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Poiché i Kraftwerk, come asserito in un pregresso intervento sui Miserabili, sono parte fondante del mio e non solo del mio immaginario, non potevano essere assenti dal DIES IRAE, che tenta una sussunzione di una parte delle schiere fantasmatiche che hanno dominato anche la mia formazione. Riproduco di seguito, dunque, un brano (non è il solo del romanzo in cui la robottica formazione appare), in cui, giustamente dimezzati, i Kraftwerk cambiano la storia: una storia personale, ovviamente. Perché quella collettiva l’hanno già mutata. Prima di leggersi lo stralcio, un caldo invito che formulo è guardarsi i video qui sopra linkati.
Buona visione (ne sono sicuro) e buona lettura (spero).
Il Kulturforum, terminato nell’aprile ’88, un anno fa.
Sta a Berlino, Paola, ma tutto sfugge attorno, contorni indistinti e voci su performer di cui non le frega niente, la ricerca della roba assorbe l’attenzione e nemmeno questo è vero, perché è l’osso iliaco incrinato che la risucchia dall’interno, è la sensazione di cappa, avere il Kulturforum vuoto e livido intorno alla nuca e alla fronte fino dal mattino e Alex che la scruta con occhi da cerbiatto, la vibrazione più prossima all’amore che sia riuscita a rimediare, nell’incertezza e nella difficoltà, nell’assalto a se stessa che ha praticato da subito, dai nove dieci anni, gli anni del danno, la gemma oscura che pulsa irrimediabilmente e che nessun amore medica, lo sguardo di Alex impotente, un cerbiatto, lei stessa impotente, e allora è meglio affogare nella roba e Tobia chiese a Dio il favore di morire per non avere il coraggio del suicidio.
Attorno al Kulturforum, in Matthäikirchplatz, il vuoto basso e grigio e opprimente della Berlino occidentale che sta per tracimare. L’aria è nuova, priva di entusiasmo. Da Est premono. Stanno aumentando le defezioni, le fughe, i morti sulle reti di filo spinato, le intercettazioni al checkpoint. Sanno che sta crollando e Lotte arriva sorridente, un sorriso da ragazzo di strada, la zazzera irritante che schifa senza motivo Paola, e ha i biglietti per la performance esclusiva e riservata dei Kraftwerk, che da otto anni non appaiono in pubblico e nell’anniversario della costruzione del Kulturforum hanno ottenuto un invito in una sala auditoriale minima, cinquanta posti al massimo, e Lotte vedrà il concerto con lei e Alex e li inviterà a casa sua per farsi di roba buona non tagliata e poi prenderà in bocca il cazzo di Alex, ma non si può fare niente, questo è il trito rituale della catena dei giorni se ci si aggrappa a un anello sperando di stringere la presa sull’anello successivo.
La piazza è ampia, bianca, le due bandiere della RFT sono ripiegate dal vento, coniche, aggrovigliate in una stretta spirale alle aste, le due uniche verticalità nell’immensa spianata grigiochiaro, capannelli di giovani che usano i Kraftwerk per figurarsi una musica messianica che è esplosa, la loro rivoluzione che non muterà niente del mondo, la loro rivoluzione che è una distrazione, nessuna corrente comune tra un corpo e l’altro, soltanto vibrazioni elettroniche in cui fondersi.
La prima rivoluzione dissociativa della storia.
Una rivoluzione senza esiti o con l’unico esito di un sogno che fingono collettivo ed è la somma di tanti piccoli sogni evasivi colorati.
Le nuove droghe che invadono il mercato e che a Paola e Alex non interessano, perché la dipendenza dalle vecchie droghe reclama da dentro le ossa, è un urlo dentro le ossa.
Paola è nell’urlo, spinta qui da un urlo, dove si sta urlando, il futuro ha sabbia nella gola altrimenti le urlerebbe addosso, investendole il torace, serrandole le labbra e le palpebre con il suo nero aliseo.
Guardali: a crocchi, le pasticche, visibilissime.
Lotte arriva e propone le pasticche e dice che poi, dopo la performance dei Kraftwerk, a casa sua, c’è roba buona, la vecchia confortevole roba che tutti noi amiamo, la mamma che ci coccola e aumenta quotidianamente l’affetto che ha per noi, e ci strappa dai peccati dei giorni per farci convergere in un unico, smodato peccato di amore per lei, la mamma zuccherina di cui non possiamo fare a meno.
O wie einsam schlägt die brust!
La bassa tettoia del Kulturforum, questo aspetto da stazione ferroviaria provinciale, questo fiore all’occhiello della nuova architettura che non pensa all’umano, ma sogna colonnati dorici postmoderni su Marte, monoliti da erigere a segnalare conquiste planetarie.
Lotte è letteralmente fuori di testa per i Kraftwerk.
Hanno ridato uno stile alla Germania, hanno instradato la disperazione postbellica in una forma di creatività rinnovata, che si richiama agli anni Venti, e dunque prima della guerra e dell’orrore di cui Lotte e tutti gli altri berlinesi, pur vivendone oggi, 1989, le conseguenze, non avvertono tracce di responsabilità. E’ l’era glaciale dove il gelo dell’ipocrisia copre di iceberg il mondo vivente.
I Kraftwerk impongono uno stile essenziale, robottico, la loro musica nasce soltanto da modificazioni di nuove strumentazioni elettroniche, che si construiscono da soli nel tempio inviolabile del loro studio, il leggendario Kling Klang.
L’America li copia, li fa evolvere. La nuova musica elettronica, la house e quello che sta mutando nell’universo sonoro, ha un’origine accertata ed è l’avvento dei Kraftwerk, la rivoluzione pensata e realizzata dal genio di Ralf Hütter e Florian Schneider. Una rivoluzione paneuropea che dilaga nel pianeta, penetra l’udito e raggiunge le vibrazioni ossee. Cambiano formazione a cicli, ma i due geni permangono, si identificano con il progetto Kraftwerk, il rumore è diventato musica, il mondo, nella sua prosaica messa in scena rumorosa, è pop, è facile, è ascoltabile. Annullamento del pensiero. Gli orpelli definitivamente estinti. Monoliti neri impiantati su Marte.
L’ultimo concerto lo hanno tenuto a Brema otto anni prima.
Ora che il mondo della musica è totalmente elettronico, stanno per produrre un ripensamento dei loro pezzi più celebri, un mix realizzato con strumenti che in questi anni, a partire dalle prime rudimentali macchine che realizzarono, si sono evoluti e permettono loro di aggiornare la loro estetica cristallina, astratta.
E’ il rilancio della rivoluzione a più di dieci anni dal suo avvento.
Lotte è fuori di testa per questi quattro.
“E” dice “non avete idea di come veicola la nuova roba, questa musica. E’ un supporto necessario, per tutti. Crea uno spirito di comunione, una messa laica, istantanea, che non ha templi o chiese. E’ un modo nuovo di impadronirsi del mondo”.
Paola pensa all’Italia e sa che, anche se attecchirà, non ci sarà modo di impadronirsi del mondo. Il mondo non è riformabile. Il buco nero non è modernizzabile, rinnovabile. Adattamento: come un animale selvatico nelle asprezze del bosco, al buio, nel gelo, di notte.
Waldeslust. Waldeslust.
La selvatica voglia di bosco. Ritirarsi nell’ombra naturale dove il pericolo è esterno, non interno. Dove la madre non crea dipendenza, dove il padre ti ha concepito e si è fatto da parte, dove l’ombra non è interiore bensì un segnale di pericolo imminente, qualcosa che si agita ed è in agguato tra il fogliame nero.
La stanza auditoriale: neanche cinquanta posti a sedere. Meno. Lotte sprizza entusiasmo. La pavimentazione è industriale, una copertura di gomma nera bollinata, nello stile delle metropolitane europee.
Entrano in due, non in quattro.
I due si trascinano dietro una coppia di automi pressoché identici a loro.
Lotte, entusiasta: “Sono i nuovi manichini! I nuovi robot!”
Anni prima i Kraftwerk si esibivano accompagnati da manichini che erano la loro perfetta copia, ogni membro stampato nei caratteri somatici della plastica di uno dei quattro manichini. Manichini immobili da esaltare sul palco al ritmo di The Robots, la hit che ha sfondato dopo Radioactivity, il pezzo che i Grünen hanno interpretato come un’esaltazione del nucleare, costringendo i Kraftwerk a modificare il testo.
Questi robot sosia, invece, si muovono. Sono tronchi e volti, ridotti alle linee minime della fisiognomica, tronchi appoggiati a una piantana, le braccia sono steli metallici snodabili meccanici e si muovono.
Al centro sono Ralf Hütter e Florian Schneider, ai lati i robot.
Inizia l’esibizione e Paola pensa che vuole strafarsi, strafarsi, pensa al bacio salivoso di Lotte tra qualche ora, ne è certa, lo sta anticipando, Alex è imbambolato, si è fatto un quartino prima di uscire dallo squat e non capisce, cerca di permanere nella calda assenza da sé e dal resto del mondo.
La stanza impazzisce.
I bassi, nitidi e cromatici, fanno vibrare le pareti.
E’ al limite dell’inaudito, dell’inaudibile.
Non c’è più stile, questa è un’aria sonora glaciale, che isola il fenomeno umano nella miriade di fenomeni inorganici, la natura quintessenzializzata.
Non cantano nemmeno, sinfonizzano la macchina, rendono implicita la visione del paesaggio interiore, le immagini interiori sono nullificate. Sono vibrazioni eteriche. Lo spazio di una consapevolezza inaudita di cui evidentemente soltanto Ralf Hütter e Florian Schneider sono coscienti. Perché la quarantina di fan di élite, qui, impazziscono ed emotivizzano questa esplosione sonora e cromatica che trascende le emozioni e calma.
Questa non è musica: è roba.
Paola sente che non vuole più strafarsi se non di questa nuova madre che richiede un nuovo tipo di amore sovrumano e non impone dipendenza e nemmeno la chiede al cucciolo.
Tutta l’Europa vibra in questa sinfonia che è Trans Europe Express.
Parigi.
Vienna.
Berlino.
Capitali di un’Europa rinnovata con un balzo indietro nel tempo, lo slittamento dello stile verso un’essenzialità che la razza europea ha conosciuto prima del disastro. Suoni che vibrano per la compressione dell’acqua polare che penetra gli iceberg. Modulazioni dello schianto della colata di cemento nella sede deputata, nella cava metropolitana. Frizione delle parti meccaniche al distendersi dei serbatoi della navetta Shuttle prima dell’esplosione del carburante. La luce e il nitore della stellata vista dal buio della savana, nel calore rovente l’annuncio lontano di luci fredde.
Non è eroina, non è acido. Serve una nuova droga.
Paola chiede una pastiglia a Lotte e Lotte le sorride e le passa la pastiglia facendo scivolare il polpastrello dell’indice sul palmo della mano di Paola e a questo punto a Paola non interessa più niente, Alex pallido, quasi giallo, imbambolato accanto a lei, ci sono talmente tanti ritmi che non esiste un ritmo che sovrintenda all’esplosione ritmica, Alex ondeggia e Lotte si avvicina a Paola, i capelli corvini e corti, li struscia, grassi, contro la pelle selvatica di Paola, si volta, la bacia sulle labbra, le infila lentamente la lingua nella bocca, e Paola è inerte e triste e spalanca lentamente le labbra, apre la dentatura, subisce.