L’inopportuna irritante ingiustificata enfasi sull’impiego di funzionario editoriale

Nell’arco di una settimana, dallo scorso venerdì, mi è stato richiesto, da parte di giornalisti o coordinatori editoriali o scrittori, di intervenire, in qualche modo pubblicamente, circa il mestiere di editor. Ora, a proposito di quel comparto che un tempo denominavano “industria culturale”, non esiste nulla che mi irriti maggiormente dell’enfasi che in questi ultimi due anni viene posta sul supposto mestiere di editor. Tanto quanto un editor ti viene a dire che Kafka non può esistere al giorno d’oggi, avendo un torto marcio e commettendo un’indegnità piuttosto oscena (non tutte le indegnità sono oscene), così mi pare ben più realistico affermare che un editor non può esistere al giorno d’oggi. E comunque c’è una bella differenza tra Kafka e un supposto editor. Forse ancora esiste un editore, così come ai tempi della pubblicazione di un “racconto” kafkiano da parte di Kurt Wolff in quel di Lipsia nel 1915. Le situazioni temporali e geografiche sono però troppo eterogenee per essere accostate reciprocamente. Un editor che si vanti di avere scovato un giallo svedese nel 2014 non è paragonabile a un colto signore di Lipsia al principio della prima guerra mondiale. Il punto personale, dopotutto, è un altro e precisamente: ottiene in me qualche eco emotiva questa grottesca celebrazione di un’operazione tecnica e funzionariale, con cui certi editor ritengono di proiettare se stessi su quel piccolo mondo che è antico come sempre? Sì, ecco l’eco emotiva: la cosa mi infastidisce, come qualunque forma di bêtise invada la sfera biologica e cognitiva in cui tranquillamente vivrei. Più chiaramente: questa gente, ovvero gli editor, sta male, ma non se ne accorge; irradia il proprio malessere inquinando psichicamente ed esistenzialmente, contagiando l’atmosfera minima in cui respira e si ravvoltola epiletticamente tra sillogismi sbagliatissimi e quotidiani orrori fintoculturali; viene a infliggerti non tanto comiche lezioni di vita, pretende di esprimere una metafisica di nichilismo così piccino e polveroso che non ci si può credere; ritiene di eiettare l’universale, che dura un paio d’anni, senza avere studiato nulla e senza nutrire alcuna reale passione, poiché scambia per propria passione scosse nervose limbiche e vegetative, tipiche della fisiologia puberale, quando la personalità umana andava formandosi. E’ incredibile quanto queste piccole anguille vadano contorcendosi nella loro minima pozza di broda fangosa, in cui sono determinate a esistere e cercano di prosperare: capirai che bella cosa è prosperare in una pozzanghera! Le loro ventilate competenze sono smascherabili con una facilità che fa vergognare chi si occupi di questa fragile saccenza. Non sanno nulla di letteratura, di psicologia, di sociologia, di storia, di politica, di filosofia. Non sanno nulla nemmeno di sintassi. Non sanno nulla di storia dell’arte, di neurologia, di grafica. Non sanno nulla di economia. Hanno “il mercato” sulle labbra, in continuazione, e dicono tantissimo “le nicchie” o un anglismo di successo in quei sette mesi che, realmente, è il loro orizzonte esistenziale, vasto tanto quanto la periferia cesenate, uno scorcio calvairatese, pollo e patatine a Detroit. Ciò accade quando l’animale editor ha già cosparso il capo di acido ialuronico, confondendo certo botulino con il senso del tempo e della vita. Rivendica uno spirito aziendale nel preciso momento (un momento che dura quanto la storia del Capitale) in cui non esiste azienda, l’azienda sta alienando se stessa, addirittura fisicamente, si delocalizza, congiungendo la tragedia del proprio estuario con l’aurora di una fonte che non è per nulla fontale. Eccoli, che si ritengono ancora giovani, saturi di uno scetticismo che deriva dalla conoscenza dei mali del mondo, queste personalità degne delle ambizioni di una bambola da ventriloquo, questo non vero cuoio che zabetta di colossali stronzate mentre assume un’andatura di rilievo tra gli stand desertificati di Francoforte, mentre l’andatura è pop e pontificale tra gli stand desertificati della fiera della microeditoria a Roma. Essi alludono a una comunità tutta a venire e che non verrà mai, fortunatamente. Tengono lezioni accademiche a nessuno, a venti metri dalle toilette misteriose del salone del libro torinese. Fanno schifo, con malcelato orgoglio. Non hanno nemmeno la forza di vomitare sul mondo la propria volontà di impotenza: arrivano al massimo a un rigurgito. Pochi tuttavia sono coloro che hanno passato questo rigoroso test dell’ignominia: il tempo di maturazione della propria disumanità piccoloborghese e grandidiota. Più spesso si tratta di giovani vicini ai quaranta, che si spacciano per sapienti vicini ai trenta. L’autoreferenzialità con cui ognuno di costoro dà vita a se stesso è l’emulazione fallita dell’autopiesi organica, anche se non sanno chi siano Maturana o Varela, tanto c’è sempre la possibilità di “googleare” o si ricorre a Wikipedia che però, ultimamente, è percepito come troppo lungo e articolato. Tu parli a costoro, che so?, di Camilleri, loro annuiscono, è ovvio che *chiunque* conosce almeno per sentito dire Camilleri: e infatti anche loro lo conoscono per sentito dire. Presi da timore e tremore, come in un’emulazione fallita di un serial americano, giungono alle soglie della libreria Feltrinelli e cercano un bigino su o addirittura di Camilleri: ecco, una bella scrittura disanimata in cui Camilleri svela loro i suoi segreti. Forti di ciò, dopo avere compiuto lo sforzo di leggere un libro, cioè quello lì di Camilleri, non elaborano alcuna strategia; però adesso per tre anni sono in grado di citarti Camilleri, con una inanità sorprendente, che è la cifra stilistica loro propria. E così citano Malvaldi, Faletti, Carrisi; se si deve parlare di narrativa straniera, alla cazzo solo Houellebecq o il DeLillo di “Cosmopolis”, ché “Point omega” non sanno cosa dire poiché nessuno ha ancora detto qualcosa. E’ impressionante il regime della frittata globale che fa loro l’animo: qualche coratella degna di “Debbie” o “Cioè”, a cui aggiungono un po’ di Foster Wallace o Barnes o Bolaño o Murakami ma non – e non si sa perché no – di Mo Yan o di Grass o di Fuentes. Tu dici loro che stai passando una stagione all’inferno e quelli non reagiscono su Rimbaud. Invece, se dici loro che stai vedendo i fiori del male, subito ti dicono: “Eh, Baudelaire…” A trentasei anni dispongono dell’esperienza di vita che un quindicenne siriano si fa in una notte quando riesce a dormire non sognando. Siccome nessuno ha mai fatto scontare loro la marea di cazzate con cui hanno incrementato a dismisura la polluzione del loro universo precopernicano e non del tutto tolemaico, ritengono di andare dritti per la loro strada, barcollando laddove non c’è strada. Abbassano la qualità della vita e pretendono che tu li paghi per questo. Reclamano la loro libbra di carne ma: non sanno cos’è una libbra; non hanno fatto esperienza della carne. Stare ai loro livelli di assenza di discorso e pensiero e realismo sarebbe come comperare un arbre magique che puzza: lo vuoi alla fragranza letame o putrefazione o reflusso gastroesofageo? Puoi parlarci anni: non ti ricorderai mai una conversazione. Ti rimarrà in testa quel vago sorriso un po’ bimbominkia e un po’ svuotato, quella stolidità dello sguardo, quella strana fisiognomica tra il contadino e il metrosexual. Però, siccome puoi fare a meno di loro come fai a meno dei condilomi, ne fai a meno. Nel caso prendessi i condilomi o ti venisse la ciste ovarica, ci sono sempre gli antibiotici o i trattamenti con l’azoto. Stai anche attento a mangiare i fagioli, perché sai benissimo che effetti comportano: ecco, con loro è la stessa cosa, comportano effetti collaterali non drammatici, ma sgradevoli.
Ciò detto, è chiaro che esistono in editoria persone assai competenti, appassionate, puntuali, sorprendenti; ed esistono persone con competenze e incarichi editoriali, le quali hanno una storia personale e una consumata esperienza, alle quali è facile volere tanto bene, con cui si possono fare scherzi divertentissimi, che ti sopportano e che tu sopporti, che ti fanno lo sgambetto umano o ti tirano la pugnalata alla spalla periartritica. Costoro non si vantano mai del proprio mestiere e tantomeno si fregiano dell’etichetta di editor: giuro, mai una volta li ho ascoltati o letti nell’enunciazione di un simile sketch alla Lillo&Greg.
Però eccoli che si avanzano, il diciassettesimo stato, o ventinovesimo, o giù di lì, compatti e risoluti come un sol uomo che però è psicotico, eccoli a dozzine, ma una dozzina e non più, coi loro abiti che stanno tra Fabio Novembre e Paulo Coelho, eccoli che incedono, convinti di poterlo fare, neppure convinti ma allevati a poterlo fare, sapendo che non esiste nessun Carmelo Bene a sbarrargli la strada mentre sta andando a prendere un bombolone per se stesso in un pomeriggio caldo e mediterraneo…

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