E’ per me un onore che uno dei più importanti quotidiani del Sud, la Gazzetta del Sud, abbia deciso di dedicare uno spazio tanto esteso a considerazioni e domande al sottoscritto a proposito del
romanzo Hitler. Come già detto, è fondamentale che la militanza culturale, soprattutto da parte degli autori, per quanto possibile, includa ed esalti il Sud del Paese, laddove le rilevazioni delle classifiche di lettura sono piuttosto incerte, mentre la fame di cultura, e di letteratura, è altissima, da come si desume se solo si osserva la quantità di eventi culturali organizzati a ciclo continuo in ogni regione. In questo caso desidero ringraziare Antonio Prestifilippo, che ha scritto giudizi lusinghieri e mi ha posto domande (anche sul futuro della mia scrittura, sui rapporti con gli altri scrittori, sull’effetto che mi fanno le critiche) a cui è stata una gioia rispondere, instaurando un dialogo che, almeno per quanto mi riguarda, è l’elemento essenziale che deve irradiare dal libro.
Non disponendo del file pdf, risproduco pezzo e intervista di Antonio Prestifilippo in html, qui di seguito.
Parla Giuseppe Genna, il giovane scrittore che si è cimentato in un’opera ciclopica eppure straordinaria
Hitler, il “non romanzo”
«Avevo un’urgenza sociale e poi c’era un vuoto scandaloso nella letteratura»
di ANTONIO PRESTIFILIPPO
Giuseppe Genna è un giovane scrittore. C’è chi lo ha definito l’ex ragazzo prodigio della letteratura italiana. Ex, non nel senso che egli non abbia più le carte in regola per costituire comunque un esempio nel panorama della narrativa contemporanea, ma per la circostanza che si avvia a diventare un quarantenne. E quindi, un uomo.
Ora, questo quasi quarantenne ha scritto un romanzo che ha disorientato più di un frequentatore di premi letterari e di salottini esclusivi che non ha potuto ignorarlo (soprattutto per la casa editrice che gli ha stampato il lavoro e che è la signora Mondadori) e che allora lo ha affrontato tentando spesso di banalizzare e ridicolizzare le sue 600 e passa pagine dedicate a Hitler. Lui, Genna, un po’ se ne è infischiato e un po’ s’è arrabbiato per qualche veleno di troppo (i cosiddetti critici spesso invidiano gli scrittori) sparso qua e là tra una recensione e l’altra.
Romanzare la vita di Adolf Hitler come ha fatto Genna (Mondadori, pagg. 623, euro 20,00) dev’essere stata, al di là del risultato, obiettivamente un’opera ciclopica, anche perché in queste pagine non c’è un solo fatto inventato. Allora sapete che significa compiere un’operazione del genere? Prendere la storia di un uomo (anzi «un non-uomo, una persona vuota, dentro una bolla vuota»), studiarla tutta senza tralasciare una fonte, un documento, una memoria, appena una traccia e quindi smontarla, rimontarla e darle forma di romanzo, dilatando e sceneggiando anche i momenti, dalla culla della sua nascita al bunker della morte, che apparentemente sembrano insignificanti. Una cosetta da nulla…
Avvertenza: l’ex ragazzo prodigio, oltre a Hitler, ha undici altri libri alle spalle e un paio in gestazione.
Genna, cominciamo da questo librone di oltre seicento pagine. Come le è venuto in mente di romanzare la vita di Hitler?
«Era un vuoto scandaloso nella letteratura mondiale. E un’urgenza sociale che avvertivo con particolare intensità. Hitler è la terza parola più ricercata su Google, è parte integrante dell’immaginario collettivo. L’obbiettivo diventava dunque disgregare questa mitologia, che si autoalimenta e garantisce una vittoria postuma a Hitler. La letteratura non poteva abdicare, mentre il cinema e le altre arti si sono impegnati in quest’opera di demistificazione. C’era quindi da raccontare: romanzare qui non significa inventare, significa dare vita sulla pagina a eventi reali, cosa che la storiografia non può fare».
Non c’è dubbio. Tuttavia, lei ha detto che Hitler è un problema metafisico. Può essere raccontato, come lei ha fatto, nei suoi rapporti umani, cioè con gli altri esseri?
«Da un lato l’esigenza è slegare la supposta “unicità” di Hitler, in quanto mito del Male, dall’autentica unicità della Shoah. D’altro canto la “questione Hitler” è immediatamente metafisica, perché rimanda a una domanda fondante: cos’è il Male? Può essere che uno faccia il Male sapendo di farlo e non scambiandolo per Bene? In questo Hitler si differenzia dagli altri carnefici della storia umana. La nozione di non-persona è mutuata dal biografo Joachim Fest: indica una persona che è totalmente priva di empatia e vive in una bolla vuota. Questa non-persona impone alla specie una ferita abnorme: l’annullamento della pietà e del sentimento dell’altro umano. Questa ferita è il Nulla: Hitler irradia il Nulla. È un Nulla che appare storicamente, ma non è più l’Essere, non è più l’umano».
Il suo lavoro è stato molto coraggioso ma ha diviso i critici in maniera netta, senza vie di mezzo. Ho letto ottimi giudizi (Cordelli e altri) ma anche pesanti stroncature come quella di D’Orrico e Cortellessa, con quest’ultimo che l’ha definita “improbabile scrittore”. In particolare l’accusano anche di emettere sentenze ad ogni riga. Che cosa risponde?
«La materia in questione verte su milioni di morti e dunque non è tanto sulle recensioni che mi sento di spendere parole. Gli articoli nascono spesso da simpatie o antipatie personali. Quanto alla supposta emissione di sentenze a ogni riga, vorrei centrare l’attenzione che una delle voci del libro è proprio la voce del Nulla hitleriano: è quell’estetica che cerca di imporsi con una retorica enfatica, che fa da maschera al Nulla e rovescia l’umanismo. Se poi questo non viene compreso, può essere colpa dell’autore o colpa del lettore».
Il tema della critica letteraria è al centro di un dibattito piuttosto ampio sui giornali e sulla Rete. Esiste ancora in Italia una critica letteraria di cui ci si può fidare? E se potesse scegliere il recensore del suo Hitler a chi penserebbe?
«Claude Lanzmann, l’autore di Shoah, è l’unico recensore che vorrei per il libro: vorrei sapere se ritiene che io abbia rispettato il suo magistero, che è di non trovare una spiegazione a Hitler, per non giustificarlo storicamente. Quanto alla critica, il discorso sarebbe lungo. Mi limito a osservare che, al momento, la migliore critica la stanno facendo gli scrittori – certi scrittori, intendo».
Lei ha già scritto dodici libri e non ha neanche quarant’anni. Da dove nasce e come è cominciato questo suo appassionato e inquieto “bisogno” di scrittura?
«Dal desiderio di studio e di espressione. Non credo a ideologie dell’ispirazione. E poi da una certa precocità: molto giovane, ero sotto l’ala del poeta Antonio Porta e a ventun anni lavoravo in una palestra letteraria come la rivista “Poesia” di Crocetti».
C’è qualche autore contemporaneo italiano che stilisticamente in qualche modo le somigli o viceversa, a prescindere dalla sua amicizia con Antonio Scurati? E a chi guarda con curiosità?
«Sono amico di Scurati dai tempi dell’università, ma anche di Domanin. Stimo moltissimo Evangelisti, Wu Ming, De Michele, Babsi Jones, Pincio, Parrella, Muratori e Mozzi. Credo che il lavoro più importante nell’allargamento dei moduli letterari e della diffusione anche propedeutica della narrativa sia stato fatto in questi ultimi dieci anni essenzialmente da Valerio Evangelisti e dal collettivo Wu Ming».
E chi legge degli stranieri? E perché?
«Leggo di tutto, quanto a stranieri. Sono convinto di una netta potenzialità che mette la narrativa e la poesia italiana all’avanguardia della letteratura internazionale. Non si può prescindere tuttavia da certi nomi, da Roth a DeLillo a Wolfe per l’America, da Houellebecq per la Francia, da Handke e dalla Kristof. Mi convince meno l’area britannica, molto di più quanto arriva dall’Africa e dall’India».
In Italia c’è poca circolazione di idee? Il web, i blog non costituiscono anche un modo di diffondere pseudo letteratura a buon mercato facendo disperdere nel nulla quel poco di buono che pure esiste?
«Dipende dai criteri di chi ricerca. La letteratura sembra marginale socialmente, ma non lo è di fatto e lo sembrerà sempre meno. Non credo nella dispersione, penso invece che la creazioni di comunità sia uno strumento educativo e di interlocuzione che porta all’alto, alla realizzazione di potenzialità creative. È uno dei nuclei politici in gioco in questi anni di omologazione e alienazione diffusa. Non esiste una purezza della letteratura, ma deve esistere un artigianato e questo lo si impara, se si ha voglia. Lei, se incontra pagine di letteratura falsa, le legge? No: salta in altri luoghi dove un lavoro si sta compiendo».
Dopo questo Hitler a cosa sta pensando?
«Ci sono due progetti in corso, che riguardano quattro libri. Uno riguarda un libro molto italiano e “pasoliniano”. Un altro una trilogia estremamente particolare, a cui tengo perché guardo a Moby Dick in maniera davvero strabica. Bisogna vedere cosa interessa all’editore».