di DAVID FRATI
[da Mangialibri]
Uno spettro si aggira nelle periferie urbane, negli “hinterland fumigosi”, nei bar: è l’astio da cane rabbioso di una popolazione che l’edonismo e il consumismo hanno ormai mutato nel profondo, spazzando via la rassegnazione e la cultura del lavoro delle sue origini contadine e non lasciando nulla in cambio.
Come è lontana l’Italia del 1917, quella di Giuseppe, giovane siciliano scaraventato dalla pace agreste del paesino di Contrada Conca nell’inferno della Grande Guerra: l’umidità invincibile che ghiaccia le ossa, i bagliori dei bengala che graffiano il buio, il rumore secco degli spari e delle urla, gli odori terribili delle macerie,delle carni bruciate e dei cadaveri in putrefazione. Ma anche gli sguardi pudichi di una ragazza che stende i panni di fronte a un casale di Sant’Andrea di Barbarana, e la sua carne bianca da baciare tra il fieno. L’indomani è l’ora di partire per il fronte, per il macello, Giuseppe non lo sa ma ha un appuntamento con una granata che a lui strapperà un occhio e a tanti suoi compagni la vita. Dopo un mese in ospedale a Treviso, il ragazzo va a cercare la giovane contadina, ma la sua famiglia è stata sfollata chissà dove. Se ne torna quindi a Marsala, e da lì su un carretto fino a casa: qui riabbraccia i genitori, ritrova i suoi paesaggi e scopre anche inattese baracche di sfollati del nord. Tra quegli sfollati – incredibile – c’è anche la ragazza, il destino ha giocato pesante stavolta. Giuseppe e Luigia nel 1921 si trasferiscono a Calvairate, Milano: in quelle case popolari settant’anni di storia italiana, tra fascismo e centrosinistra, emigranti terroni e giovani tossici, magrebbini e cingalesi si sono incrostate, incistate, sovrapposte come strati geologici. A scavare come un paleontologo ora c’è Giuseppe Genna, il nipote del soldato siciliano senza un occhio e della contadina del nord. Tutto quello che possiede lo porta in qualche busta di plastica del Pam. Tra quella umanità spostata e paranoide, Giuseppe inizia a vivere, amare, pensare, cercare un lavoro…
Arriva alla terza e non ultima release (e al terzo editore, Minimum Fax dopo peQuod e Mondadori) lo zibaldone di pensieri e parole del mai domo Giuseppe Genna, quell’Assalto a un tempo devastato e vile – ai più avveduti non sfuggirà la doppia possibile interpretazione del senso del titolo – che è il suo libro-feticcio, quello che ne ha segnato l’esordio letterario e per sua stessa ammissione chiuderà il cerchio alla fine della sua carriera (a quel punto saremo, c’è da augurarselo, alla versione 15.0 o giù di lì). Il testo è stato riveduto e ampliato, quindi giudicarlo come opera prima non è più pensabile, ma comunque nello scheletro originario del libro rintracciabile in trasparenza appaiono evidenti le stimmate dello stile che ha fatto di Genna il più fascinoso degli scrittori italiani. E cioè quel magma cupo e rovente equidistante da noir urbano, poema e pamphlet filosofico in cui quanto e più della cosa che viene detta conta il come viene detta (e la sintesi tra significante e significato è così mirabile che a tratti viene alla mente il miglior Nietzsche), arricchito qui anche da digressioni autobiografiche – tanto che la definizione di romanzo di formazione appiccicata da qualcuno al libro non è poi tanto peregrina quanto potrebbe sembrare di primo acchitto – approfondimenti giornalistici (il capitolo su Scientology, per esempio) e persino frammenti di fiction fantacomplottista (vedi il capitolo intitolato “Il meridiano zero”). Potenzialmente spiazzante e finanche irritante per alcuni, sublime per altri, indispensabile per tutti.