Consulenza esistenziale: terapia e dharma

Questo brano è uno dei centrali del saggio Io sono (il Saggiatore, 2015). Vi si affrontano sostanza e modi della terapia come momento esistenziale, non psicodinamico o clinico, poiché non ha a che vedere con tali àmbiti il counseling esistenziale, che nel saggio è proposto come momento di reintegrazione personale.

Che cos’è la terapia

L’etimologia è una forma del sentire piacere, che pone il soggetto in stato di gioco: il soggetto gioca nella storia. Non essendo storica la coscienza, è possibile approfittare di questa condizione che è sentita come intimità e identità: la situazione ludica approntata dalla ricerca dell’etimo non permette soltanto di dire il significato, la cui enunciazione è un rapporto con l’esternalità, bensì di avvertire esperienzialmente il punto di perno in cui la possibilità di dire manca e non resta che sentire.

Terapia proviene dunque dal greco antico: therapeía, sostantivizzazione del verbo therapeuō.

Essa è sicuramente cura, nel senso più complesso e intenso (il prendersi cura di), ma segnala anche uno spostamento semantico che rimane implicito nel termine traslato. Significa anche servizio, rispetto, culto e assistenza alla deità. Questo slittamento è determinato dall’oggetto del servizio, ovvero la deità.

Il discorso platonico è estremamente esplicito su questo punto:

Socrate: Ma allora che specie di cura degli dèi sarebbe la santità?
Eutifrone: Quella cura, Socrate, che i servi hanno per i loro padroni.
Socrate: Capisco. Sarebbe all’incirca, da quel che comprendo, l’arte di servire agli dèi?[1]

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Cura coscienziale, testualità, senso di sé

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Tra concetti fluidi e analogie creative, tra esperienze di canoni disciplinari e determinismi, tra idealizzazioni dell’esame universitario o di maturità ed emergentismi, tra analisi e sintesi, io non ho altra possibilità che il fare. Il mio fare è, in qualche modo, il fare un testo. Da decenni sono automaticamente avvilito al pensiero e alla consapevolezza di conoscere davvero poco, e dico nozionisticamente, quasi che io dovessi essere ciò che non sono, ovvero un critico, e non uno che, il libro, lo scrive. Non mi è ancora riuscito di “coscienzializzare” il fatto che la mia comprensione del mondo e di me stesso avviene nel fare un testo. Non sono mai riuscito a raggiungere il livello del piacere di leggere un testo: l’ho sempre letto per rubare meccanismi, parole, flussi, per costruire teorie e decostruirle appena venivano accennate o rese implicite o esplicitate. Ho in pratica sempre letto da scrittore: in pratica, letteralmente: facendo una cosa, facendo prassi, praticando. Mi è stata data in sorte una fortuna, che era quella di operare in un mondo che considerava il testo un’evenienza necessaria o perlomeno importante. Ciò significa avere avuto la buona sorte di esperire un magistero intorno a ciò che è il leggere e comporre un testo, poetico o prosastico, artistico o saggistico.
Mi rendo perfettamente conto che oggi non è più così. Incontro pochissime persone interessate al testo e, se si scende a un livello di reificazione del testo stesso e cioè il libro, ho a che fare con pochi soggetti che attribuiscono al libro un valore veritativo. Il momento e la situazione che stiamo vivendo, con la sua perenne e troppo intensa stimolazione del sistema nervoso centrale e di quello periferico, mentre il tempo è eroso e non si trovano spazi di pace e sentimento di se stessi, questo panico generalizzato a intensità più o meno bassa, che è un adattamento agli stimoli imposti dal mondo stesso – questa congerie che si chiama Italia 2016 è del tutto disinteressata a inserire tra gli stimoli la lettura di un libro. Il piacere della novità, di una “scena” artistica che regala passi in avanti nello sviluppo delle arti, progressivo e sociale, sembra un esotismo che appartiene a un secolo andato, laddove si ha memoria di un tempo più calmo. Come occuparsi di se stessi, di sentirsi, di essere visti e ascoltati è, a mio avviso, un problema determinante di chi vive insieme a me un simile contesto storico. Per questo ritengo che la cura di sé sia un affare da scrittori e propongo uno spazio in cui il sentimento di se stessi sciolga ciò che impedisce un pieno contatto con la propria mente, il che significa anche con il proprio corpo, con la propria storia, con il proprio apparato emotivo. Questo filtro ostativo è la psiche. La psiche non è la mente. Essa simula un’autonarrazione che è oggi generalmente fallace, perché non restituisce senso a ciò che si fa e che si vive. La psiche manifesta la difficoltà a stare in contatto con la mente, la quale è la potenza di sé, è vasta molto più della funzione psichica. L’ansia generalizzata è risolvibile agendo sulla mente, sul sentimento di sé, molto più che sulla psiche e non sto nemmeno a dire del tentativo di soluzione attraverso il corpo, per esempio con la cura psicofarmacologica. Non che non servano gli psicofarmaci a mettere tranquilli, se la situazione del soggetto è quella sismica e panica. Ciò che sfugge in questo intervento attraverso la chimica cerebrale è il senso di sé, e quindi del mondo, che non risiede nel piano psichico, ma in quello mentale, che laicamente definiamo “esistenziale”. Serve un intervento sul senso, sul senso di sé. Da scrittore posso dire che questo problema del sentimento di se stessi è identico a quello che colpisce il sentimento immersivo della lettura riuscita. Ciò accade anzitutto perché qualunque piano di qualunque umano vivente nell’attuale contesto si presenta in forma di testo e tenta di trascendere la testualità, facendone continua esperienza. La volatilizzazione dell’esperienza testuale mette in crisi l’intero sistema percettivo, non la testualità, che persiste come funzionamento del mondo e di se stessi. Nel saggio “Io sono” (è edito da il Saggiatore) espongo i principi di una terapia della mente, intesa come nuda attività di coscienza e percezione di sé. Tale terapia enuncia la possibilità di un rapporto di cura di sé e della propria vita, che può essere interpretato come counseling, cura coscienziale o esistenziale, auditing attivo, ascolto trasformativo, neopsicologia.E’, insomma, la premessa a un’alleanza concreta che sciolga il problema del senso, ovvero lavori su un’eziologia coscienziale del complesso psichico. E’ dunque anche la premessa per un intervento concreto: è un lavoro ed è identico alla scrittura di un libro, praticata insieme – io, lo scrittore e terapeuta, insieme al cliente o paziente, a sua volta scrittore e terapeuta di se stesso. Il dipinto di scuola tantrica del XVII secolo, allegato qui accanto, significa di fatto la situazione esterna e interna di tale terapia Quando parlo di testo o testualità, del resto, non intendo esclusivamente qualcosa di scritto, bensì la trama e l’ordito e il vuoto interiore ed esteriore in qualunque manifestazione che venga percepita dall’umano, con qualunque senso, specificamente con il senso interno, che sintetizza e restituisce appunto una testualità. Il dipinto tantrico è dunque un testo ed è la situazione terapeutica a cui mi riferisco. Questa situazione è uno spazio in cui avviene il testo, tra due persone, all’interno delle due singole persone. Ciò si dice, nel momento in cui appare la parola: letteratura. La letteratura non è intaccata dal momento storico, mentre ne siamo intaccati noi, il che definisce un problema non letterario, che la potenza del testo è in grado tuttavia di risolvere a pieno.

Marco Belpoliti su tuttoLibri: su “Io sono”

Una lavagna nera perla critica della ragion impura di Genna

di MARCO BELPOLITI
[La Stampa, ttL, 30 maggio 2015]

Senza-titolo-1-e1424533197642La copertina è fustellata in modo che si apra una «finestra» quadrata. Dentro c’è un’immagine: un riquadro nero racchiuso da una cornice, su cui è scritto «Et sic in infinitum». Si tratta di un dettaglio della pagina nera di Robert Fludd, tratta da un’opera intitolata: Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica,physica atque technica historia, e pubblicata da Oppenheim nel 1617. Nessuna immagine definisce meglio l’opera di Giuseppe Genna, sia questa su cui compare (Io sono), sia la sua opera narrativa in generale. Genna è un discendente di Fludd, medico teosofo e alchimista, vissuto nel corso del Rinascimento e l’inizio dell’età barocca. E alchimista è anche Giuseppe Genna, che prova qui a fondare una teoria e una pratica della coscienza.
Cosa sia Io sono non è facile da dire. Un libro di filosofia, un’autobiografia in forma di pensiero, un manuale di terapia della coscienza, uno studio sulle origini della medesima, un saggio letterario, un’esperienza estatica in forma di riflessione, una pratica di ricomposizione del trauma?
Tutto questo, ma anche un saggio di epistemologia condotto da un autore coltissimo e insieme meravigliosamente dilettante, quel dilettantismo che è proprio solo dei poeti e degli scrittori che prescindono da tutto e tutto affrontano. Io sono è un modo per scagliare il proprio Io al di là del muro del narcisismo corrente, elevarlo nel Regno che si apre oltre le identificazioni personali. Si tratta senza dubbio di uno scritto terapeutico, un gigantesco sforzo d’ingaggiare un confronto-scontro con le proprie pulsioni più profonde. Incanalate nelle elucubrazioni di quest’opera singolare, le parole di Genna costituiscono un viaggio dentro la mente estatica, uno dei pochi viaggi oggi possibili ai lettori in lingua italiana. L’estenuazione filosofica degli «istanti coscienziali», opera dell’autore di Fine impero (minimum fax), è perfettamente rappresentata dalla copertina: la «lavagna nera» di Fludd.
Scrivendo la sua «critica della ragion impura», Genna ha cancellato sulla superficie della sua mente tutto quello che c’era prima, e vi ha inscritto un nuovo segno calligrafico, in verticale e in orizzontale: cardo e decumano del suo pensiero zizzagante. Sul fondo bianco elegantissimo della collana «La Cultura» dell’editore il Saggiatore, la «lavagna» di Fludd appare come uno spazio altro, remoto e insieme vicino, dove «io sono». Per sempre, e al nero.

Giuseppe Genna
«Io sono»
il Saggiatore, pp. 326, € 18

Da “Io sono”: un capitolo sulla terapia psicologica della coscienza

61z+tODMNmLIl saggio Io sono (il Saggiatore) si concentra sulla domanda: cos’è la coscienza? Si dà un profilo storico e filosofico della questione, una descrizione di ordine pratico metafisico, un perimetro sulla coscienza per come è avvertita dal fenomeno umano, linee generali di una terapia psichica basata sull’attività semplice di coscienza e, infine, una lettura dell’apparizione del momento coscienziale in certi testi letterari (da Hölderlin, Kafka, Melville, Lovecraft, Burroughs e i tragici). Riproduco un capitolo dalla sezione che concerne la terapia, che è il momento concreto qualificante del testo: si cerca infatti di stabilire come è attuabile una psicoterapia a indirizzo coscienziale, a partire dall’etimologia e dalla sistematica metafisica.

Che cos’è la terapia

L’etimologia è una forma del sentire piacere, che pone il soggetto in stato di gioco: il soggetto gioca nella storia. Non essendo storica la coscienza, è possibile approfittare di questa condizione che è sentita come intimità e identità: la situazione ludica approntata dalla ricerca dell’etimo non permette soltanto di dire il significato, la cui enunciazione è un rapporto con l’esternalità, bensì di avvertire esperienzialmente il punto di perno in cui la possibilità di dire manca e non resta che sentire.
Terapia proviene dunque dal greco antico: therapeía, sostantivizzazione del verbo therapeuō.
Essa è sicuramente cura, nel senso più complesso e intenso (il prendersi cura di), ma segnala anche uno spostamento semantico che rimane implicito nel termine traslato. Significa anche servizio, rispetto, culto e assistenza alla deità. Questo slittamento è determinato dall’oggetto del servizio, ovvero la deità.
Il discorso platonico è estremamente esplicito su questo punto:

Socrate: Ma allora che specie di cura degli dèi sarebbe la santità?
Eutifrone: Quella cura, Socrate, che i servi hanno per i loro padroni.
Socrate: Capisco. Sarebbe all’incirca, da quel che comprendo, l’arte di servire agli dèi?

[1]

La deità è l’emblema testuale della pura coscienza personale, del sentimento d’essere, in questo caso. Non è un problema, si sa, di religiosità, per quanto concerne le dottrine platoniche: è invece una questione di orientamento metafisico, di prospettiva metafisica, cioè di pratica metafisica.
L’indicazione sulla pratica terapeutica è in questo caso inscritta in un percorso metafisico.
Il rapporto terapeutico tra se stessi e se stessi, cioè tra “io” e “paziente”, è un’adeguatezza per cui il rapporto è possibile: è la possibilità di unità. L’assolutamente altro, l’impercepito in quanto impercepibile, non contempla rapporto. Soltanto l’adeguatezza permette rapporto: la luce è adeguata alla percezione ottica del composto biologico umano – e viceversa.
Questa adeguatezza terapeutica si dice, quanto alla psiche, la quale è una struttura possibile della mente, con il termine empatia, sul quale bisognerà chiarirsi e ci si chiarirà, più avanti in questo testo.
Questo “stare all’altezza di”, questo rapporto che tiene presente il dato fondamentale dell’unità, questo consentire, nel caso della terapia, è qualificato come “servire”.
“Servire a” e “servire per” è un’etimologia che serve a chiarire l’aspetto più rilevante della qualificazione terapeutica, cioè la distinzione polarizzante tra soggetto che terapeutizza e oggetto terapeutizzato.
Nel rapporto terapeutico sembra essere il soggetto presumibilmente attivo ad assumere su di sé il portato semantico dell’etimo.
E’ dunque da indagare l’occorrenza del derivato theràpōn: il terapeuta è anzitutto il soggetto attivo della terapia, più che il soggetto che riceve la terapia stessa.
E’ nel greco evangelico che il theràpōn dispiega la sua più intensa e interpretabile significazione, laddove si legge:

Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo (theràpōn) ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

[2]

Come deve accadere secondo il richiamo che la parabola esercita, questa occorrenza deve essere interpretata – ecco l’adeguato rapporto terapeutico che si esplica in sede testuale (o sottotestuale: la parabola è un sottotesto, così come il pensiero consapevole è un sottoprodotto della psiche).
Chi è il theràpōn che è qui servo? E’ colui che deve prendersi adeguatamente. Se si prescinde dal quadro di riferimento culturale, che in termini di psicologia evoca immediatamente le coppie dovere/colpa e proprietà/lavoro e censura/paura, esprimendosi in termini di legislazione e imposizione (il che è adeguato alla finitezza e alla natura dualistica del linguaggio stesso), bisognerà collocare le azioni e i ruoli di questa scena, che come tale è sempre intima e cioè è tragica poiché emerge nella coscienza, all’interno della potenza che qui si esprime e che qualifica la scena stessa con l’azione e i ruoli medesimi: tale potenza qualificante è l’adeguatezza, è l’adeguazione.
E’ precisamente ciò che nella metafisica scolastica diverrà il movimento unificante per analogizzare la linguificazione del mondo da parte del fenomeno umano: adaequatio rei et intellecti. Tale impiego è significativo.
Il theràpōn si adegua a una situazione: sta in un quadro di riferimento e compie ciò che il quadro di riferimento implica.
Appena il theràpōn soddisfa le esigenze adeguate al suo compito, egli è detto “servo inutile”. Ciò ha un duplice significato: il quadro di riferimento scompare, non è più effettivo; il theràpōn non è più tale. Il servo senza padrone e il padrone senza servo sono uguali: sono due persone libere. Essi sono unificati.
Sotto questa luce la terapia è un processo di unificazione in una scena a due, dove la scena stessa è il campo tensivo tra soggetto e oggetto, con l’azione di adeguatezza che conduce la scena stessa al collasso, o, come si dirà, all’azzeramento, cioè a una situazione inutile, laddove l’inutilità è la traccia in negativo dell’indifferenziazione stessa.
Questa situazione di adeguatezza unificante ha forse qualche riflesso se si considera la radice etimologica del verbo principale therapeuō, che viene identificata in questo modo:

THER-, THAR-, = sser. DHAR- tenere, sostenere (cfr Fermo) [3]

E’ qui evidenziato il legame etimologico tra theràpōn e servo.
E’ però effettuato un passo ulteriore. La determinazione della radice greca nel senso del “sostenere” fa richiamo al verbo greco ìstemi, da cui deriva “stato”.
Questo sostegno è uno stato. Il servire è relativo a uno stato. Il terapeutizzare è stare in uno stato.
Ciò che regge gli stati è la sostanza.
Sono qui esplicite le indicazioni di ordine metafisico a partire dal gioco testuale, cioè linguistico.
L’indagine etimologica scopre un ulteriore apparentamento, che fa luce sui rapporti tra lavoro psichico e lavoro coscienziale. E’ infatti recepita la radice DHAR- che è comune al sanscrito, ovverosia alla lingua in cui viene enunciata la prospettiva metafisica Advaita, che qui si è considerata quale momento espressivo per coniugare il lavoro coscienziale con l’orientamento nondualistico.
L’immediato riferimento che la radice DHAR-, o DHR-, esercita sull’espressione metafisica è il sostantivo sanscrito dharma, che viene quindi a essere connesso, per identità tanto quanto per analogia, con therapeía.
L’intensità semantica, e quindi storica e storico-linguistica, di questo sostantivo sanscrito è attestata dalle sue occorrenze in testi metafisici, sacri e di operatività psicologica.
L’etimologia del sostantivo dharma deriva dalla radice verbale DHAR- o DHR, che ha il significato di sostenere, trattenere, rendere stabile.
Dharma è dunque “ciò che è stabile”, lo statuto e lo statuito nella loro unità indifferenziata, e può essere inteso in modo polivalente, quale fondamento che si esprime nell’ordine sociale o in quello morale. Più precisamente, dharma è anche la conformità con la norma, cioè l’adeguatezza nel senso della sintonia e dell’accordo con la natura inqualificata o qualificata delle cose.
La posizione dharmica è conseguentemente espressione di uno stato devozionale che non ha nulla dell’inquinamento emotivo che si è soliti attribuire alla devozione: è un accordo di nota, è un’armonia, la statuizione dell’adeguatezza d’onda.
Per quanto concerne la significazione spirituale del termine dharma, “cammino” e “dovere” risultano accezioni frequenti, laddove il “cammino” è il sentiero che sostiene e costituisce il supporto, cioè la base stabile sulla quale ci si muove.
Alla radice della terapia è il movimento di unificazione che adegua l’accordo tra due distinti, producendo uno stato più inqualificato di quello in cui appariva assolutamente reale la distinzione.
Un’occorrenza del termine theràpōn, decisiva per il discorso sulla terapia qui in discussione, restituisce senso a questo movimento che si sussume in uno stato sempre meno inqualificato rispetto a quello in cui si è identificati.
L’occorrenza in questione determina la struttura stessa, se così si può dire, della dinamica del processo terapeutico coscienziale – cioè mosso dalla e verso la coscienza, per sintesi dal dualismo psichico, velante e identificante.
Si tratta dell’origine stessa della testualità testuale occidentale. E’ il mito di Orfeo, determinato quale theràpōn.
E’ il momento in cui il mito si qualifica in tragedia, assumendo la qualificazione tragica del mito stesso. Questo passaggio, osservato nel suo momento di ritorno, è oggetto di discussione in un capitolo a parte di questo testo.
L’andamento del mito orfico è emblematicamente il movimento stesso dei passaggi e dei “salti” in una terapia mossa dall’autoriconoscimento coscienziale.
Orfeo è detto theràpōn di Dioniso. [4]
In questo caso è theràpōn colui che è emblema e rappresentante del dio: lo qualifica nel rito che è il reale a uno stato di manifestazione più fenomenica e individuata di quella natura in cui vive il dio. Il rito è la carnificazione dell’inqualificato, il quale a sua volta è una determinazione dell’inqualificata unità, che è la coscienza pura.
E’ evidente che ci si muove qui in un duplice senso della testualità: il testo assoluto come prospettiva sulla dualità (la possibilità di leggere, cioè percepire, la dualità, in modo da autoveicolarsi in stati riassuntivi della dualità); e il testo che è fabula del mito orfico.
Sono da considerarsi effettivi, in quanto strutture veicolari verso stati di coscienza meno qualificati dello stato psichico, due miti che concernono il mito superiore: due momenti coscienziali del mito orfico.
Il primo e più facilmente leggibile, nel senso dell’interpretazione dialettica della mente separativa che è la psiche a matrice testuale, è ciò che accade alla fine del mito orfico, ovvero lo smembramento di Orfeo. Qui si ripete efficacemente il movimento di Dioniso sub specie di Zagreo: così come il dio viene fatto a pezzi per rinascere, sperimentando una “passione” che in molti esegeti hanno sottolineato nelle similitudini con quella cristica, ecco che Orfeo incarna il dio stesso ripetendo la struttura del processo di rinascita, attraversando la notte oscura.
Tale notte oscura rappresenta il “salto” tra stati ontologici diversi, il quale è avvertito effettivamente come nero.
La substantia nigra è la sperimentazione psichica delle fasi che preparano a un salto coscienziale.
Il terapeutizzato, tanto quanto il theràpōn, sperimenta l’identificazione psichica come distruzione della falsa identità: come smembramento.
Vivendo questa fase temporale la coscienza si autoriconosce come atto presente inqualificato.
Non è evidentemente qui l’orfismo che interessa, quanto la struttura stessa del mito, che è possibile metabolizzare interiormente, rendendola efficace in quanto esperienza reale. Il mito propone una struttura dinamica realizzabile interiormente. La ripetizione della struttura mitica, effettuata interiormente, non è una ripetizione che si limita a un’orizzonatlità: non ci si muove nello stesso stato ontologico in cui ci si trova nel momento in cui si conosce intellettivamente il mito. La struttura mitica è un fattore esperienziale che veicola in stati meno qualificati di quello in cui la fabula appare ed è leggibile, ascoltabile, percepibile.
Questo passaggio è il movimento della cosiddetta guarigione: è il movimento alla guarigione.
Il secondo momento qualificante del mito orfico è costituito da ciò che si dice: “discesa agli inferi”. Orfeo discende a recuperare Euridice. Ciò significa: una parte che è fuori dagli inferi discende nel buio perturbante per recuperare un’altra parte di sé che non è naturale che stia lì. Si tratta di recuperare un riflesso psichico che si trova in un fondaco oscuro. Ciò implica l’esperienza che si qualifica in due stati individuati, cioè due movimenti che si interpenetrano nel momento in cui ci si rapporta al fondo perturbante: la “discesa” e la “tenebra”. E’ questa avventura, cioè questa esperienza effettiva, che la psiche è costretta a compiere per adempiere all’opera di reintegro.
L’opera di reintegro coscienziale è effettuata dalla psiche come propria “opera al nero”, per utilizzare un termine iniziatico che, in quanto tale, è anche psichico.
Si scioglie una componente di sé dalla tenebra: la si riporta alla luce, dove avviene l’unificazione amorosa.
In questa unificazione si dà lo stato luminoso, non buio, in cui la dualità viene trascesa dalla psiche.
Vengono indicate [5] due varianti del mito che illuminano l’operazione di riattivazione di una parte di sé che sembra morta, dimorante nella tenebra.
La prima variante: Orfeo deve discendere nel regno tenebroso e, con le sue arti, convincere gli dèi a rilasciare Euridice, per riportarla alla luce. Lo fa e non riesce.
La seconda variante: Orfeo discende agli inferi e le deità comprendono che egli non riuscirà nell’opera, quindi proiettano un fantasma che ha forma di Euridice, ma non è lei. Orfeo sbaglia.
Vengono qui indicate tre condizioni psichiche.
La prima è l’opera effettiva di risoluzione dell’identificazione psichica, che ha da essere riportata in uno stato in cui non c’è alcuna identificazione, poiché c’è soltanto identità, cioè unità. Questo processo di unificazione, se fallisce nonostante le qualificazioni della psiche, che la rendono adatta a tale operazione, introduce a una situazione di lutto alla luce e di smembramento, come da momento di processo coscienziale sopra esaminato. Questo lutto alla luce indica uno stadio successivo nell’ordine delle esperienze coscienziali: si passa a quella che potrebbe definirsi, con ardita analogia, “opera al bianco” della psiche. E’ uno stato di mezzo che segue alla nigredo psichica: la psiche, avendo fatto esperienza non stabilizzata della sua identità coscienziale, prova un lutto, una mancanza, che si risolve con il processo a cui è sottoposto Orfeo in quanto theràpōn del dio: lutto, ascesa sulla vetta, rapporto con il minerale e il vegetativo e l’animale, canto ininterrotto, smembramento, rinascita. Questo percorso indica fasi di realizzazione coscienziale effettiva da parte della psiche. E’ importante comprendere che il momento infero non è lo smembramento, secondo testualità letterale.
La seconda condizione psichica che viene indicata dalle varianti del mito è quella in cui consiste la difficoltà più formale e concreta del lavoro psichico orientato dalla sensazione pura di coscienza: il soggetto ritiene di compiere un’opera che non sta realizzando, poiché la zona tenebrosa rimanda una proiezione che acconta la psiche, cioè una più sottile e insidiosa proiezione con cui essa si identifica. E’ in questo momento psichico che si dà la necessità di una disidentificazione altrettanto sottile quanto il fantasma che viene proiettato dalla zona oscura. In questo benessere temporaneo che la psiche prova, essendo convinta di compiere la propria “opera al nero”, si annida un dolore più radicale per la psiche stessa. E’ come se la psiche si sentisse “alla luce” non essendolo. L’intervento disidentificante, in questo segmento del lavoro coscienziale, richiede un’intensità pericolosa. Serve cioè una qualificazione psichica, per adire a un’opera di sussunzione nell’esperienza di pura coscienza: il soggetto psichico non può essere fratturato in senso strutturale. Il soggetto psicotico, se iniziasse questo movimento di discesa e recupero, deflagrerebbe, per esempio. E’ normativo assicurarsi che il soggetto che intraprende una terapia coscienziale sia in un range di coerenza, cioè di identificazione stabile e di costanza della richiesta implicita di disidentificarsi, che il terapeuta coglie come previo motorie dell’intero lavoro coscienziale.
C’è infine una terza condizione, che viene indicata dalle due varianti del mito orfico. E’ estremamente penosa per il sentimento di disagio psichico che ne sortisce. Accade che, nonostante le qualificazioni per compiere il movimento di discesa mirato al recupero, se non dell’identificazione in genere, di un’identificazione in particolare, tale opera fallisca, poiché il campo psichico non è di fatto ancora “pulito”, rischiarato a sufficienza. E’ un momento che accade sempre, in qualunque terapia. Trascina il theràpōn verso il rischio di identificazione con il soggetto terapeutizzato. Dal punto di vista iniziatico, questo rischio di fallimento nella discesa e nel reintegro è una “caduta” ulteriore. Ciò viene enunciato in termini di “purificazione” nel gergo platonico:

Questa emigrazione, che è ordinata ora a me, non è senza dolce speranza anche per chiunque altro il quale pensi di essersi a ciò preparato lo spirito come con una purificazione. […] E purificazione non è dunque, come già fu detto nella parola antica, adoperarsi in ogni modo di tenere separata l’anima dal corpo, e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente, come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua liberazione dal corpo come da catene?

[6]

E’ un passo emblematico, per analogia sostanziale, e funzionale rispetto a qualunque terapia in genere, e nello specifico rispetto a una terapia che sia orientata all’esperienza della coscienza quale sentimento puro d’essere, verso cui si muove la psiche nelle sue richieste di autotrascendimento, intese come bene psichico.
Il passo va reinterpretato, sotto questo risguardo, ricollocando la semantica, che non è altro che una solidificazione e una determinazione di grado più formale e individuato, rispetto all’istruzione platonica.
Si leggerà dunque così: questo movimento di discesa e reintegro della psiche duale in esperienza unificante e inqualificata della coscienza come puro sentimento di essere, che è una morte apparente della psiche in quanto muore il sentimento della dualità, e che io sono costretto a fare, non è privo di dolcezza (ānanda) come base stabile di ciò che vado a esperire, e ciò per chiunque abbia a sufficienza rischiarato il campo psichico, ottenendo solide qualificazioni per compiere quest’opera. […] E tale rischiaramento del campo psichico è, come su altri livelli di esperienza interiore, un’adeguatezza del movimento tra identificazione psichica e sentimento puro d’essere, laddove la psiche riesce a “stare” nel sentimento pulito di se stessa, in un raccoglimento intenso del sentirsi coscienza individuata, che nulla ha a che vedere con i coaguli psichici che danno una forma apparentemente identitaria alla psiche, cioè un’identità psicologica all’individuo. Sentendo la sostanza inqualificata che fa la psiche, la quale sostanza è il sentimento d’essere, il tempo cronologico e psichico, cioè emotivo e cognitivo e somatico, non è presente: è un nunc stans. E’ da qui che la psiche si disidentifica in modo definitivo dalla configurazione che la costringe a provare disagio, in quanto non è pertinente alla sua propria natura.

La terapia è un movimento di due che si fanno prima unità e poi zero.
La terapia coscienziale è una terapia. Significa che la psiche chiede di accedere alla possibilità di sperimentarsi in momenti di unità, avvertendosi come sentimento della coscienza pura, ovvero semplice sentimento di esserci, priva di qualificazioni; e questo è preparatorio a una risoluzione del complesso psichico, il che significa trascendimento dimentico del dolore psichico che è il motore della domanda di terapia da parte della psiche medesima.

[1] Platone, Eutifrone, 13d
[2] Vangelo di Luca, 17-7
[3] Ottorino Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua Italiana, 1907
[4] Gregory Nagy, The Best of the Achaeans – Concepts of the Hero in Archaic Greek Poetry, The John Hopkins University Press,1979
[5] Raphael,Orfismo e Tradizione iniziatica, Edizioni Āśram Vidyā, 1985
[6] Platone, Fedone, 67 b

Prodromi a “Io sono”

La copertina provvisoria di "Io sono" di Giuseppe Genna
La copertina provvisoria di “Io sono” di Giuseppe Genna

Purtroppo non ce la faccio a terminare in tempo la stesura del testo saggistico “Io sono – La terapia della coscienza” (il Saggiatore), dove tento una scalata in un àmbito che frequento da tanti anni e che potrei definire “neopsicologico” – un ossimoro a cui mi costringe l’ambiente e il momento storico, poiché si tratta di esplorare le possibilità terapeutiche di una psicologia metafisica, una clinica e una prassi che oggi in territorio occidentale sembrano non avere diritto d’asilo. C’è una sezione dedicata all’interpretazione della testualità (e in particolare di certa testualità narrativa), che è terminata e pronta per la pubblicazione (Melville, Kafka, Lovecraft, Burroughs, DeLillo come produttori di “buchi bianchi” e non di personaggi e trame), c’è in corso di lavorazione la sezione sulla “religione del trauma” e l’interpretazione del dato metafisico in Freud e Bion e Winnicott e Lacan. Infine c’è totalmente da lavorare il passo introduttivo, che è un lavoro umiliante, poiché devo abbandonare i saperi e risulto, in maniera per me impressionante, un estensore di bigino impressionistico che dice cosa sarebbero il nondualismo e l’occidente: andrebbero stesi diciotto volumi di canone filosofico, storiografico, antropologico, psicologico, neuroscientifico – ma non avrebbe senso alcuno. Si deve andare in una zona dove anzitutto ci si spoglia delle spoglie e, quindi, si risulta imbarazzati, essendo nudi, il che è un’antica malattia dell’età adulta. Lo studio è terminato, il perimetro è completato, manca soltanto la stesura, però la data di consegna del 2 luglio proprio non riesco a rispettarla (è la prima volta nella vita che non rispetto la data di consegna). Per interessate o interessati a questo lavoro, ripubblico il testo dell’aletta: «Uno spettro si aggira per l’occidente: è l’attività della coscienza, che sfugge da sempre ai tentativi di definizione da parte della fisica e delle discipline psicologiche o neuroscientifiche. E mentre sembra entrata in crisi la teoria e la pratica della terapia interiore, sempre più schiacciata dal predominio della cura farmacologica e dall’esplosione in una miriade di pratiche specialistiche, termini come “consapevolezza”, “presenza”, “attenzione” – tutti legati alla costellazione della coscienza – stanno orientando profondamente teorici e operatori della psiche. Partendo dalla centralità del “fenomeno coscienza”, questo saggio avanza una proposta, anche clinica, che ridefinisce l’idea stessa di terapia e di spazio psichico, con i suoi nodi, le sue emanazioni, le sue latenze. Trauma, sintomo, tragedia, conflitto, simbolo e sé vengono interpretati alla luce della tradizione metafisica, che è anzitutto una pratica interiore della coscienza, un processo di guarigione e di evoluzione, una sintesi operativa. Attorno al minimo comune denominatore della “sensazione di essere” vengono a incontrarsi il Vedanta, Platone, il “De anima” di Aristotele, Freud, Bion, , Winnicott, le più recenti conquiste delle neuroscienze e la “psicoterapia senza l’io” di Epstein. Illuminate dalla prospettiva di una “metafisica terapeutica”, Kafka, Melville, Burroughs, Lovecraft e il loro personaggi letterari diventano figure di una pratica “coscienziale e realizzativa”, che unifica e va oltre l’illusione dell’io e della sua legione di forme in conflitto tra loro.»