E’ il passo d’inizio del DIES IRAE: giugno ’81, l’inizio del romanzo coincide con la tragedia di Vermicino. Da lì si prosegue, seguendo un filo rosso che si immerge nella storia italiana, riemergendone a tratti. Poiché però il DIES IRAE non è un thriller e non si occupa di complotti, va chiarito da subito che l’ipotesi che dietro la morte di Alfredino ci sia stata volontà non è una fantasmagoria da conspiracy theory.
Ci fu un processo e quel processo manifestò irresolubili ambiguità, legate all’esame del povero corpicino. Il pm, Giancarlo Armati, fu costretto a un non luogo a procedere dopo avere tentato una riapertura del caso. Tutto ciò è poco noto agli italiani, poiché l’impatto della diretta televisiva, che mostrava a milioni di spettatori un caso tragicamente fortuito, impresse un’immagine inscalfibile nell’immaginario nazionale – mentre il processo su Alfredino si tenne anni dopo. Qui di seguito, il dettagliatissimo articolo de La Repubblica che descrive l’incredibile vicenda processuale e quello che dà conto dell’italianissimo esito della stessa (gli articoli appaiono anche all’interno del corpus del DIES IRAE…).
la Repubblica – pagina 15 – 8 febbraio 1987
Clamorose conclusioni del procedimento in corso per la morte del bambino, la cui tragica storia fece piangere l’ Italia
ALFREDINO FU GETTATO IN QUEL POZZO
Il giudice apre una nuova inchiesta l’ accusa è di omicidio premeditato Sul corpo del piccolo, come documentano le 62 foto scattate dai medici legali, c’era una imbracatura che non era stata fatta dai soccorritori. Il magistrato vuole mettere a confronto i protagonisti di quella notte
di FRANCO SCOTTONI
ROMA – La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non è dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo lasciano poco spazio a possibili errori. La ricostruzione, valida fino ad oggi, secondo la quale Alfredino è scivolato per caso nello stretto cunicolo, si regge su una testimonianza, confusa e contraddittoria: quella di Angelo Licheri, il coraggioso tipografo che si fece calare nel pozzo nel tentativo di salvare il bambino. Ma mercoledì prossimo il pm Giancarlo Armati chiederà la restituzione degli atti processuali. Le sue nuove indagini saranno indirizzate su una nuova ipotesi di reato: l’omicidio premeditato. Come in un giallo imperniato sul delitto perfetto ricapitoliamo, seguendo gli atti processuali, gli episodi così come sono accaduti dopo la morte di Alfredino, rimasto incastrato nello stretto cunicolo a 60 metri di profondità. E’ la notte del 13 giugno ‘81, milioni di telespettatori spengono il video alle prime ore del mattino, profondamente amareggiati e delusi. Addolorato è anche il presidente della Repubblica, Pertini, che era corso sul posto nel pomeriggio quando si credeva che il bambino di sei anni potesse essere salvato. Il difficile recupero Il pm Giancarlo Armati, dopo la dichiarazione di morte presunta, ordina che siano immessi nel cunicolo, gas refrigeranti. Il magistrato dovrà, poi, passare l’inchiesta al giudice istruttore.
Si scava per alcuni giorni poi viene prelevata una grossa sfera di terreno congelato con all’interno il corpo di Alfredino.
La palla di terra e ghiaccio è trasportata all’Istituto di medicina legale dell’Università.
Il corpo, pur rimanendo congelato, viene isolato dalla terra, si fotografano le varie fasi e alcuni fotogrammi testimoniano l’esatta posizione di Alfredino dentro il pozzo. Il bambino si trovava nel cunicolo come fosse seduto, con le gambe ritirate a angolo retto in avanti. Il braccio sinistro, piegato anch’esso ad angolo retto, era dietro la schiena, l’altro era libero e la mano sovrastava verticalmente la testa.
I medici legali scoprono che sotto la maglietta a righe colorate, a partire dalla pancia, c’è una lunga fettuccia di quelle usate per trasportare gli zaini, divisa in due segmenti uniti con un anello metallico molto largo. In sostanza un’imbracatura robusta e ben sistemata che passa anche sotto il braccio rimasto incastrato. Su questo reperto, i medici legali scattano molte foto, in una di esse si vede distintamente un grosso nodo. Per l’imbracatura viene usato anche un manichino mentre due foto mettono in evidenza una ferita che il bambino aveva sulla testa. Ed è proprio dalla macabra sequenza di queste 62 foto, allineate in un album, che sono nati i primi sospetti sulla vicenda di Vermicino.
Il primo interrogativo che si è posto il pm Giancarlo Armati nell’esaminare quei documenti fotografici riguarda il perché i due soccorritori, Licheri e Donato Caruso, non hanno agganciato la corda rossa di soccorso a quell’anello. La risposta più semplice a questo interrogativo l’ha fornita Caruso, sceso dopo Licheri: “Non ho visto quell’imbracatura, forse stava nella parte del corpo incastrata o era coperta e sporca dal fango”. Se la risposta fosse quella giusta è evidente che Alfredino è finito nel pozzo con quell’imbracatura o meglio, qualcuno lo ha calato nel cunicolo e poi lo ha fatto precipitare in modo che il suo corpo non fosse mai trovato. Il bambino invece rimase incastrato per due giorni a circa 36 metri di profondità poi sprofondò a 60 metri. Tutto semplice? Non è così. La soluzione del giallo ancora presenta un punto da chiarire.
Angelo Licheri, il primo che raggiunse Alfredino affermò che quell’imbracatura gli era stata data da uno speleologo prima di scendere nel pozzo di soccorso scavato a due metri dal cunicolo, e che era stato lui ad avvolgere con quella fettuccia il corpo del bambino. Proprio questa testimonianza potrebbe aver portato, finora, gli inquirenti fuori strada. Una versione smentita Al processo, in tribunale la versione data da Licheri è stata smentita da alcuni protagonisti delle operazioni di soccorso, il pm Armati ha ravvisato molte contraddizioni su quanto é stato affermato dal coraggioso tipografo. L’ ingegner Elveno Pastorelli, in modo perentorio, ha detto in tribunale che Licheri non aveva quell’attrezzatura quando scese con quella specie di ascensore fino a 30 metri. “Non lo avrei mai permesso”, ha detto l’ex comandante dei vigili del fuoco, era un’attrezzatura inadatta”. Le sequenze televisive gli danno ragione, si vede Licheri che entra nel bidone-ascensore con le braccia alzate e senza alcuna fettuccia. Ha soltanto una benda legata ad un braccio, l’aveva preparata il professor Fava, il sanitario del S. Giovanni che seguì le vicende del bambino e lo aiutò a resistere con latte e bevande mentre era nel cunicolo. La benda, di quelle usate in ospedale, da una parte era fissata al braccio di Licheri, dall’altra aveva un cappio che doveva essere introdotto nel braccio del bambino. Licheri ha eseguito questa operazione, però la benda scivolò. Infatti è stata trovata dai medici legali su una spalla di Alfredino e appare in due foto. Ma l’ingegner Pastorelli afferma un’altra verità, dopo aver visto le foto dell’Istituto di medicina legale. Era impossibile a Licheri o a qualsiasi altra persona realizzare quell’imbracatura all’ interno del cunicolo. Il pozzo è largo soltanto 28 centimetri, il soccorritore doveva stringere le spalle, unire le braccia, protese in avanti, per potersi calare. Poteva soltanto far uso di piccoli movimenti delle sole mani e in quelle condizioni è pazzesco pensare che si possa fare una imbracatura. Più drammatico è stato il confronto tra il vigile del fuoco Mario Gonini e Licheri. Gonini che si trovava a 30 metri, nella piccola galleria scavata tra il cunicolo e il pozzo di soccorso, aiutò Licheri a calarsi, gli legò i piedi, fece scendere lentamente davanti a lui la corda rossa di soccorso e un piccolo tubo che portava ossigeno per respirare. Il vigile del fuoco ha sostenuto che Licheri non aveva alcuna fettuccia e quando quest’ultimo insisteva nella sua versione, Gonini ha urlato: “Non fare il bambino, dì la verità!”. Che Licheri non avesse l’imbracatura quando scese nel cunicolo lo ha sostenuto anche lo speleologo Bernabei che era insieme a Gonini. Bernabei e Gonini erano le uniche due persone che si trovavano, sdraiate, nella piccola galleria di raccordo, lunga 2 metri. C’è inoltre un altro elemento che mette in discussione la testimonianza di Licheri. Lo ha fornito lui stesso quando raggiunse Alfredino nel cunicolo. “Lo hai preso?”, gli chiese il vigile Gonini. “Mi scivola… mi scivola”, rispose Licheri. E’ evidente che il soccorritore non stava operando su quella imbracatura, forte e massiccia, che il bambino aveva sul corpo ma tentava di agganciare la mano con la benda. Anche le manette con le quali, l’altro soccorritore, Caruso, tentò di agganciare quella mano, scivolarono e il tentativo fu inutile. Licheri, inoltre, quando risalì non disse a nessuno che aveva imbracato il piccolo e che bastava agganciare la corda rossa all’ anello metallico.
In questo quadro assume una rilevante importanza il comportamento di Alfredino nei due giorni che visse nel cunicolo. Non parlò mai, durante i colloqui con il vigile Nando, di come era finito in quel pozzo. L’ esame delle cose dette dal bambino comporta una sola spiegazione: Alfredino non si era reso conto in quale posto si trovava. “Quando venite a salvarmi?” chiese a Nando. Il vigile rispose: “Abbiamo delle difficoltà, ma verrò presto a prenderti”. Alfredino con voce risentita: “Ma quale difficoltà! Sfondate la porta e entrate nella stanza buia”. Non fece mai il nome di nessuna persona da lui conosciuta ad eccezione di due volte, quando invocò e parlò con la mamma. Un atteggiamento che lascia adito a numerose considerazioni, una, soprattutto, che il piccolo sia stato calato nel pozzo dopo essere stato addormentato. Mercoledì prossimo, il pm Giancarlo Armati pronuncerà la sua requisitoria contro Ubertini, il titolare della ditta che eseguì lo sbancamento del terreno e che potrebbe risultare una persona del tutto estranea a quanto è accaduto. Quella grossa lastra di ferro. Due operai hanno testimoniato che l’imboccatura del pozzo era stata da loro chiusa con una grossa lastra di ferro, quest’ ultima coperta con grosse pietre e con due palanche di legno. Un altro elemento che prova che il bambino non era in grado di aprire l’imboccatura del pozzo.
La Repubblica – pagina 19 – 6 novembre 1987
FINISCE IN ARCHIVIO IL CASO DI ALFREDINO
Neppure la nuova inchiesta ha chiarito il giallo – nostro servizio –
ROMA – I misteri della tragedia di Alfredino Rampi, il bambino deceduto il 13 giugno ’81 nel cunicolo del pozzo di Vermicino, resteranno insoluti. Il pm Giancarlo Armati ha depositato ieri la richiesta di archiviazione della seconda inchiesta che il magistrato aveva aperto in seguito a discordanze e omissioni presenti nella prima istruttoria. La richiesta di archiviazione, condensata in 12 pagine dattiloscritte, è di natura tecnica. Il pm Armati, infatti, si è trovato nella impossibilità di accertare se la fine di Alfredino sia stata causata per disgrazia o per altre ragioni più sconvolgenti. Il magistrato, trovandosi nell’impossibilità di arrivare alla verità, per il lungo tempo trascorso dalla tragica vicenda e per la discordanza delle prove testimoniali e materiali, altro non ha potuto fare che richiedere l’archiviazione del caso. La seconda inchiesta era stata aperta subito dopo la conclusione del processo contro Elio Ubertini, accusato di omicidio colposo in quanto titolare dell’impresa che aveva provveduto a sbancare il terreno e quindi, ritenuto responsabile di aver lasciato incustodita l’apertura del pozzo. L’imputato fu assolto con formula piena ma durante il dibattimento emersero nuovi fatti in confronto alla prima istruttoria. In particolare l’ing. Pastorelli che diresse le operazioni di soccorso e di recupero sostenne, unitamente ad altri due vigili del fuoco, che la cinghia trovata attorno al corpo di Alfredino non poteva essere stata messa dal soccorritore Licheri ma da qualcuno che aveva voluto calare il bambino nel pozzo. Inoltre fu presentata nel processo una perizia che stabiliva l’impossibilità che Alfredino fosse precipitato per disgrazia nel pozzo a causa dalla limitata circonferenza del cunicolo. Queste e altre circostanze non hanno trovato dei riscontri probatori tali da chiarire con certezza il giallo, così il pm Armati ha richiesto l’archiviazione come normalmente avviene in casi così controversi.