La pagina di Lulu.com per acquistare la versione cartacea di MEDIUM è stata visitata 2340 volte. Le copie vendute sono al momento 309. L’obbiettivo che il progetto si poneva era di raggiungere in forma cartacea 300 lettori entro dicembre. Ogni capitolo di MEDIUM on line è stato visitato da una media di 2.000 utenti unici, per un tempo medio di 4’50”: cioè, è stato effettivamente letto.
Per tramite di un’intellettuale bulgara visitatrice del sito, un editore di Sofia si è interessato a MEDIUM, che verrà tradotto e pubblicato in Bulgaria: l’autore non percepirà nulla dell’anticipo e dei diritti di vendita, che andranno invece a un’associazione benefica che aiuta bambini orfani.
Il sottoscritto ha ricevuto 124 mail estremamente commoventi e lunghe, che ha conservato in apposita cartella e a cui ha risposto in toto, lettere circa questioni personali intimissime, che riguardano la perdita del padre, della madre, di fratelli e sorelle, in relazione all’impossibilità di parlare di questa esperienza, così profondamente individuale e traumatica, così universale.
Prima riflessione: l’abbraccio che mi auguravo è riuscito.
Non so, ovviamente, ora che la pubblicazione on line è terminata, quanti lettori ancora acquisteranno il libro cartaceo MEDIUM. Il punto, tuttavia, non era questo e rimane un altro. Il progetto di pubblicare un romanzo tanto intimo era un atto simbolico e un atto pratico. La scrittura di MEDIUM è avvenuta anzitutto come dono: a due persone essenzialmente, come invito a superare il trauma della morte del padre attraverso una deriva immaginaria, l’esplosione e la ramificazione in germoglio di ciò che la vita non ha concesso e che la morte sembra impedire. L’esposizione di una materia tanto intima è in sé un trauma per chi, quella materia, l’ha affrontata. E’ però un trauma che, nell’arco del libro e attraverso un reperto che la realtà offre (questa sconcertante lettera d’amore dalla DDR, effettivamente ritrovata durante lo sgombero della casa di mio padre), si tramuta in una fantasia che fiorisce. L’io si espone, forzato, a un confronto in cui la verità non può che essere detta nudamente: io e chi non è più, in un dialogo apparentemente impossibile, in cui si è avversari e fraterni, in cui ogni gerarchia è superata, ogni memoria disciolta. Ne rimane un residuo: non è più memoria, è immaginario. Se devo immaginare il volto o la figura di mio padre, mi restano solo lacerti di immagini, un volto incomponibile nel suo totale, e si sovrappongono tratti di quando ero piccolo, di quando ero adolescente e poi adulto e poi del periodo in cui mio padre è andato a morire. Il padre non è più il padre, è mio padre, sconosciuto almeno quanto conosciuto. Il padre diviene il Padre. L’invito a superare il trauma è in sintesi questo: il rapporto da risolvere non è il problematico rapporto storico col padre, ma il rapporto primario, coinemico, archetipico col Padre. La dissoluzione di ogni problema nel rapporto con l’archetipo non esime dalla tristezza e dal senso di perdita, che rimangono; essa però trasforma il rapporto, lo sposta a latitudini che nessun umano prima conosceva di sé, che variano da persona a persona – e questo è un lavoro che ognuno può compiere in sé, su sé. Il senso del libro è alla fine questo: trasformatevi nell’abbraccio al Padre.
Questa impossibilità a dire, a elaborare il lutto, questa vetrificazione dell’esperienza del momento del trapasso o dello choccante ritrovamento impedisce anzitutto la parola e poi impedisce l’immaginazione – o, meglio, la sostituisce con la memoria storica, incubando ciascuno nella colpa finale di essere sopravvissuto e di non avere fatto abbastanza, di non avere detto abbastanza, di non avere abbracciato abbastanza. Le cose andarono così: questa accettazione diviene impossibile, mentre il trauma cristallizza la non accettazione. Il trauma, però, è esterno al cadavere, è esterno alla morte. La morte, intesa come evento storico assoluto che accade a chi muore, viene pietrificata in questa impossibilità di rapporto. Di qui, una follia metropolitana, occidentale, contemporanea: non stare molto tempo accanto e davanti alla salma. La morte è un rapporto, il trauma avviene in chi sopravvive. Il morto non subisce quel trauma. Il trauma è dell’io, per quanto profondissimo, e nell’àmbito dell’io va disciolto. Il discioglimento conduce a pacificazione gioiosa. La salma sembra bambina. Il cadavere non è più la persona: questo è sensibile, si sperimenta, si è, lo si vede, a patto che il proprio io, per fortuna o lavoro pregresso, sia disposto a vivere il qui e ora della morte, che è soltanto una perdita del corpo dell’amato, e non una perdita dell’amato: dell’amato che è morto nulla si sa. Immaginiamo. Alluciniamo. L’allucinazione, che fa perno sulla percezione, la quale è a sua volta un’allucinazione costante e coerente e particolare, è la cura. L’invito che proviene da MEDIUM è: entriamo nella cura, cioè nell’attenzione, curiamoci grazie a ciò che non possiamo più sapere dell’amato scomparso, e non invece tramite i reperti mnemonici storici, su cui invariabilmente non si può agire. La memoria non cura se non è considerata un’allucinazione dinamica e, essa stessa, una rievocazione di atti vissuti dei quali soltanto parzialmente sapevamo. L’uomo ha la tendenza alla pietrificazione, alla vetrificazione: la memoria è una potenza che l’uomo solidifica, per certificazione in funzione della propria stabilità – e qui è lo spreco umano, la misinterpretazione, l’arresto del flusso, del desiderio, del divenire. Questo arresto è fatto di paura. E questa paura è: paura di perdere se stessi, di perdere io.
Alcuni passi da mail arrivatemi:
“[…] Penso a mia madre, alla mia disperazione mentre guido piangendo nel buio dell’alba in un’inutile ricerca sotto i ponti della zona (depressione maggiore, la porta è aperta, lei non c’è, la mattina il figlio psicologo doveva accompagnarla alla visita psichiatrica). Poi, improvviso, un lampo di luce e mi osservo frenare bruscamente, attraversare la strada in un punto preciso, affacciarmi alla rete protettiva e lei è proprio lì dove il lampo mi aveva detto, riversa in una scarpata, in vestaglia. I polsi sanguinano, vicino alle mani un coltello da pane con cui aveva cominciato l’incisione ma non era affilato, allora ha proseguito col coperchio arrugginito di una lattina di pelati trovata nei pressi. Scavalco la rete, non sono mai più stato lucido come in quei secondi. Respira, è viva, la faccio alzare e le sollevo le braccia per fermare il sangue. L’aiuto a risalire in strada, non parla, è una bambina intontita. Oggi, dopo dodici anni, è ancora viva, ha deciso di vivere. Non abbiamo più parlato di quella mattina. Il lampo di luce, […]”
“[…] Mi è scesa come un’ovatta da un paio d’anni a questa parte rispetto ai miei genitori. Parlo con loro poco o niente. E questo da quando entrambi una prima volta hanno rischiato di morire. prima mio padre con l’infarto e poi mia madre andata in coma per un po’ a causa del pancreas, che tu ti chiedi come cazzo è possibile e cosa significa mai il pancreas… eppure. Dopo quei giorni, io non riesco a parlare con loro più. Stento, fatico, mi contorco dolorosamente; mi sento in colpa nel sentirlì già fragili, rotti e pronti a cadere in pezzi. E certe volte me li immagino morti […]”.
“Queste parole che tu riesci a dire della morte di tuo padre e del dolore dei tuoi sono le parole che non sono riuscita a dire io davanti alla salma di mia madre, un attimo prima che chiudessero la bara. Qualcosa mi chiude da quel momento la bocca. Se provo a parlare, dico delle banalità che sento che non corrispondono a quello che dovrei dire. Come hai fatto a dirle tu queste parole? Sono queste le parole che dovrei dire, lo sento…”
Dunque, la seconda riflessione: la letteratura parla. La letteratura parla per, parla per conto di. Continua: a parlare per. Per bocca di altri si riconoscono zone di sé interdette a sé. Non è colpa di chi è morto e nemmeno dell’evento della morte. E’ colpa di una società che non sa più sentirsi e inocula in tutti i suoi immorali precetti votati alla creazione senza fine di traumi: la perdita è perdita e basta. La negazione è totale e definitiva. Si è lasciati soli, privi di comunità, di storia pregressa comunitaria, cioè di rito, cioè di messa in dinamica di ciò che il trauma congela. Non è così. Il morto, non il cadavere, parla e la letteratura mette per iscritto questa allucinazione. Ovidio: “Verso il cielo tendevo le braccia: | le braccia brune divennero tutte di penne leggere. | La veste tentai levarmi di dosso, ma piuma | era già bell’e fatta con nella pelle profonde radici | e su la terra m’innalzo.…”. E non è questione di tempo: a secoli da Ovidio, Celan: “Una parola, | lo sappiamo, | un cadavere, | laviamolo, | pettiniamolo, | volgiamo il suo occhio | verso il cielo”.
Parla, non smette di parlare, continua a parlare: è il calco umano, è lo stampo umano. Il calco: qualcosa di vuoto, di residuale, da cui fuoriuscì pesante la statua. Nel vuoto del calco avviene qualcosa che non sappiamo. Il vuoto cos’è? E’ fermo o è dinamico? E’ attuale o è potenziale? Da dove giunge l’immaginazione? Dal pieno o dal vuoto?
Ritrovarsi in questo punto, insieme, dove l’intimissimo coincide con l’universale – ecco la cura che la medicina e il modello psicoanalitico falliscono. Poiché la cura è attenzione e lo è concretamente: si riesce a essere attenti davanti al cadavere di chi si ama? Si è attenti al fatto che non si è finito di amare la persona morta? Cosa significa questa continuazione di amore nel vuoto?
Ultima, laicissima riflessione. Un amico scrittore mi dice l’altro giorno: “Ho letto MEDIUM, è troppo cronachistico”. L’amico mente, perché mi è chiaro, per pregressa conoscenza, che legge dei miei libri al massimo le prime venti pagine e lui, le prime venti pagine di MEDIUM, le ha vissute: è venuto lì, sulla scena del ritrovamento, e ha letto nelle prime venti pagine del libro una cronaca. Perché percepisce il cronachistico come male? Lo fa per una questione di stile. Questo stile che racconta davvero quanto è successo non sarebbe letterario. Ecco quanto sbagliata è oggi la nozione di stile. Non che sia errato ragionare sullo stile, ma è certo che questo stile (lo stile dei contemporanei occidentali) di fronte all’universale si brucia, non regge, a me in quanto lettore interessa l’universale. Se la letteratura non può fare a meno dello stile, quanto a me gli esiti sono due: o non mi interessa la letteratura oppure lo stile contemporaneo non è in grado di reggere il contatto con l’universale. Per stile si intenda qui non soltanto la lingua di superficie, con la sua prosodia, mimetica o meno alla materia che viene irradiata dal testo, ma anche con i suoi elementi che paiono irrinunciabili – storia e personaggi, anzitutto. Per me non esistono e tanto più non esistono in un libro come MEDIUM. O meglio: esistono, ma come rappresentanti in carne di carta di qualcosa che è dinamico e vuoto, con un io che non so, mi affanno a sapere e finirò per comprendere che non devo saperlo, ma starci e basta – con attenzione, cioè con cura. E’, a mio parere, il motivo per cui il primo e ultimo personaggio, cioè “io” stesso, oggi è talmente poco visto dagli scrittori che, a partire dalla poesia (in Italia essenzialmente lirica) fino al romanzo confessionale, dà alla luce frutti incommestibili.
Non esiste alcuna rigenerazione a cui procedere se non si procede prima a un lavoro sull’io e sulla percezione, a una raffica di domande, poste con calma e attenzione in se stessi. Poi, quello stare nell’io, darà l’unico frutto possibile: la potenza della narrazione, che non è i poemi, non è i romanzi, non è le poesie che oggi si leggono e nemmeno le forme rivoluzionarie a cui si pensa avendo evitato, per cieca inconsapevolezza, lo scavo rigoroso, impietoso e pietoso, di sé in se stessi.
Queste sono le prime riflessioni che mi sono venute in mente a proposito del progetto. Altre ne seguiranno, soprattutto rispetto a ciò che diventa il testo in Rete, ai suoi rapporti con la critica, all’esposizione di un percorso personale – quello dell’autore – all’interno di un testo che da lui esce.
Intanto: grazie di avere letto MEDIUM, grazie a chi l’ha letto. Grazie di avere preso quanto avete preso, qualunque cosa sia stata presa.