Il protocollo narrativo più adatto per il nuovo
romanzo a cui mi accingo a lavorare sarebbe Uwe Johnson: l’Uwe Johnson degli Jahrestage (per ora, presso Feltrinelli, sono usciti i primi due volumi, col titolo I giorni e gli anni), cioè quel creatore autentico del Moby Dick europeo in cui, al Vecchio Testamento, si sostituisce Benjamin. Detto che Johnson è un genio che l’Italia deve ancora olimpizzare come merita, mentre io sono un semplice scrittore, la materia degli Jahrestage è addirittura più ampia di quella che devo affrontare io, ma è in assoluto meno drammatica da un punto di vista rappresentativo (non, invece, dal punto di vista di parte della materia stessa, che coincide con quella su cui mi trovo a operare, seppure Johnson scriva sugli esiti, mentre il mio soggetto è la causa di quegli esiti). Perché, tuttavia, è per me impossibile utilizzare le retoriche fenomenologiche e le ricognizioni mnestiche sulle tracce storiche che Johnson utilizza negli Jahrestage? E’ proprio l’impianto benjaminiano di fondo a impedirmelo. Uwe Johnson [nella foto, a New York, nell’83] allegorizza à la Benjamin: un’allegoria che coincide in maniera straordinaria con la mimesi del reale. Questa, però, è la mitopoiesi, a meno che non si abbia una concezione del mito come irruzione sovrarazionale e ispirativa (e men che meno potrei permettermi una simile persuasione rispetto alla Cosa che devo rappresentare). Nel caso del mio nuovo libro, è l’ignoranza della realtà e la stoltezza di certa psicostoria a garantire il mito laddove bisogna svuotare di contenuti mitologici. Il mio soggetto non può essere allegorico: dovrebbe essere il termine ad quem dell’allegoria, coincidendo con quell’infinitudine vuota che Benjamin indica, sulla scorta di Curtius, nel Dramma barocco tedesco, e a cui bisogna sostituire un vuoto che non è il vuoto a cui Benjamin pensa: il mio vuoto è lo Zero-Zero, farina in cui il mondo si sfalda. Johnson distrugge il genere storico, fa fuoriuscire la storia dalla questione dei generi: operazione della cui profondità non ci si è resi ancora conto a queste latitudini. io devo fuoriuscire dal genere storico, ma contemporaneamente anche da molti altri altri generi: in pratica, da tutti. La mia affabulazione è Male, per questo devo fuoriuscire dal mesmerismo affabulatorio. Eppure devo raccontare: ecco la difficoltà che mi abbatte…
Per chi fosse interessato a Johnson, detto che qui c’è uno speciale a opera mia, riproduco qui di seguito un articolo sugli Jahrestage uscito nel 2003 su L’Indice.
Gli anni di Uwe Johnson
di Anna Chiarloni
Lamentavo tempo fa su L’Indice (giugno 2002) la bassa qualità della prosa tedesca contemporanea pubblicata da Feltrinelli. “Ma si vende come pane – mi fece notare, cifre alla mano, la nostra valorosa Frau Inge – e solo così riusciamo a mettere in cantiere i grandi autori, vedrà in autunno…”. Promessa mantenuta, e alla grande, perché I giorni e gli anni è da novembre in libreria in un’edizione completamente rinnovata a cominciar dal titolo, e integrale rispetto a quella curata da Bruna Bianchi (Anniversari, 1972). Il libro è infatti corredato da un’introduzione di Michele Ranchetti, una puntuale biografia dell’autore e una nota di Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti sui problemi della traduzione, così accurata da costituire un utile contributo per chiunque si occupi di questo argomento.
Protagonista di questo primo volume degli Jahrestage, la tetralogia che Johnson scrisse tra il 1970 e il 1983 è Gesine Cresspahl, che conosciamo fin dal primo romanzo stampato a occidente da Johnson appena fuoruscito dalla Ddr, Congetture su Jacob (1959): è la bambina dell’est che incalzata dall’Armata rossa, era riparata alla fine della guerra nella Germania orientale, passando poi a ovest come segretaria della Nato e infine a New York con la figlia Marie, avuta da Jacob. Qui la ritroviamo appena trentenne, impiegata di una grande banca statunitense. In Gesine s’intravedono tratti dell’itinerario dell’autore, uno dei tanti intellettuali tedeschi dall’esistenza franta dalla storia. Oriundo dei territori polacchi del Reich, il padre perso in un campo d’internamento sovietico, Johnson si forma nella Lipsia di Ulbricht fìno al distacco del ’59, seguito al suo rifiuto di collaborare alla liquidazione politica della Junge Gemeinde, un’organizzazione religiosa giovanile dell Ddr. Dirà più tardi, riflettendo sui suoi anni di studente inquadrato nella FDJ: “Le domande aumentavano e con loro l’amara consapevolezza che non ci fosse nemmeno lecito porle. Perché la Ddr – severa istitutrice qual era – puniva anche il minimo dubbio nella sua bontà negandoci le sue cure”. Tuttavia Johnson non si sente a casa nella Germania di Bonn, malgrado il grande successo presso l’editore Suhrkamp. Troppo alto il prezzo da pagare, ribadirà ancora nel 1981. Lui, ascetico moralista, dell’ovest tedesco disprezza il consumismo frenetico, la chiusura intimistica nel privato, soprattutto lo disgusta quel grottesco feticismo automobilistico che è tra i bersagli di Due punti di vista, il romanzo pubblicato nel 1965. Sono gli anni di Kiesinger, il cancelliere Cdu compromesso col nazismo. E’ il tempo della militanza cubana di Enzensberger, mentre in Svezia Peter Weiss lavora al suo Discorso sul Vietnam. Anche Johnson vuol cambiar aria, prendere distanza da un mondo che sente asfittico. Nel 1967 si trasferisce con moglie e figlia a New York, incoraggiato da Helen Wolff, grande nome dell’editoria tedesca – Kurt Wolff era stato l’editore di Kafka – emigrata negli Stati Uniti all’avvento di Hitler. Helen, che mi piace qui ricordare come madrina de L’Indice nell’anno della sua fondazione, sostiene le finanze di Johnson affidandogli la cura di un’antologia di autori tedeschi per le scuole americane.
E’ qui che Johnson inizia a scrivere con una tecnica del tutto diversa rispetto a quella “congetturale” dei romanzi precedenti, ossia a documentare la “vita”, come recita il sottotitolo, di Gesine Cresspahl dal 21 agosto al 19 dicembre del 1967. Il filo cronologico è sorretto dalle notizie del “New York Times”, il ventriloquo della narrazione, per usare una felice definizione di Massimo Raffaeli (“Alias”, 16.11.2002). Sì, perché Gesine è una sua fedele lettrice – il romanzo è anzi un’ode al giornale che, affidabile come una saggia “zia” descrive il mondo “con citazioni di prima mano, commenti, foto, riassunti delle puntate precedenti, piccoli gioielli del gusto del racconto”. Si capisce che Johnson, abituato a una stampa ingessata non solo dalla stridula “istitutrice” di cui sopra, ma anche dalle concentrazioni occidentali alla Springer, fosse affascinato da quel quotidiano che con la stessa algida obiettività scandiva i mesi del 1967 nei numeri dei caduti americani in Vietnam o nei dati sulla rivolta dei ghetti neri e sulla repressione dei giovani pacifisti. Il dilemma tipico di quegli anni tra poesia e letteratura documentaria è qui felicemente risolto da una struttura narrativa che richiama la tavola sinottica – nel secondo volume Johnson inserirà anche un registro dei nomi – procedendo tuttavia per incastri e sovrapposizioni oniriche.
Perché i giorni dell’anno sono anche Gedenktage, giorni della memoria in cui Gesine ripercorre per la figlia il passato nel Meclemburgo: le vicende domestiche all’avvento del nazismo, l’acquiescenza di una piccola borghesia onesta e operosa ma incline a quel sotterraneo compromesso che – nel secondo libro – condurrà la madre al suicidio. Heimatroman, lo definisce Wolfgang Emmerich: il romanzo di un paesaggio tedesco tracciato nel sangue della storia. Archivio di uno spatriato in bilico sul nulla che ripetutamente scrive:”Non ci tornerei a vivere in Germania un’altra volta.”. Al ritorno in Europa sceglierà di vivere in Inghilterra, dove si spegnerà – solo – nell’alcool.
“Chi racconta ora, Gesine? Noi due, non senti Johnson?”, si legge a pag. 256. Se la voce narrante è quella della protagonista e chi ascolta è la piccola Marie, altre voci si affollano nei corsivi del testo, tra i blocchi di eventi contrapposti. Sono le parole di una coscienza etica che incalza, voci dei vivi e dei morti che raccontano di oggi e di ieri. La stessa struttura dialogica rifrange l’andamento binario tra passato tedesco e realtà americana istituendo una serie di corrispondenze interne. L’acronia illumina i frammenti di una luce obliqua: è la tecnica che Hanna Arendt – alla quale Johnson è legato da profonda amicizia – rileva negli scritti di Benjamin. Certo, questo implica una pluralità di interpretazioni. Mi spiego. C’è chi ha visto nell’allineamento delle atrocità naziste con le purghe staliniane una condanna radicale del comunismo, se non una sorta di revisionismo ante litteram. E c’è anche chi, come Marcel Reich-Ranicki in una clamorosa quanto ingiusta stroncatura su “Die Zeit” (2.10.1970) ha letto addirittura ne I giorni e gli anni un romanzo del sangue e della zolla. Sono interpretazioni di comodo, che tirano l’autore per la giacca senza cogliere la complessità del testo. Perché Johnson, che sente nella carne “la colpa tedesca”, che è migrato attraverso le ideologie delle due Germanie, scrive ormai da un Niemandsland, da una terra di nessuno. Di qui il suo bisogno di ancorarsi, arrivato a New York, alla presa diretta, al dettaglio concreto, a una sorta di etica pragmatica che gli chiede di registrare elementi anche contraddittori di una società poliedrica e sfuggente come quella americana degli anni Sessanta. C’è infatti in questo primo volume la miseria dei neri calati nel piombo di un’atavica soggezione, c’e il soldato americano in Vietnam con la collana di orecchie tagliate ai Vietcong, c’e infine il fanatismo militarista – quanto attuale si legga a pag.169! – della politica estera statunitense. Ma Johnson concede anche spazio ai margini positivi della vita quotidiana, alla cordiale generosità individuale, all’illusione di Gesine, con la sua “zia Times” sotto il braccio, di “sentirsi a casa”. E soprattutto c’è il progressivo radicamento linguistico della figlia, il suo rifiuto del mondo europeo fino alla sintomatica dichiarazione: “Non vorrei vivere in nessun altro posto, solo a New York”.
Oggi, a trent’anni di distanza, I giorni e gli anni sembrano ribadire il diritto di una testimonianza a tutto campo, svincolata da un’appartenenza ideologica. Il risultato è una sorta di epico compendio di fotogrammi dal mondo alternati ai ricordi di una coscienza inquieta. Ed è proprio qui, dalle dolorose riminiscenze di un’anima tedesca che nascono le pagine migliori. Come quella di uno shabbat di settembre, nel parco lungo il fiume, in cui passato e presente, sembrano ricomporsi: “Può darsi mia figlia può giocare with yours?” chiede Mrs. Ferwalter – il numero tatuato sul braccio – a Gesine che parla in tedesco con Marie. E forse, avverte Johnson, c’è nostalgia di Europa nella sua voce: “Sua figlia è tanto composta. Si vede che non è americana, che è europea” dice l’ebrea rutena nel suo inglese incerto. Le bimbe si guardano l’un l’altra diffidenti. “Ma Mrs. Ferwalter diede l’ordine perentorio: – Go and play nicely! E allora Rebecca ubbidiente prese con sé l’altra bimba a andò all’altalena”. Come tutti i grandi narratori Johnson usa i segni mutili della storia allargandone il senso, proiettandoli verso il futuro. [tratto da “L’Indice”, gennaio 2003]
Uwe Johnson, I giorni e gli anni, ed.orig. 1970, trad. dal ted. di Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, introd. di Michele Ranchetti, Feltrinelli, Milano, pp.454, Euro 28.