racconti concatenati che rientra a pieno nei parametri del memorandum sul New Italian Epic tratteggiati da Wu Ming 1. Sotto l’accurata guida e il sapientissimo editing di Carratello, hanno partecipato a questa serie di istantanee su momenti topici della storia d’Italia, in ordine e argomento di apparizione:
Antonio Scurati: nascita di una nazione, le Cinque giornate di Milano.
Giosuè Calaciura: l’avvento di Garibaldi a Palermo.
Antonio Franchini: il mito e la tragedia di Caporetto.
Mario Desiati: l’amore ai tempi del fascismo.
Andrea Camilleri: il sogno impossibile di un separatista siciliano.
Helena Janeczek: i texani alla battaglia di Montecassino.
Sebastiano Vassalli: la guerra è finita, tornare a casa.
Laura Pariani: diario di una studentessa, anno scolastico 1968.
Sandra Petrignani: Roma, il caso Moro e lo sgomento degli affetti.
Laura Pugno: Processo per stupro e la violenza occultata.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Ustica, il silenzio e il segreto.
Nicola Lagioia: quando Indro Montanelli lasciava il Giornale.
Leonardo Colombati: Gianni Agnelli, la morte di un re.
Giuseppe Genna: 2008, la fine del miracolo italiano.

L’antologia ha inaugurato il Festival delle Letterature di Massenzio, a Roma. In una serata gremitissima di lettori, undici scrittori hanno letto un estratto del proprio racconto. Assente il sottoscritto per disdette personali, un brano dal mio racconto è stato comunque interpretato. Riporto qui lo stralcio, avvisando che proprio di uno stralcio si tratta e che prossimamente, con l’eventuale benestare dell’Editore, editerò su questo sito il racconto nella sua interezza – questa discensio ad infera nei piani sotterranei alla Stazione Centrale di Milano, che culmina in apparizioni metafisiche e nella resa totale dello stampo umano, secondo la sua declinazione italica, che è attualmente a mio parere la punta avanzata della débacle della specie.
Qui di séguito, l’estratto.

Oggi: gli Ultimi

di GIUSEPPE GENNA
E’ il primo gennaio 2008, sono disperatissimo, matto e disperatissimo. Ho un euro di benzina nel serbatoio del motorino, il conto in rosso, Milano è allo zero climatico, l’aria che pesa, gli zero gradi mantegono la condensa bianca orizzontale e ubiqua. E’ la bruma che pare antica nebbia, ora cancerogena. Mi gelo mentre corro girando per circoli nella circonvallazione maggiore e so dove andare. So, io, sempre, dove, andare. Il luogo centrale, il perno di tutto. Due anni addietro, tra qualche ora, sfondai la porta di casa dove mio padre abitava, corroso dal tumore epatico eppure privo di sintomi, se non la peluria di pulcino che aveva sostituito la capigliatura brizzolata, dovuta alla chemioterapia inefficace, era sempre stanco, e lo trovai morto, cadavere irrigidito da un giorno, accanto al calorifero, secco come cospicui rami invernali di un albero sotto brina, gli arti terminali gonfi, il braccio sollevato, il cuore aveva ceduto, era morto in venti secondi, cinque minuti dopo avermi telefonato per farmi gli auguri di buon anno, la sera precedente, io ero nella festa inutile dei lucori borghesi, e lui moriva, solo. Solo. Solo.
Sono, io, sempre, da sempre, solo e, penso, sarò, sempre, solo.
Giro solo nel motorino che macina decametri di asfalto brinato, la giacca impermeabile non lo è perché acquistata dai cinesi in Ripamonti, il freddo intenso è pugni nelle ossa delle braccia, sullo sterno.
L’altra sera, in una trasmissione che si occupa di fantarcheologia e profezie e oggetti non identificati e crop circle, il presentatore Sandro Giacobbo, che avevo visto inscenare una seduta di ipnosi regressiva dove un’attrice ricordava una sua esistenza precedente e descriveva il marito frustarla nella stanza di un palazzo nobiliare nel Settecento – in quella trasmissione l’ex comico di “Drive In” Enzo Braschi, che interpretava il paninaro con slogan ossessivi a cui ossessivamente rispondevano risate preconfezionate, lui e altri esperti sudamericani, tutti: dicevano che nel 2012 il mondo finisce. Lo dice il calendario Maya, lo dicono le profezie Thai, lo dicono certi cartigli e geroglifici dell’Egitto faraonico.
Dalle sabbie tremule e incolte spiccavano le profezie guardando a Orione.
Ruoto a spirale nel gelo per la città, le pompe di benzina rare sono tutte serrate, è il giorno che inaugura il nuovo anno 2008, tutti sono a casa e pensano che ci sono nuovi obbiettivi, nuove possibilità per non conoscersi.
Taglio, seguendo certe rotte in diagonale.
Un vento a alcuni gradi sotto zero incontrastato sulle piazze vuote e contro i campanili, a tratti, come raffiche di mitra, disintegrava i cumuli di neve.
Climatologi di fama internazionale hanno presentato all’Onu un rapporto allarmante sulla premessa della fine del mondo, sulle modificazioni del geomorfismo terrestre, in forza dell’aumento del livello delle acque planetarie, dovuto all’intervento dell’uomo sull’atmosfera, per le emissioni dei cancerogeni inquinanti. Le mappe sono profezie a breve, il mondo tra cinquant’anni e vedevo on line le mappe pubblicate: lo Stretto di Gibilterra cancellato, l’Atlantico riversato nella pozza salmastra del Mediterraneo, la Spagna divorata nelle coste, l’Italia annullata, ne rimanevano cartigli minimi, sigilli di un passato che è stato così breve, così breve e sciacquato come acqua in torba: la Sardegna intatta, la Sicilia emersa per metà, la Penisola inesistente, solo acqua, fino ai monti liguri, divenuti isole, l’estensione del Piemonte dimidiata, la Lombardia intatta, il Veneto corroso, il Friuli indenne. Un’Europa dilagata al proprio interno, collassata su se stessa per la sostanza acquea, la pressione idrica ne farà un buco azzurro, non una supernova, uno squallore geografico intollerabile, poiché nella violenza della natura l’umano ravvede intensità di eroismo, e il collasso della nova è eroico, il buco nero è epico, ma la veloce corrosione delle coste, le migrazioni delle termiti umane, la sofferenza di duecentotrentamila morti in Asia per lo tsunami pochi anni orsono in questi giorni, era il 2004, è stato scordato, gli italiani volevano partire per le Maldive in vacanza, si informavano dei morti a galla nelle acque, lo tsunami: no, questo è un affossamento trascurabile, minimo, scatena un ludibrio appena avvertibile.
Taglio verso la Centrale, è lì che vado: la Stazione.
So dove andare.
La Centrale è un tempio massonico, ermetico, alchemico, a migliaia la trapassano, pendolari turisti viaggiatori occasionali, ogni giorno, e non comprendono di calcare i pavimenti irregolari, a più piani, le svolte labirintiche di un evento architettonico templare. Il messaggio iscritto come potenza nella pietra marmorea: non parla. Nessuno ascolta. Chi non ha occhi per vedere: è il suo mondo, questo. E’ il suo tempo.
Il tempo non esiste, la morte non esiste, ma una sostanza che regge il tempo e la morte, continua, fatta di presenza, che se potesse parlare, e può parlare solo se accetta di condensarsi entrando nel tempo e nella morte, direbbe semplicemente: “Io Sono”.
[…]
Davanti al binario 21: il Padiglione Reale.
Attenzione: ci si avvicina al sacello che sembra il segreto del male che questo tempio, muto, annuncia.
E’ sul lato orientale della Stazione, occultato, accanto alla cappella.
La fine è imminente. Non esiste fine. L’umano non è l’animale politico, è l’animale che pensa alla fine.
E’ rimasto, il Padiglione Reale, identico negli anni. Una varietà pressoché infinita di di marmi nello zoccolo, nelle pareti, nello scalone: il verdello di Verona e la pietra Valdagno, l’onice giallo di Chiampo e il paonazzetto di Carrara. E specchi. E velàri. E vetrate a composizione mosaica. E lampade in cristallo sfaccettato.
Lo scalone a doppia rampa con pròtomi leonine, scalini e balaustra in onice giallo, conduce al Salone delle Feste, ornato di colonne a capitelli corinzi e fregi e immani anfore di marmo verde Roja e una fontana in porfido e pezzi in stucco lucido stilizzato e più dentro, più dentro ancora, nel buio prima della cascata di luce dalla finestra immensa che dà su piazza Duca D’Aosta, ecco il centro oscuro, dimenticato, non visto: un pannello che si confonde perché realizzato in legno non pregiato.
Su questo pannello, occultato perché messo sotto lo sguardo di chiunque, con ossessione è fregiata la Svastica.
Nemmeno adesso che è detto questo l’umano comprende – l’italiano, meno ancora. L’umano di oggi si annoia: non è più umano – l’italiano, meno ancora. I paragrafi precedenti cosa c’entrano? E’ tutto connesso, ma per l’inumano è tutto scollegato – per l’italiano, più ancora. Archi voltaici di superfina elettricità corrono da un elemento all’altro, ma l’umano ora si annoia a leggere questo racconto – l’italiano più ancora.
L’umano non è l’animale politico, è l’animale che si annoia.
L’italiano è il culmine della noia.
[…]

Recensione e intervista sul romanzo Hitler sulla Gazzetta del Sud

hitlercovermedia.jpgE’ per me un onore che uno dei più importanti quotidiani del Sud, la Gazzetta del Sud, abbia deciso di dedicare uno spazio tanto esteso a considerazioni e domande al sottoscritto a proposito del romanzo Hitler. Come già detto, è fondamentale che la militanza culturale, soprattutto da parte degli autori, per quanto possibile, includa ed esalti il Sud del Paese, laddove le rilevazioni delle classifiche di lettura sono piuttosto incerte, mentre la fame di cultura, e di letteratura, è altissima, da come si desume se solo si osserva la quantità di eventi culturali organizzati a ciclo continuo in ogni regione. In questo caso desidero ringraziare Antonio Prestifilippo, che ha scritto giudizi lusinghieri e mi ha posto domande (anche sul futuro della mia scrittura, sui rapporti con gli altri scrittori, sull’effetto che mi fanno le critiche) a cui è stata una gioia rispondere, instaurando un dialogo che, almeno per quanto mi riguarda, è l’elemento essenziale che deve irradiare dal libro.
Non disponendo del file pdf, risproduco pezzo e intervista di Antonio Prestifilippo in html, qui di seguito.

Parla Giuseppe Genna, il giovane scrittore che si è cimentato in un’opera ciclopica eppure straordinaria

Hitler, il “non romanzo”

«Avevo un’urgenza sociale e poi c’era un vuoto scandaloso nella letteratura»
di ANTONIO PRESTIFILIPPO
gazzettadelsud.jpgGiuseppe Genna è un giovane scrittore. C’è chi lo ha definito l’ex ragazzo prodigio della letteratura italiana. Ex, non nel senso che egli non abbia più le carte in regola per costituire comunque un esempio nel panorama della narrativa contemporanea, ma per la circostanza che si avvia a diventare un quarantenne. E quindi, un uomo.
Ora, questo quasi quarantenne ha scritto un romanzo che ha disorientato più di un frequentatore di premi letterari e di salottini esclusivi che non ha potuto ignorarlo (soprattutto per la casa editrice che gli ha stampato il lavoro e che è la signora Mondadori) e che allora lo ha affrontato tentando spesso di banalizzare e ridicolizzare le sue 600 e passa pagine dedicate a Hitler. Lui, Genna, un po’ se ne è infischiato e un po’ s’è arrabbiato per qualche veleno di troppo (i cosiddetti critici spesso invidiano gli scrittori) sparso qua e là tra una recensione e l’altra.
Romanzare la vita di Adolf Hitler come ha fatto Genna (Mondadori, pagg. 623, euro 20,00) dev’essere stata, al di là del risultato, obiettivamente un’opera ciclopica, anche perché in queste pagine non c’è un solo fatto inventato. Allora sapete che significa compiere un’operazione del genere? Prendere la storia di un uomo (anzi «un non-uomo, una persona vuota, dentro una bolla vuota»), studiarla tutta senza tralasciare una fonte, un documento, una memoria, appena una traccia e quindi smontarla, rimontarla e darle forma di romanzo, dilatando e sceneggiando anche i momenti, dalla culla della sua nascita al bunker della morte, che apparentemente sembrano insignificanti. Una cosetta da nulla…
Avvertenza: l’ex ragazzo prodigio, oltre a Hitler, ha undici altri libri alle spalle e un paio in gestazione.
Genna, cominciamo da questo librone di oltre seicento pagine. Come le è venuto in mente di romanzare la vita di Hitler?
«Era un vuoto scandaloso nella letteratura mondiale. E un’urgenza sociale che avvertivo con particolare intensità. Hitler è la terza parola più ricercata su Google, è parte integrante dell’immaginario collettivo. L’obbiettivo diventava dunque disgregare questa mitologia, che si autoalimenta e garantisce una vittoria postuma a Hitler. La letteratura non poteva abdicare, mentre il cinema e le altre arti si sono impegnati in quest’opera di demistificazione. C’era quindi da raccontare: romanzare qui non significa inventare, significa dare vita sulla pagina a eventi reali, cosa che la storiografia non può fare».

Continua a leggere “Recensione e intervista sul romanzo Hitler sulla Gazzetta del Sud”

Ancora il “Corriere della Sera”: Cordelli sul romanzo Hitler

hitlercovermedia.jpgFuoriesco per un attimo dal protocollo essenziale del romanzo Hitler (non importa l’autore, non importa il libro: importa la prospettiva a cui si guarda la “cosa” – prospettiva che si invoca non essere unica, che si chiede venga anche contestata) e rimetto i panni dello scrittore che ha pubblicato Hitler. In questi panni, oggi, mi accade di essere felice come non mai. Cosa può infatti desiderare un autore, se non una visione critica (che muove anche appunti importanti) da parte di colui che l’autore stesso da sempre giudica un Maestro? Oggi mi è infatti capitato questo: Franco Cordelli, il critico e scrittore che giudico un Maestro (qui l’intervento che tempo fa gli dedicai sulle pagine dei Miserabili) ha scritto un elzeviro per me sconcertante nella Terza Pagina del Corriere della Sera. Perché sconcertante? Perché Cordelli, come so e come dovrebbe essere risaputo, fa la critica per come la critica dovrebbe essere fatta – non c’è intenzione, riferimento o prospettiva a cui io abbia guardato che Cordelli non enunci, analizzi e discuta. Il discorso generazionale che fa è esattamente rispondente alla mia percezione e alla mia intenzione (rimando a quanto ho scritto sullo sfondamento del genere storico a proposito di Antonio Scurati e altri su Carmilla). La memoria, la cultura, la sensibilità al servizio non tanto della legittimazione, quanto dell’affrontamento del testo: io desidererei che l’atteggiamento critico di Cordelli, che a mio avviso ha il suo apice ne La democrazia magica (Einaudi – scomparso dal catalogo; e sarebbe urgente riproporlo, per tutta la mia generazione), fosse la spina dorsale dell’umanismo che guarda al testo come centro fondamentale di ciò che la letteratura irradia, se riesce a irradiare qualcosa.
Desidero ringraziare moltissimo Cordelli per la sua attenzione e per questa sconcertante profondità di sguardo che mi ha regalato, e voglio anche ringraziare la redazione culturale del
Corriere, che ha permesso che il romanzo Hitler venisse discusso sulle pagine del quotidiano di via Solferino ben due volte e da due prospettive diverse. Davvero: grazie.
Riproduco in due modalità l’intervento di Cordelli: può essere letto in pdf cliccando qui sotto o letto direttamente in html di seguito.
L’elzeviro di Franco Cordelli su Hitler (pdf)
franco_cordelli.jpgElzeviro – Il romanzo biografico di Genna

Adolf da vicino
un tipo allucinato

di FRANCO CORDELLI
Se fosse un film, Hitler di Giuseppe Genna (Mondadori) sarebbe rubricato come biopic. Ma è un romanzo, più difficile stringerlo nel genere biografia. Ciò che in esso colpisce è la spasmodica lotta per sfondare i limiti del genere. Si tratta, insomma, di una lotta per lo stile. In senso strutturale il testo si presenta come somma di momenti culminanti, ben centoundici, più uno denominato «Postmortem». Ma questi culmini, tutti insieme, o uno dietro l’altro, formano una storia, più precisamente una biografia, dal principio alla fine, senza clamorose varianti rispetto all’abbondanza di cognizioni in nostro possesso. A proposito di Hitler, è notevole che l’interesse per questo personaggio, benché continuo, vada a ondate. C’è l’onda alta degli anni Cinquanta, da Trevor-Roper a lord Russell a William Shirer, da Grass a Weiss; c’è l’onda degli anni Settanta, con quella fremente speculazione filosofica che è Il processo di San Cristobal di George Steiner, con Canetti geniale lettore di Speer memorialista del suo Führer, e con l’insuperabile summa che è Hitler, un film dalla Germania di Hans Jürgen Syberberg; c’è infine un altro ritorno nei nostri anni: penso al lavoro di Joachim Fest, a Moloch di Sokurov, a Him di Maurizio Cattelan, l’umile-umiliato pupazzo che ora il regista di Fanny e Alexander, Luigi De Angelis, ha messo in scena in rapporto a Il mago di Oz di Fleming; e c’è, infine, The Castle in the Forest di Norman Mailer, che i lettori italiani ancora non conoscono.
Forse è a quest’ultimo (lo dico intuitivamente) che si può agganciare il testo di Genna. Con il grande scrittore americano Genna ha in comune il vitalismo, se non lo sfrenato bisogno di letteratura, o addirittura di scrittura. Al di là di questi dati, di tipo storico, o sociologico, resta l’abnormità dell’impresa e che essa segua a distanza di poco più di un anno Dies irae, un romanzo- romanzo, di ancor più impegnativa mole. D’altra parte, poiché tra le persone ringraziate alla fine del libro figura Antonio Scurati, come non pensare al suo Una storia romantica? Come non pensare che era un libro di mole considerevole e che sia l’epopea di Scurati sia Hitler di Genna sono romanzi storici, di autori nati nello stesso anno, il 1969? Insomma, ciò che a noi appare sovradimensionato, rispetto alle abitudini recenti, per l’ultima generazione è normale, normale che un romanzo debba avere una certa consistenza e che, evadendo dal genere (nella fattispecie la biografia), di nuovo approdi in antico, al romanzo storico.
Sfogliando una qualunque, buona biografia, per esempio La regina Vittoria di Edith Sitwell, si riscontrano stilemi in Genna assai frequenti. «Guardate — dice la scrittrice inglese — guardate Gladstone che, nel Colosseo, al lume di luna, fa la sua proposta di matrimonio a colei che diverrà sua moglie »; e poco dopo: «Guardate Disraeli, lucciola attempata ma sempre luminosa, che altri biografi definiscono una specie di Byron mediterraneo». Questo invito all’attenzione in Genna è costante. I suoi «guardate », «osservate», «preparatevi » sono così incalzanti da conferire al testo tutt’altra dimensione rispetto alla Sitwell. La Sitwell è discorsiva, ci richiama all’ordine in modo incidentale. Avvertendo l’attuale mancanza di fiducia nel romanzo come opera d’arte, Genna è imperativo. Anzi, percussivo, martellante. Per usare l’aggettivo che più spesso ricorre nel testo, è esorbitante. Per Genna, non c’è ritratto che non sia survoltato: «Il volto largo e unticcio di Bormann si sporge verso il Führer, la bocca dalle labbra a ciliegia». Ma Hitler (cioè l’oggetto della sua narrazione) è una non-persona, un punto di vuoto, ovvero il male, anzi il Male: per Genna la Storia è un’entità allegorico- metafisica. Antagonista, rispetto a questo inestimabile deserto (il deserto è dove appare il diavolo), è, nell’inerzia della struttura biografica, lo stile, anzi l’eccesso stilistico: in Hitler di Genna tutto è euforico, esclamativo, lapidario. A soggetto posticipato, o ripetuto e posticipato, ogni frase è breve, fino a configurare una specie di monstrum paratattico.
Ogni frase, come nella psiche di Hitler quale descritta da Genna, è un inizio e una fine, una fine e un inizio. Rapidamente, si passa dagli espressionisti tedeschi ai romanzieri storici di oggi, tutti soggetto e verbo. Hitler davvero non è più una biografia, bensì un libro forsennato e, più precisamente, un allucinato libro di storia allucinatoria.

Avvicinamenti al romanzo: Giglioli su Littell

1. Avvicinamenti al romanzo: Wu Ming 1 e Piperno su Littell
2. Avvicinamenti al romanzo: Claude Lanzmann
3. Avvicinamenti al romanzo: Paolin sulla recensione a Littell di Piperno
4. Avvicinamenti al romanzo: Solinas e la conferma dell’errore di Littell
5. Avvicinamenti al romanzo: io, Littell e Leopardi
6. Avvicinamenti al romanzo: le bozze
7. Avvicinamenti al romanzo: audio – Levi Della Torre e Mengaldo
8. Avvicinamenti al romanzo: da Autet su Littell
9. Avvicinamenti al romanzo: la rappresentazione del Male
10. Avvicinamenti al romanzo: rappresentare le vittime del Male, rappresentare chi fa il Male
gigliolicover.jpg[Riprendo dalle pagine culturali de il Manifesto del 30 novembre un articolatissimo e per me assai condivisibile intervento su Le Benevole di Jonathan Littell, a firma di uno dei migliori critici di cui disponiamo, Daniele Giglioli, autore del bellissimo saggio All’ordine del giorno è il terrore (edito da Bompiani nella collana Agone; ne consiglio davvero a tutti la lettura), che non è soltanto uno dei migliori esempi di critica tematica apparsi in Italia: è anzitutto la critica per come uno scrittore contemporaneo desiderebbe venisse esercitata – un esercizio di pensiero che aiuta lo scrittore a pensare. Ovvero lo sforzo di ridefinizione delle coordinate critiche soltanto a patto che lo scrittore ridefinisca e pratichi la forma romanzo, in una modalità che spacchi o eluda la finzione che la realtà tenta di emettere, nascondendo il tragico del reale, che resta immutato, resta il reale… gg]
DIETRO IL MURO DELLA FINZIONE
di Daniele Giglioli
littellface.jpgCaso letterario dell’anno, Le Benevole di Jonathan Littell [a sinistra] sembra essere un libro capace di generare, tra l’altro, una sorta di dissonanza cognitiva: avendone letto sulla stessa pagina del «manifesto» la doppia recensione di Emanuele Trevi – che ne parlava bene, e di Massimo Raffaeli – che ne scriveva male, mi sono detto: hanno ragione tutti e due. Anzi, peggio: sono d’accordo con entrambi. Labilità di carattere? Può darsi, ma forse è implicato anche qualcos’altro, e più interessante: una crisi – non solo personale – di paradigmi critici.
Come spiegare altrimenti l’enorme investimento promozionale che ha accompagnato il lancio delle Benevole, e il vespaio di reazioni che ha suscitato? È un libro furbetto – si è scritto; no, è un capolavoro; è indecente, immorale, oltraggioso; macché, gli dobbiamo eterna gratitudine. Perché questa necessità di schierarsi così drasticamente, come se fosse una questione di vita o di morte?

Continua a leggere “Avvicinamenti al romanzo: Giglioli su Littell”