MEDIUM – 6. PREPARATIVI DELLA SVOLTA

mediumggcom.jpgIl sito di MEDIUM
Acquista MEDIUM in forma cartacea a € 9.19 (più spese postali di € 4.98) presso Lulu.com (l’autore non guadagna un centesimo né dalla vendita del libro né dalle spese)
Comunicazione importante su prezzo e formato del libro cartaceo
<< DA DOVE CONTINUA


PREPARATIVI DELLA SVOLTA
mediumicoaudio.gif Al funerale, tre giorni prima della cremazione, c’era molta più gente di quanta mi attendessi. Tutta la zona, moltissimi anziani che mio padre aveva aiutato gratuitamente a calcolare tasse e compilare bollettini, quelli dell’Associazione Partigiani, che avevano portato le bandiere dell’ANPI e del Partito Comunista, mettendo un vecchietto a reggerle sulla soglia dell’androne, in fondo al quale la bara di mio padre era sollevata eccessivamente dalle piastrelle su un tavolo di ferro povero.


Io e mia sorella Gisella, all’alba, eravamo andati all’obitorio. C’era la stanza riservata ai parenti, con la bara aperta, prima della chiusura. Due giorni dopo il ritrovamento, congelato, il corpo di mio padre ci costringeva a indugiare. Siamo entrati tenendoci per mano, Gisella che piangeva sommessamente. La bara era scoperchiata nella metà superiore corrispondente al volto.
Zoom lento e incerto, soggettiva tremula, l’orlo della bara aperta si avvicina, non si intuiscono ancora i contorni del volto.
E finalmente eccolo: papà che dorme, congelato. Nessuna modifica ai tratti. Le labbra serrate lo sono all’interno della bocca, per l’assenza di dentiera, e non si osservano nella loro distesa totalità. Labbra viola. Il colorito brunito e mediterraneo di mio padre ridotto a un grigiore scuro sopportabile alla vista. La peluria dei capelli sotto chemioterapia conferisce un’aria di innocenza bambina al viso. Sembra un pulcino implume, appena nato.
Il morto sembra appena nato.
Siamo rimasti minuti e minuti a contemplare la valva svuotata.
Padre mio che sei in nessun luogo, come e cosa è questo nessun luogo?
Mai più avremmo ascoltato la sua voce. Il pensiero schiantava mia sorella. Mai più, mai più. Un mantra che la sconvolgeva.
Io avvertivo beanza. La storia tra me e lui assolutamente ripulita, ai limiti dell’inesistenza. Sconcertante e dolce beatitudine azzurrina. Abbiamo commesso errori insieme e non erano errori, poiché niente è errato. E non è mai finita, questa fine non è definitiva. Questa è l’origine fontanile di qualcos’altro: era la nitida sensazione che mi distendeva lo sterno, il respiro alto che si abbassava a livello addominale, rilasciandosi.
Dov’è la sua coscienza?
E ai funerali, chiunque mi stringeva la mano. La testimonianza fossile del buon ricordo non è un medicamento. Non intacca le cause della scomparsa e non allevia i sintomi. E’ disposta, essa stessa, a volatilizzarsi in breve.
Non agivo meccanicamente.
Vedo una ragazza dal volto triste, lo sguardo abbassato, avanza discretamente tra la piccola folla radunata intorno a me. Mi è di fronte e dice. “Sono la figlia di Amedeo…”
Per un attimo sono costretto a collocare il nome, non capisco, nel profluvio di condoglianze, poi ricordo. Amedeo è quello che si poteva considerare il migliore amico di mio padre. Morto nel giorno in cui mio padre crollò nell’attacco depressivo, quando finalmente pianse e alla fine di quel pianto non liberatorio arrivò la telefonata: era morto Amedeo. Anche lui per una patologia epatica. L’organo che trattiene le scorie e metabolizza, l’organo ambiguo, quello vaticinatore. Il fegato che cede, si schianta. Quel pomeriggio, dopo avere annuncianto a me e Gisella che sarebbe andato a portare un omaggio alla salma di Amedeo, mio padre arrivò al portone dove abitava il suo amico, in zona Corvetto, e tornò indietro, non ce la fece.
Abbraccio la figlia di Amedeo, il suo abbraccio di risposta è così fragile e incerto. Dico: “Se ne sono andati insieme”.
Annuisce. “Cosa farete della casa?”
La domanda mi lascia spiazzato. Non è una domanda armonica con il contesto. “Sgomberiamo”.
“Anche noi. Ce ne siamo andati. Mio padre ha trascorso anni di malattia, non ne potevo più di quel posto”.
“E tua madre?”
“In un monolocale. Io col mio fidanzato. Lo sgombero è stato veloce. Hai già trovato chi te lo fa?”
Sono perplesso e avvilito al tempo stesso. Lo sgombero è per me un momento di liberazione e di lutto definitivo, di lì non si torna più indietro e tutti i feticci e i reperti dell’infanzia finiscono triturati, dipersi in una discarica. “Ci sono molti libri. Devo inscatolarli, li prendo io. E’ una casa strapiena di oggetti e vestiti. Sarà un massacro…”
“Non me lo dire. Io ho trovato quest’agenzia di sgomberi. Sono bravi, hanno inscatolato loro. Costano pochissimo. Se vuoi ti dò il numero”.
Cerco lo sguardo di Federica. La vedo: alta e pallida, eretta nella sua postura nobile, mitteleuropea. Sta stringendo la mano a mia madre, è la prima volta che si incontrano. Mia madre, che non vedeva mio padre da vent’anni (a parte ai funerali e ai matrimoni della famiglia Genna), è un fantasma vestito multicolore.
Non ho idea di cosa fare per lo sgombero, chi contattare, pensavo attraverso Internet. “Sì, ti ringrazio, se mi dài il numero di quest’agenzia è un aiuto. Non saprei a chi rivolgermi”.
La figlia di Amedeo cerca nella borsa, estrae un biglietto, un piccolo notes, copia il numero, strappa il foglio dal notes, me lo consegna. “Chiedi di Antonio, è il responsabile. Viene lui a inscatolare. Tu puoi anche non essere presente, se è pesante. Io non sono andata. Non ci entro più, lì”.
Annuisco, la comprendo. Mi si getta al collo e mi bacia sulle guance, è sul punto di piangere. Mi saluta timida, lieve. E’ magrissima.
Irrompe Igino, il mio amico, e lo vedo piangere. I suoi piccoli occhi, solitamente secchi, lacrimano. Lo conosco da diciotto anni e non l’ho mai visto piangere. E’ l’uomo che mi incendia l’immaginario, abbiamo lavorato insieme a un portale Web, scrive racconti che mi fanno elevare l’immaginario di gradi Fahrenheit, adesso lavora a un romanzo. Aspetta la seconda figlia, sua moglie incinta non è potuta venire, io non mi aspettavo di vederlo e mi abbraccia. In diciott’anni non ci siamo mai abbracciati. E’ colpito emotivamente, è evidente che non riesce a elaborare colpi emotivi, e questo lo so da tempo. Gli voglio bene, glielo dico e lui non ascolta, non riesce ad ascoltare.
Arriva il mio editore, il mio capo. Annuso il suo profumo, che mi piace e che conosco da così tanto tempo, mentre mi abbraccia. Viene direttamente da Savona, deve avere fatto una levataccia.
C’è il sole. Tutto è bello.
Gisella crolla ciclicamente in pianti violenti, consolata dal suo compagno e da me, a turno.
La bandiera del PCI sventola in assenza d’aria al limitare dell’androne.
Federica mi osserva. Mi osserva mentre mi allontano, saluto tutti come un bambino, urlo “Grazie!” a tutti, sento di avere nove anni, saluto con la mano aperta ondulante, mi scende al cuore una tenerezza verso chiunque, quelli che sono venuti, i miei amici, i vecchietti, gli ex colleghi di mio padre, i parenti, me stesso, Gisella, mia madre. Salgo sul carro funebre.
Deponiamo la bara nell’immensa cattedrale dell’inceneritore del cimitero di Lambrate, una struttura ad arco immenso, che ricorda certa architettura spaziale, un edificio che supera il realismo socialista, in cemento armato e luci viola.
Brucerà.
Tutto brucerà.
Ho contattato il signor Antonio, ha risposto subito, l’uomo dello sgombero, grazie al numero fornito dalla figlia di Amedeo. Ci diamo appuntamento, deve valutare la casa, la quantità di arredi da demolire, i passaggi attraverso cui fare fuoriuscire i più ingombranti, il numero di scatole.
Ci vediamo il pomeriggio in cui il corpo di mio padre attraversa le due camere di combustione del forno inceneritore.
E’ un quarantenne alto e pallido, muscoloso e ombroso. La sua fisionomia ricorda vagamente certe foto di H.P. Lovecraft. Il mento sporgente, gli occhi incavati, lo sguardo che può risultare minaccioso o morbosamente introverso. Si esprime con brevi frasi che hanno un carattere assoluto e definitivo.
Mi dice. “E’ inutile la presenza di parenti. Venite un giorno prima, mentre noi stiamo inscatolando e prendete quanto dovete prendere”.
“Non è possibile. Eredito i libri di mio padre e, come vede, sono molti. Li inscatolo. Le chiedo se me li porta a casa. Pago un sovrapprezzo, quanto c’è da pagare per uno straordinario di questo tipo”.
La conversazione, per la mia sorpresa, si arresta. Il signor Antonio medita. Il suo aspetto muta. Si incurva. Sussurra: “I libri…”
Non riesco a comprendere quale sia il problema.
Riprende improvvisamente: “Li inscatola il giorno stesso del trasloco, ma noi veniamo i giorni precedenti a preparare tutto. Lei e i parenti potete venire a ritirare quanto desiderate tenere per voi il giorno stesso in cui sgomberiamo”.
Sto per chiedergli se, così facendo, non disturbiamo lo sgombero, che durerà quasi un giorno intero, quando squilla il telefono.
Il maledetto telefono a disco in plastica grigia.
Alzo la cornetta, sono inquieto. “Pronto”.
“Siamo ancora noi”. E’ la stessa voce di chi ha telefonato la notte del ritrovamento.
“Senta, se non smette con queste telefonate, faccio rintracciare la chiamata e parte una denuncia”.
“Siamo sempre e solo noi. Rinuncia alle tentazioni. Hai già ceduto alla tentazione, come aveva previsto. Altre tentazioni si presenteranno. Lui era penetrante, lo aveva previsto. Adesso sta tornando. Tu devi rinunciare alle tentazioni. C’è molto male di mezzo, hai fatto molto male, tu sei…” e butto giù la cornetta. Violentemente. Il signor Antonio mi osserva senza mutare espressione. Mi scuso con lui per il gesto, gli chiedo di attendermi un attimo. Attivo il cellulare e chiamo il mio Contatto a Roma. Il Contatto è un appartenente ai servizi segreti, conosciuto durante il mio periodo romano, quando lavoravo a Montecitorio e in luoghi attinenti al Parlamento, ma paralleli. Mi si è affezionato. Ha telefonato per farmi le condoglianze. Mi scuso con lui al cellulare e gli spiego la situazione: “C’è questo stronzo, ha un accento straniero, non riesco a qualificarlo. Ce la fai a rintracciarmi il numero da cui chiama? Ti dò l’utenza di mio padre… Sì… 025454268… Due telefonate finora, però una dopo le tre del mattino, la notte in cui ho ritrovato il cadavere, l’altra adesso… Mi richiami tu? Grazie. Scusami per il disturbo… No, davvero, scusami, so che è una cazzata, ma la deve smettere…”.
Il signor Antonio è sempre immobile e, appena chiudo la chiamata al Contatto, riprende come se avessi appena pronunciato l’ultima frase del nostro dialogo: “Non disturbate minimamente. Ho soltanto bisogno delle chiavi dell’appartamento, dobbiamo preparare il tutto”.
Ci accordiamo.
Il prezzo è irrisorio.
Lo sgombero è fissato tra quattro giorni.
Sono soffocato dall’imminenza dello sgombero. Non vedo l’ora che tutto abbia fine.
Non vedo l’ora che tutto abbia fine.
Mi sembra di essere soltanto all’inizio.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: