• NELLE DESOLATE BANLIEUES DI GENNA
«Dies irae»: Anni 80-90, tra Gelli e Tardelli, un profondo trauma familiare, violenza, droga, fuga, ritorno e redenzione, una squallida Milano, una Roma levantina, una Berlino ossessiva, un’Amsterdam salvifica
di GIOVANNI TESIO
[da tuttoLibri, inserto letterario de La Stampa]
Dai thriller al catrame al libro-mondo. Giuseppe Genna [nell’assurda foto ingrandibile] dice basta a noir e complotti, a trame e poliziotti. Basta al puro romanzo di finzione. Con il romanzo Dies irae appena pubblicato da Rizzoli, compie un passaggio impegnativo e coraggioso. Non accattivante. Non facile. Non consolatorio. Fortemente autobiografico. Una specie di mutazione annunciata come un evento. Sì, far saltare il sistema dei generi. Ma soprattutto andare oltre i confini convenzionalmente accettati, cogliere gli azzardi della trasformazione in atto, giocare la carta della compresenza e della simultaneità, narrando per blocchi comunicanti i grandi temi della vita: dei padri e dei figli, della ribellione e dell’amore, del pozzo e della morte, del vuoto e dell’angoscia, della violenza e della disperazione, della sessualità e della follia.
E’ un faldone di carte quello che accompagna l’io protagonista del romanzo – un Giuseppe Genna che interpreta il Giuseppe Genna anagrafico – attraverso un viaggio di esplorazione. L’ambizione di connettere la storia propria a tante storie altrui, un mondo presente con un mondo futuribile, maschera e volto, facciata e sottosuolo, la vita delle singole storie che s’intrecciano e la vita di un Paese che le accoglie entro una ventraia di molli interiora (dall’"anus mundi" di Vermicino, legato alla scomparsa del piccolo Alfredo Rampi, fino ai più infernali universi familiari infestati da pedofili di volto normale e da non sottovalutabili conformisti in carriera). E’ davvero difficile, se non impossibile, riassumere un romanzo così. C’è la storia di Giuseppe Genna e del trauma profondo che lo attanaglia (una madre che ha avuto la madre suicida, un padre impresentabile, uno zio etilico, una sorella disperata). C’è la storia di Monica B. e del padre lontano, ma anche di Monica B. e di suo marito che progetta una trasmissione televisiva intitolata Dies irae. C’è la storia di Paola C. e del padre alcolista, una ragazza dalla vita impossibile che fa esperienze tra violenza, droga, fuga, ritorno e redenzione. C’è un uomo nell’inferno di un reparto dell’ex Paolo Pini che dice parole inespugnabili. C’è la storia di un "Congegno psicofonico" che raccoglie le voci dei morti. C’è un gran discutere di letteratura e di scrittura. C’è un bel po’ della storia d’Italia tra gli Anni Ottanta e Novanta, tra Gelli e Tardelli, tra Craxi e Moana Pozzi, tra Tangentopoli e Raul Gardini. C’è una Milano di desolate banlieue metropolitane tra Pioltello e Sesto (ma anche una Roma levantina, una Berlino ossessiva, un’Amsterdam salvifica).
Può sembrare contraddittorio. Ma questo romanzo recupera l’idea di una formazione, di un processo, di ricerca di nuova consapevolezza, nonostante che parta dal presupposto della "maturità" come "vergogna". Dal falso cinismo o dal cinismo difensivo di partenza è pur vero che si va dipanando un’idea interiormente complessa, che arriva ad imbarcare la psicodanza e l’ipnosi regressiva. Un desiderio di salvezza che passa dall’individuo all’universo interstellare. Non un’evasione, ma un attraversamento. Non una storia che rotola spedita, ma una vicenda che accoglie in tutta la sua vulnerabilità l’idea di una materia intesa come «regno instabile e pesantissimo, denso e impenetrabile», percorso da vibrazioni angeliche e demoniche. Si dica pure romanzo "postmoderno" (e se ne possono riconoscere i maestri, da Thomas Pynchon a Don DeLillo e James Ellroy). Ma nel Dies Irae di Genna c’è qualcosa che va oltre la superficie piatta dello sguardo lineare e seriale: una specie di viaggio colombiano che busca l’oriente por lo poniente. Vale a dire l’ambizione (corrisposta) di dare un senso al "troppo umano" che è nell’uomo, di trovare una carica attiva per la rabbia vorace da cui prendono vita lo sguardo e la scrittura impura, l’aggressività compulsiva entro la quale l’ «io, Giuseppe Genna» del romanzo, inietta un franco e scoperto desiderio di compassione e di pace che gli viene dal Giuseppe Genna da cui dipende (uno e due finalmente congiunti). Nelle folate di rabbia e nei crolli delle certezze (dal Muro di Berlino alle più argonautiche utopie intergalattiche), un romanzo che discute il suo farsi ascoltando l’angoscia di uno sprofondo cosmico, ma anche la necessità di risalirne attraverso l’esercizio della pietà, «la vibrazione paradisiaca che fa della terra il regno dell’uomo». Dies irae che si converte nel più accorato De profundis.
[29/4/2006]