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Romanzi in cui si intrecciano argomenti all’apparenza diversi (che cosa c’entrano Ustica e Vermicino con Rocco Siffredi e Moana Pozzi?). Sono quelli di due giovani scrittori italiani, Mario Desiati e Giuseppe Genna. E l’autore di questo articolo (anche lui scrittore di successo, della stessa "inutile, amorfa, smidollata e rivoltante generazione") giura che sono due capolavori
• ATTENTI A QUEI DUE
di ALESSANDRO PIPERNO
Chiamiamola pure cronaca di una mia avvincente sconfitta. Tutto avrei immaginato, tranne che un giorno mi sarei trovato a celebrare un "Generation Pride". Poniamo pure me lo fossi figurato, non mi sarei mai aspettato che la generazione in questione fosse proprio la più inutile, la più amorfa, la più indefinibile, la più smidollata, la più rivoltante, la meno glamour di tutte: la mia.
E’ da qualche tempo che con un tono un po’ tronfio vado predicando che la letteratura italiana è spacciata, perché la nostra società non produce miti degni di essere esportati, perché da noi la Storia è stata sostituita dalla Cronaca, perché siamo più da operetta che da capolavori, perché Berlusconi e Prodi non sono all’altezza del nostro infinito ingegno, perché magari avere JFK, Nixon, Clinton, Blair; perfino uno straccio come Chirac… Chi mi conosce sa che non parlo d’altro.
Ultimamente, però, ho iniziato a interessarmi di alcuni casi che sembravano smentirmi. I due libri e i due scrittori di cui vorrei parlare sono le smentite che ritengo più significative e, sebbene non abbiano niente in comune, li sento legati da una segreta corrispondenza di intenti: scrivere di Storia con la S maiuscola tramite un genere sputtanato come il romanzo. Mario Desiati e Giuseppe Genna. Ecco i loro nomi. Devo dire, per scongiurare qualsiasi equivoco, che sono entrambi miei amici e che, quindi, in senso stretto, sto compiendo un atto mafioso. E la mia confessione non mi rende meno colpevole, ma tant’è…
Insomma, quasi contemporaneamente appaiono in libreria Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati e Dies Irae di Giuseppe Genna. Il titolo di Desiati non mi sembra all’altezza del libro, mentre quello di Genna sì, ma sapete, un buon titolo è un dono della provvidenza.
Che cosa unisce questi due libri? Certamente un mucchio di cose esteriori: ad esempio, il solo personaggio positivo del libro di Desiati è Rocco Siffredi, così come il solo personaggio degno di venerazione nel libro di Genna è Moana Pozzi. (Ciò mi fa venire in mente la frase pronunciata dal regista horror e hard core Joe D’Amato in una delle sue ultime interviste prima di morire: "La Ferrari e Rocco Siffredi sono le sole glorie che all’estero mi rendono fiero di essere italiano"). Eppoi il gusto postmoderno di parodiare scene tratte dai classici: nel romanzo di Desiati, la madre del Narratore fa il verso a Herzog, lo stralunato eroe di Saul Bellow, scrivendo lettere folli ai morti. Nel romanzo di Genna due ragazzi della buona borghesia milanese mettono sotto un cane con una Mercedes in un modo non troppo dissimile da quello con cui Sherman McCoy – il protagonista del Falò delle vanità di Tom Wolfe – investiva su un’analoga Mercedes nera un ragazzo d’un sobborgo newyorchese.
Ma la cosa che accomuna questi due libri è che essi – scritti in una prima persona particolarmente impudica – si pongono l’obiettivo di parlare di cose universali. Non a caso per farlo scelgono il sentimento che tutti in questi tempi ci pervade: la paura. E mica una paura da thriller né un’astratta paura metafisica. Ma una paura concreta che prende forma nei rispettivi romanzi in due fatti traumatizzanti della nostra storia nazionale: la strage di Ustica e la morte di Alfredino Rampi.Martino Bux, il Narratore di Vita precaria e amore eterno, cresciuto vicino alla base aerea di Sigonella (famosa per un altro episodio chiave della Storia Italiana, quello dell’epilogo del sequestro dell’Achille Lauro nell’85), è letteralmente ossessionato dalla paura del volo, che probabilmente gli deriva dalla strage di Ustica. Dallo sfrecciare impudico e insensato di quei colossi meccanici sui cieli delle nostre metropoli. Dal rombo aggressivo dei reattori. Dai boati delle bombe che caddero sul quartiere San Lorenzo nel quale lui vive, che si confondono con quelle più recenti del Kosovo e di Bagdad. Dagli aerei che non smettono di infilarsi nelle Torri newyorkesi, e che non vengono mai nominati ma che sono sempre là.
Così come Giuseppe Genna (tale il nome del protagonista del romanzo di Genna) è perseguitato da quel pozzo artesiano di Vermicino in cui un giorno precipitò Alfredino Rampi. La metafora del pozzo accompagna tutta la narrazione del Dies Irae dalla prima all’ultima pagina. Eccolo là il buco stretto, fangoso, buio, umido, mortale in cui il personaggio Giuseppe Genna rimarrà rinchiuso per tutta la vita: il trauma originario da cui è impossibile riprendersi.
Che dire di Martino Bux e delle sue paure? Lui è una sorta di American Psycho in versione piccolo borghese. Un nullafacente che cerca di sbarcare il lunario con lavoretti precari, che elabora il disagio in un modo imprevedibilmente bieco: diventando un ricettacolo di qualunquismo, razzismo, omofobia, misoginia. Un sociopatico, insomma. Il suo problema sembra essere la dissociazione mentale, alla maniera di Palahniuk. Per questo talvolta dà prova di cultura e di discernimento, e altre invece ostenta un’imbarazzante ignoranza.
Il controcanto a questo fosco risentimento universale è l’amore per Toni (una ragazza che è il suo esatto contrario: colta, di buona famiglia, filantropa, volontaria in Africa, dai comportamenti ineccepibili). Questo amore, alimentato e sconvolto dalla separazione, si trasforma in deliquio mistico. La cosa eccezionale del libro di Desiati è proprio l’allucinata ossessione amorosa in cui il fatto sentimentale si mischia in modo miracoloso al sesso. Quella di Martino è una vera e propria nostalgia sessuale che diventa invasamento demoniaco, qualcosa di non molto dissimile da certi deliri alla Houellebecq, ma molto più struggente. Tale vaneggiamento diventa la colonna sonora del desiderio sconvolto e non più appagabile.
Di tutt’altra natura è la follia del puritano e sterile Giuseppe Genna. Forse è bene che lo dica subito, così ci togliamo il pensiero, a costo di essere preso per i fondelli per i prossimi dieci anni: credo che il libro di Genna sia un’opera importante con cui tutti quelli che fanno il mio mestiere dovranno prima o poi fare i conti. Un romanzo (romanzo?) di 800 pagine che questo pazzo sognava da anni ma che ha scritto in soli otto mesi. Una Summa italiana: esattamente quella che andavo predicando fosse impossibile realizzare. Il miracolo-Genna consiste nell’essere riuscito a rendere la nostra Storia allo stesso tempo sexy, elettrizzante, patetica, drammatica, divertente…
E’ davvero un peccato non avere lo spazio per raccontarvi che cosa accade in questo libro. Per farvi capire quanto io mi sia divertito, quanto abbia goduto. Vi chiedo solo di prepararvi alla sfilata di commoventi fantasmi e al susseguirsi di scene emblematiche: Alfredino, Craxi, Moana, i Fratelli Berlusconi, i Duran, Maldini, la Parietti, Nordahl, la Milano da sbronza, la Sardegna più orrendamente volgare che sia mai stata raccontata, perfino l’argonauta intergalattica, e chi più ne ha più ne metta.
Ma una domanda incombe: come ci è riuscito? Come è riuscito a tenere assieme questa roba?Tutto merito dell’immagine che segue il Narratore dalla prima all’ultima pagina: un leitmotiv visivo che ritorna quando meno te l’aspetti, nel posto più imprevedibile. Pochi sanno che, per sottrarre il corpicino morto di Alfredino Rampi all’abisso in cui era precipitato, si ricorse a un macabro espediente. Dopo aver soffiato nel pozzo un gas refrigerante, estrassero dal buco una bolla di ghiaccio dentro alla quale era incastonato il cadavere del bimbo. Tale visione, spaventosamente potente, si ripresenta – lungo il corso di tutto il libro – in varie forme: un enorme utero artificiale installato in un museo milanese; l’immagine di un feto che appare nella piramide in plexiglas progettata per il famoso congresso di Craxi all’Ansaldo; e quel medesimo feto azzurrino contro un nero siderale in un’immagine del futuro che riporta subito il lettore all’ultima scena di 2001:Odissea nello spazio.
E tuttavia il personaggio più ardente e vivo della Saga resta quello di Giuseppe Genna. Un Narratore che trasuda una tenerezza bordata di nichilismo da lui stesso definita "mancanza di affetto pregresso". Un uomo solo e spiritoso, che all’euforia febbrile per la vita mescola un desiderio di distruzione.
Che cos’è la vita per Genna? Nient’altro che disintegrazione, il Tutto che lentamente si guasta, le rughe che s’attorcigliano sulla faccia di una donna mentre tutti la guardano invecchiare. Alfredino e il suo dramma, da questo punto di vista, funzionano in un modo mirabile: il bambino incolpevole – autentico capro espiatorio – incastrato nel pozzo viene vittimizzato dall’occhio impudico di un’intera nazione che finge di piangere, ma che in realtà si compiace melodrammaticamente della propria commozione. Al dolore finto, pubblico, di una nazione fa da contraltare il dolore autentico, privato, di Giuseppe Genna alla morte del padre.Qualche tempo fa, parlando dell’ultimo favoloso romanzo di Bret Easton Ellis, scrissi che molto spesso i bei libri sono dei guanti di sfida lanciati in faccia ai propri padri: da Kafka a Martin Amis. Ebbene, Genna non costituisce eccezione. Dies Irae è il libro di un ragazzo, anzi, di un uomo che fa i conti con la vita, attraverso il luttuoso diaframma offertogli dalla morte del padre. Allo stesso tempo vi avevo detto che il merito di Lunar Park di Easton Ellis era tutto nel virtuosistico talento di confondere la verità autobiografica con il dato fittizio. Nella capacità di non provare alcun rispetto per la propria vita: farla a pezzi, raderla al suolo se necessario. Anche da questo punto di vista, il prestigiatore Genna non mi pare meno ispirato: così riesce a trasformare una proverbiale mitomania in letteratura.
[Le parti evidenziate, lo sono sulle pagine originali dell’articolo di Alessandro Piperno in "Vanity Fair"]