Mancassola: Rileggendo il Dies Irae

di MARCO MANCASSOLA
[dal sito ufficiale di Marco Mancassola]

600.jpgHo letto il Dies Irae di Giuseppe Genna due volte di fila, nel corso dell’estate, ed era una cosa che non facevo da anni. Praticamente da quando ero ragazzino. Negli ultimi tempi mi era successo solo con racconti audiovisivi (Mulholland Drive, oggetto di visioni ripetute e ravvicinate -come del resto si preannuncia il nuovo Lynch, Inland Empire, per adesso visto appena una volta al Festival di Venezia). Rivedere non tanto con l’obiettivo di vedere ancora, né con l’improbabile obiettivo di capire meglio, ma semplicemente per assorbire il rimanente.
Ci sono storie, sempre più rare, che possono essere ingerite più volte, e ancora riescono a offrire nutrimento. Lo possono fare perché sono dense, immensamente ricche, misteriose, hanno superfici mille volte intarsiate, e nascondono al loro interno sacche energetiche impreviste, invisibili, che nessuno può assorbire in una volta e che forse nessuno, addirittura, potrà mai assorbire del tutto. Si tratta di opere non assorbibili, opere condannate a solitudine e grandezza, perché non saranno mai del tutto capite, mai del tutto decomposte ai loro elementi fondamentali, né del tutto assorbite dal flusso della comunicazione contemporanea. Opere che staranno per sempre fuori dalle banalizzazioni, dalle commercializzazioni, dall’impero della chiacchiera, dalle schedine del club del libro, opere che saranno messe sul mercato ma resteranno aliene al mercato, aliene al flusso, calcoli durissimi nei reni del mondo. Opere che non si lasciano nemmeno riassumere, non esauribili e per questo infinite. Pozzi artesiani dotati di mille strati, nessuno dei quali è l’ultimo. Il Dies Irae è un’opera del genere.


Non lo dico perché l’autore sia mio amico (sebbene lui abbia avuto a volte parole lusinghiere per il mio lavoro, di fatto ci siamo visti letteralmente due volte, entrambe abbastanza di sfuggita) né perché si tratti di un prodotto di moda (ben altri hanno parlato di questo libro, uscito da vari mesi, e le mie parole arrivano, consapevolmente, fuori tempo massimo). Non lo dico neppure dando per scontato che quella di opera non assorbibile sia per forza qualità positiva: il mondo, e i lettori, hanno diritto anche ad opere del tutto assorbibili, comprensibili, riassumibili, digeribili e perché no, facilmente dimenticabili. (Quanto a me, il mio tentativo di comporre un’opera non assorbibile, un’opera che si presentasse al tempo stesso radiosa e oscura, un’opera dove tra parola e parola -tra ogni parola e parola- ci fosse un potenziale abisso, questo tentativo di cui Qualcuno ha mentito era una sorta di prologo, ebbene questo tentativo mi ha rovinato la vita, continua a rovinarmela, mi ha impedito di diventare lo scrittore alla moda che molti si aspettavano dopo il discreto successo del Mondo senza di me, e non sono per nulla sicuro che sia stato un bene. Ogni opera non assorbibile tende a diventare uno strano, ingombrante monolite nella vita di chi vorrebbe produrla.)
La vera qualità dell’opera non assorbibile è quella, ovviamente, di convincere chi la incontra ad entrare in essa (senza questa qualità seduttiva, l’opera non assorbibile sarebbe soltanto un’opera inaffrontabile, utile a nessuno). Il Dies Irae non manca in questo, aprendo con una ricostruzione assoluta e struggente di una vicenda italiana di venticinque anni fa (il bambino che cadde nel pozzo artesiano, a sessanta metri, il circo mediatico scatenato intorno al fallito salvataggio).
Poi si spalanca il profondo. Un labirinto di storie intrecciate e irregolari, nel senso di irregolarmente narrate, con tempi e temi ogni volta varianti, dove l’unico dato coerente è una lingua, anzi un’intonazione, anzi una tensione, che unisce e infilza come un filo chirurgico il materiale politico, storico, complottistico, intimo, sentimentale, sessuale, esistenziale, il romanzo di formazione, il mistico, il fantascientifico, tutto. Dove la varietà dei personaggi e delle storie è ben oltre il postmoderno, perché non c’è gusto per la divagazione, non c’è gusto per la deviazione, per il gioco del depistaggio, non c’è orgasmo narrativo richiamato e ogni volta rimandato, non c’è piacere masochistico per la forza centrifuga del caso che tutto disgrega, non c’è gusto ultraironico e non c’è gioco di specchi tra la consapevolezza del narratore e quella del lettore, no. Non ci sono le tipiche seghe postmoderne. Qui c’è ben altro. Qui c’è pura tensione spirituale, che si tramuta in tensione linguistica, una tensione che attraversa le materie (narrative) non per celebrare la loro molteplicità, ma riconoscere la loro unità. Tutto ciò che si racconta è uno. Al fondo delle mille storie (più o meno italiane, più o meno contemporanee, più o meno socio-personali) c’è l’uno. C’è una sola sostanza, che è emotiva e linguistica, è una consapevolezza, è un senso di unità. Chi ha familiarità con il misticismo orientale, forse capisce di cosa sto parlando.
Esattamente come nell’altra opera non assorbibile richiamata all’inizio, Mulholland Drive, dove la cifra della non assorbibilità era data dall’intreccio indissolubile, in ultima analisi indecifrabile (e quindi invendibile) tra reale e onirico, e dalla constatazione che questa differenza non importa, è decaduta, sfuma in un nuovo piano di comprensione narrativa, allo stesso modo qui, nel Dies Irae, tale constatazione non viene fatta con disincanto. Ovvero, non si tratta di una resa (più o meno ironica) di fronte alla complessità del reale. Se così fosse, sarebbe postmoderno. Sarebbe estetica del reality. Sarebbe solo un diverso modo di essere assorbibile, ovvero innocuo, ovvero irreale.
Ciò che sconvolge, qui, è la realtà del dolore. È la sensazione che l’illuminazione finale, appartenente tanto al narratore quanto al lettore, giunga alla fine di una battaglia durissima, quasi trentennale, mai rinunciata e infine vinta, con la complessità del reale. Come dire che il reale può essere ancora vinto. Anzi: inizia a mostrare il fianco. Inizia a mostrare il proprio osso unico e nudo, sotto i suoi molteplici travestimenti.
Non è un caso, allora, che la storia più coerente, più forte, più coinvolgente all’interno del libro, vero romanzo nel romanzo, sia anche la più dolorosa. La storia di una donna che lascia l’Italia, girone infernale e claustrofobico per tutti gli altri personaggi, per scontare il proprio personale purgatorio in giro per l’Europa, da dove tornerà effettivamente purgata e pronta a insegnare all’io narrante una nuova via di eventuale salvezza –come in una Recherche dove la vocazione finale, quella di salvare gli altri (in qualunque modo si attui questa salvezza: raccontandoli, ricordandoli, o insegnando loro ciò che hanno dimenticato) non si rivela essere quella del narratore, ma quella di un suo stesso personaggio. Ti ho raccontato perché tu tornassi. Ti ho raccontato perché tu mi salvassi.
Quanto alla critica che spesso si sente fare a Giuseppe Genna, quella di praticare (e pubblicare) una scrittura che appare (e forse è) non editata, piena di detriti, troppo inquieta e attorcigliata, una scrittura che un qualunque editor saprebbe domare a colpi di tagli, questa critica mi ha lasciato a lungo in bilico, essendo io in genere il primo a lamentarmi della quantità di libri, in giro, palesemente non editati, non ripensati, vomitati direttamente dal programma di testo dell’autore alla tipografia. Dall’altro lato, si può argomentare che questa è scrittura-fiume, una scrittura che non si può analizzare e filtrare, perché farlo significherebbe bloccarla –mettere dighe al fiume. Alla fine del libro, ogni tipo di dubbio in realtà decade, perché ciò che si sente è di aver attraversato un mondo, e di averlo intimamente intuito. Le intuizioni vere –come quelle bibliche, espresse in un linguaggio tutt’altro che snello- stanno nella lingua in vari modi: attraverso la sua trasparenza, o attraverso la sua opacità, o attraverso l’alternanza di zone oscure e cristalline. Personalmente non mi sento di decretare la strategia migliore. Apro lo spirito a ogni lingua, poiché abitata da una tensione.
La mia personale idiosincrasia, piuttosto, va a certe pagine troppo pop, ovvero intrise di un pop corrivo, senza chance di trasformarsi in mito, senza chance di essere ricordato (o per lo meno ricordato senza imbarazzo). Il pop-trash delle Lory Del Santo, degli Umberto Smaila e di simili personaggi, scientificamente elencati in certi passi del libro, creando un effetto (a mio avviso) pericolosamente dissonante con la qualità epica, eterna, senza tempo di tante altre pagine. Se Alfredino e altre vicende italiane possono prestarsi a essere mutate in eventi dell’anima, vicende che da storiche si fanno mitiche, metaforiche, psichiche, non altrettanto si può dire di altri episodi, microfenomeni senza autentico eco, che
non dicono in realtà nulla della vicenda italiana, neppure il suo squallore, perché lo squallore ha vita brevissima, può essere visto solo a distanza ravvicinata, è sostituito da strati di squallore sempre nuovo. Lo squallore non è storicizzabile, a meno che non guadagni la sua parte di mito. Il lancio di monetine su Craxi è mito. Il villaggio turistico di Smaila in Sardegna, chi se ne frega?
Questo è l’unico rilievo nella mia doppia lettura. Le uniche pagine che non ho riletto. Per il resto è solo ipnosi e fame, mai saziata, di assorbire ancora. Non per scoprire il segreto dell’opera –che non mi sarà mai rivelato-, ma per godere dei suoi mille riflessi. La sua densità scavata come una conchiglia. I mille echi che offre, dietro ai quali si intuisce un unico suono: senza forma, e per questo perfetto.

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