Su l’Unità, parte del’inedito che sarà letto a OFFICINA ITALIA

officinaitalia.jpgRingrazio l’ufficio stampa di OFFICINA ITALIA (qui il programma che ha inizio stasera alle 21) e la redazione cultura de l’Unità per la pubblicazione di parte dell’inedito che leggerò sabato 5 maggio, sempre alle 21, apocalisseconfigurecover.jpgintitolato APOCALISSE CON FIGURE. In quell’occasione verranno gratuitamente distribuiti 200 libretti (200 sono i posti a sedere alla Palazzina liberty) che contengono la versione integrale dell’inedito e da cui selezionerò frammenti, per una lettura della durata di 18′. Oggi pubblico la parte edita dal quotidiano, e domani metterò on line la versione integrale, in pdf, del libretto fatto stampare a mie spese e dato, come atto simbolico, ai lettori e ascoltatori che interverranno alla manifestazione. In seguito, verrà messa on line una lettura in due atti in file mp3, con regia musicale. Tale inedito è parte, a sua volta, di un pezzo più lungo, desunto dal nuovo romanzo, in uscita da Mondadori nel gennaio 2008. [gg]


Giuseppe Genna

APOCALISSE CON FIGURE

(1941-1945)

“È fatto divieto agli ebrei di concedere a Hitler vittorie postume”
614ma norma del canone ebraico istituita da Emil Fackenheim, in La presenza di Dio nella storia

“Si possono esaminare tutte le ragioni, tutti i tentativi di spiegazione: il contrasto tra lo spirito tedesco e lo spirito ebraico, l’infanzia di Hitler, e così via. Ogni spiegazione può essere vera e tutte le spiegazioni prese insieme possono essere vere. Ma sono semplici condizioni: se anche sono necessarie, non sono sufficienti. Un bel giorno si deve cominciare a uccidere, cominciare a sterminare in massa. E io dico che c’è uno iato tra queste spiegazioni e il massacro. Non si può generare un male di questa portata. E se si comincia a spiegare, a rispondere alla domanda ‘perché?’, si finisce, lo si voglia o no, per giustificare. La domanda in se stessa esibisce la sua oscenità. Perché gli ebrei sono stati uccisi? Perché non c’è risposta alla domanda ‘perché?’”.
Claude Lanzmann, regista di Shoah, a Ron Rosenbaum in Il mistero Hitler

Porto a voi una preghiera diversa. Voi che siete gli innocenti dispersi. Gli innocenti concentrati in luoghi di non dicibile sterminazione, di ineffabile orrore. Voi che siete la nemesi della non-persona, che vi ha trascinati oltre fili spinati, per degradarvi, per disumanizzarvi con la scientezza di un boia colossale, che proviene da regioni esterne dell’universo. Voi sei milioni di nomi a cui si conduce un omaggio microscopico e inadatto: le parole di questo libro, le parole di tutti i libri. Voi i cui nomi, uno per uno, meriterebbero di abradere le parole che qui si stanno scrivendo, e di prenderne i posti e le vostre storie, e i volti che avete visto e le gioie che avete vissuto, e i dolori anche, anche le tragedie: sei milioni di nomi uno dietro l’altro, tornati individuabili, nel digesto finale della nostra storia.
Voi a cui porto una diversa preghiera. Con l’umiltà di chi dopo, grazie voi, è: ringraziando, rendendo la testimonianza impossibile. Oltre ogni possibilità, sempre, sia resa la testimonianza. Non la visione: la testimonianza.
Voi abbandonati inanimi in fosse dette comuni.
Non muti, continuate a parlare.
Parole vostre, e di chi riuscì a sopravvivere, compongano questo memoriale in azione.
La letteratura non redime, perché la letteratura ha creato lui, la non-persona che dispose il vostro genocidio. Lui, che letterariamente parlò alle folle invasate, inebriate, in ipnosi cieca e furiosa, desideravano quelle parole, e che in silenzioso segreto fece attuare per mani altrui, complici, lo sterminio.
E i bambini.
Voi tutti, nel separarvi dal corpo, ancora in forze od oramai disfatto in cencio d’ossa e organi minati, sotto i proiettili, nelle fiamme, nei gas inalati, non deposti ma rovesciati nella berciante fretta in buche di terra gelida a liquefarvi: un attimo prima di perdere coscienza, voi, i Santissimi, siete tornati bambini.
Bambini, siete qui e ora, nella sostanza cieca di una beatitudine senza corpo.
Conoscete tutto.
Quanto è difficile scrivere questo. Quanto sono state dure per lo scrittore le pagine precedenti, che conducevano a questo.
Vittime, voi, dell’impunità di una storia che continua, a cui si tenta di opporre arte e memoria, incluse queste parole, sapete che la letteratura non redime, le sentenze non redimono.
Infinitamente piccolo, di fronte voi, alti Santissimi, io invoco come nei tempi antichi la forza e la radiazione, come le Muse per chi mi precedette, affinché le mani scrivano quanto deve essere scritto in nome dei vostri nomi, della vostra Santità di separati, di esclusi da una non-persona.
Voi, fratelli maggiori invisibili, sostenete queste mani, questa mente.
Come in Geremia, alla fine del suo libro, incastonato nel Libro, io sono il re di Babilonia. Io sono il terminale dell’occidente che aveva segretamente in cuore la vostra morte, tutto l’occidente che l’ha preparata per secoli: io mi faccio carico di questo. Io sono, voi siete Evil-Merodàch, re di Babilonia. Geremia disse: “Ora, nell’anno trentasettesimo della deportazione di Ioiachìn re di Giuda, nel decimosecondo mese, il venticinque del mese, Evil-Merodàch re di Babilonia, nell’anno della sua ascesa al regno, fece grazia a Ioiachìn re di Giuda e lo fece uscire dalla prigione. Gli parlò con benevolenza e pose il seggio di lui al di sopra dei seggi dei re che si trovavano con lui a Babilonia. Gli cambiò le vesti da prigioniero e Ioiachìn mangiò sempre il cibo alla presenza di lui per tutti i giorni della sua vita. Il suo sostentamento, come sostentamento abituale, gli era fornito dal re di Babilonia ogni giorno, fino al giorno della sua morte, per tutto il tempo della sua vita”.

Tornando dal fronte russo, in arretramento tutte le divisioni della Wehrmacht, mentre l’Armata Rossa vomitava dalla Siberia inestinguibili riserve umane e i binari delle retrovie venivano fatti saltare in dodicimila punti da partigiani impavidi nel gelo sovietico – tornando a piedi con la sua divisione, il soldato tedesco W.R. sentì sotto la suola destra, a fiore di terra, scricchiolare e spaccarsi un osso. Si piegò, immerse le mani nel terriccio sfatto in fango, scostò la massa terrosa e vide il gomito slogato che si era spezzato al suo peso: sepolto. Chiamò gli altri commilitoni, e scavarono, per un’area che si estendeva oltre quanto riuscirono a scavare, e videro nel fango i capelli, la pelle conservata dal gelo trascorso degli inverni, e le ossa, e l’informe colliquame di migliaia di corpi che furono vivi, e videro i crani perforati da colpi a bruciapelo, lembi di pelle su cui le fiamme postume non avevano attecchito.
Erano alle porte della città di Dvinsk, arretrando in fuga verso il Baltico, lungo il fiume Daugava, sulla strada al ventiduesimo chilometro.
Il soldato chiese: “Siamo stati noi? Siamo stati noi a fare questo?”

Voce di Heinrich Himmler nel 1940, allocuzione alle divisioni di Einsatzgruppen, disse: “È molto più facile andare contro il fuoco nemico con una compagnia, anziché provvedere, con una compagnia, a schiacciare, in un determinato territorio, una popolazione recalcitrante di specie culturalmente inferiore, compiendo esecuzioni, deportando la gente, portando via donne urlanti e piangenti… Tutto questo dover fare, l’attività segreta, stare di guardia alla Weltanschauung, questo essere coerenti con se stessi, questo dovere ignorare ogni compromesso, in molti casi è molto, molto più difficile. […] Esiste una soluzione chiara e limpida del problema giudaico: fare sparire questo popolo dalla faccia della terra. Le SS si sono assunte questo onere, noi ci siamo caricati della responsabilità relativa. E ne porteremo il segreto nella tomba con noi”.

Bocca di Adolf Hitler, il labbro inferiore unto di saliva e di purea di coste e patate lesse sminuzzate, fatta fuoriuscire la forchetta ancora lorda di un filamento di costa unto, pronuncia: “La natura è feroce, e quindi possiamo esserlo anche noi. Se io spedisco il fiore dei tedeschi nella tempesta d’acciaio della guerra che si prepara, senza provare il minimo dispiacere per il prezioso sangue tedesco che verrà versato, non dovrei avere il diritto di togliere di mezzo milioni di individui di una razza inferiore, che si moltiplicano come insetti nocivi?”

Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte, noi ti beviamo al mattino come al meriggio ti beviamo, la sera noi beviamo e beviamo… Nella casa vive un uomo che gioca con le serpi, che scrive,
che scrive in Germania, quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarethe, i tuoi capelli di cenere Sulamith, noi scaviamo una tomba nell’aria, chi vi giace non sta stretto…


5 ottobre a Dubno, in Ucraina. L’ingegner H.F.G. testimonia: “Moennikes e io andammo direttamente alle fosse. Nessuno pensò di impedircelo. A questo punto udii provenire da dietro una collinetta di terra vari colpi di fucile in rapida successione. Le persone, scese dai camion, uomini donne e bambini di ogni età, su comando di un SS, che impugnava una frusta o uno scudiscio, dovettero spogliarsi e deporre i propri effetti in luoghi prestabiliti, le scarpe divise dagli abiti e dalla biancheria intima. Il mucchio delle calzature comprendeva, da quel che ho visto, da ottocento a mille paia, e c’erano grandi mucchi di biancheria e di abiti. I deportati si spogliavano senza pianti né grida, se ne stavano raccolti in gruppi per famiglia, baciandosi e dicendosi addio a vicenda, in attesa del cenno di un altro SS che era sceso nella fossa e impugnava del pari una frusta. Durante il quarto d’ora in cui sono rimasto accanto alle fosse, non ho udito nessun lamento o implorazione.
C’era per esempio una famiglia di forse otto persone… Un’anziana con i capelli candidi reggeva in braccio un bambino di forse un anno, canticchiandogli qualcosa e facendogli il solletico, e il bambino lanciava gridolini di piacere. Il padre e la madre guardavano la scena con gli occhi imperlati di lacrime; l’uomo teneva la mano di un ragazzino sui dodici anni, parlandogli a voce bassa, e il ragazzo faceva del suo meglio per inghiottire le lacrime. Il padre indicava con il dito il cielo, accarezzava la testa del figlio, sembrava spiegargli qualcosa. A questo punto, lo SS che si era calato nella fossa gridò qualcosa al suo camerata: questi isolò dal resto una ventina di persone e ingiunse loro di recarsi dietro la collinetta di terra. Tra queste si trovava la famiglia di cui ho testé parlato. Mi ricordo perfettamente di una ragazza sottile e coi capelli neri che, passandomi accanto, indicò con un cenno se stessa e disse: ‘Ventitré anni!’. Mi recai a mia volta dietro la collinetta di terra e mi trovai di fronte a un’enorme fossa; in questa le vittime giacevano fittamente ammucchiate l’una sull’altra, tanto che se ne vedevano soltanto le teste, e da tutte il sangue scorreva sulle spalle. Alcuni dei fucilati si muovevano ancora, certuni alzando le braccia e agitando il capo, per mostrare che erano ancora vivi… Volsi lo sguardo all’uomo che provvedeva alle esecuzioni, un SS che se ne stava seduto per terra, sul lato minore della fossa, con le gambe penzoloni in questa, un mitra di traverso sulle ginocchia, intento a fumare una sigaretta. I fucilandi, completamente nudi, scesero nella fossa per una rampa scavata nella parete di fango e, inciampando nelle teste dei caduti, raggiunsero il punto indicato loro dalle SS. Si disposero davanti ai morti o feriti, alcuni di loro facendo una carezza a quelli che erano ancora vivi e dicendo sottovoce qualcosa. A questo punto risuonò una scarica di mitra. Guardai nella fossa e vidi che alcuni dei corpi erano ancora agitati dalle contrazioni agoniche oppure erano già immobili. Dalle nuche ruscellava il sangue”.

Distruzione del carnaio di Kiev: “Ho assistito alla cremazione dei cadaveri di una fossa comune presso Kiev, durante la mia visita del mese di agosto 1942. La tomba aveva cinquantacinque metri di lunghezza, tre di larghezza e due e mezzo di profondità. Aperta la fossa, i corpi furono coperti di combustibile e dati alle fiamme. Per la cremazione occorsero quasi due giorni. Io avevo cura di sorvegliare che tutta la fossa fosse percorsa dal fuoco vivo fino in fondo. Così tutte le tracce furono cancellate…”

È certo che la decisione circa la soluzione finale, quale che sia il momento in cui venne formulata, non aveva nulla a che fare con l’aggravarsi della situazione sui fronti. I massacri erano coerenti con l’insieme del pensiero hitleriano e, a partire da tali premesse, addirittura inevitabili. Per Hitler il giudaismo, come più volte aveva dichiarato e scritto, era il vero agente infettivo della grande malattia mondiale. Quindi, secondo una concezione apocalittica, si trattava di sradicarlo dalla sostanza biologica.

Dicembre 1941. Kulmhof, nome tedesco per il polacco Chelmno. Castello di R.
Dalle stanze del castello vengono fatti discendere sei disabili mentali: le loro fisionomie contorte, le sopracciglia folte, gli sguardi bui, interrogativi senza interrogazione, la donna grassa in camicia da notte a piedi nudi. Scendono la scalinata. Di fronte al portale principale è il camion. È a tenuta stagna: un convoglio metallico. Non è evidente, verso l’angolo destro della pancia del camion, a poca distanza dall’albero a camme, il foro da cui penetra il freddo all’interno del container.
Piccola scaletta per fare salire, difficoltosamente, all’interno i disabili, che si muovono a scatti disarticolati, uno cade dalla scaletta e si ferisce in fronte e piange come un bambino.
Chiusura delle porte.
All’autista è stata somministrata una generosa dose di vodka.
I disabili, all’interno di quella cella su quattro ruote, metallica e spoglia, hanno freddo e paura, si agitano, è buio, battono coi pugni le pareti metalliche.
Viene connesso un tubo tra lo scarico del camion e il foro aperto sul pavimento del container: SS serrano i manicotti.
Ordine di accendere il motore.
Ordine di sistemare in folle la marcia.
Ordine di accelerare per emettere maggiormente gas di scarico.
Ordine di ingranare la prima, la seconda marcia, di girare in tondo.
Attesa.
Apertura della camera stagna del container: totalmente satura di gas.
A terra, morti per asfissia, i sei malati mentali, l’esoftalmo che impressiona, il colorito epidermico cianotico.
Ha funzionato. È il modello. Parte da qui.

I vostri nati torcano i visi da voi

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