“Youth” di Paolo Sorrentino è un’opera d’arte


Vado veloce, è tardi, scriverò compiutamente nei prossimi giorni: sono entusiasta: sono grato a Paolo Sorrentino: mi ha regalato un’opera d’arte. Uscito un’ora fa dalla visione del suo ultimo film, “Youth – La giovinezza”, sono felice, perché ho fatto l’esperienza del contemporaneo. Riconosco nel film di Sorrentino un’organicità, una profondità e una capacità di fare spreco di se stessi che, a mio avviso, costituisce la fionda verso la grave meditazione e l’incanto bambino che l’opera d’arte realizza. Ho da scriverne compiutamente e devo andare lungo, nei prossimi giorni, e devo scrivere molto perché qui mi sono trovato davanti a un sistema artistico che nulla ha a che vedere con lo stile laccato che spesso viene imputato come colpa o pregio o difetto o grandezza a questo regista, di cui non sono un fan (che?, uno è davvero fan di Lynch? Sono un fan di Hugo, io?): mi espressi molto criticamente, a proposito della pellicola precedente, la quale non ha alcuna attinenza con questo lavoro. E’ anche raro che io sviluppi un sentimento fraterno nei confronti di artisti del mio tempo, ma in questo caso davvero non so come potrei definire l’ingaggio di ordine esistenziale che mi sono trovato a impegnare. Ero rimasto colpito da una dichiarazione di Paolo Sorrentino, forse nella conferenza stampa a Cannes: affermava che sta subendo un lutto frenetico in vita, quasi conta ossessivamente gli anni che gli mancano alla morte. Sono preda di questo stesso sentimento da quattro o cinque anni – non lo sviluppo tramite ossessione, ma con una persistenza di un lutto dolce che è istantaneamente contraddetto dalla sensazione di vivere un tempo lievissimo e molto aperto, molto libero dal punto di vista dell’arte e della possibilità di rapportarmi con quanto mi interessa fare, cioè il testo. “Youth” è sicuramente l’espressione artistica di questo stare su un crinale che costringe a una visione strabica, eppure realistica, di due abissi al contempo. Non si tratta solo del fatto di invecchiare o di ricordare o di sentire il passato come perdita o come costante. Va approfondito, questo aspetto, tuttavia non è ciò che “Youth” pratica esorbitando, esondando con calma maestosa e nervosa secchezza, liberandosi e liberandoci dei generi e delle trame, sussunti con una velocità naturale e magistrale. Il perno della funzione “Hitler”, proprio la “non-persona” che appare, e non come gesto estetico, al centro del film; l’incredibile poetica scorribanda in se stesso e negli immaginarii di un’intera esistenza, dalla comparsa dell’icona mediale e abissale Yara Gambirasio, in forma di portatrice del futuro, alla messa in mora dei tintinnii mentali anagrafici, con un gesto minimo, qual è di fatto l’esecuzione minimale del refrain de “Il tempo delle mele”; la consentanea messa in mora della supposta questione “generazionale” (la generazione di Sorrentino e del sottoscritto…) della supposta assenza di padri e di storia e di trauma e di esperienza; il vorticoso e fulmineo svolgimento della pratica della trama e dei rovesciamenti, che si installa con l’approdo all’inquadratura di un volto anziano devastante e assente e costretto in un silenzio drammatico e quindi ambiguo, il quale silenzio è rilanciato nella sorprendente esecuzione di un brano di musica contemporanea nelle ultime scene – sono soltanto alcune irradiazione che posso testimoniare alla rinfusa, qui, a caldo, ma non è vero che questo è a caldo: è anche a freddo, perché quando sto davanti a un’opera d’arte non sento né caldo né freddo, bensì la temperatura stessa. Se conoscessi di persona Paolo Sorrentino, gli scriverei subito, davvero scosso e impressionato, per ringraziarlo, per fargli i complimenti. In dieci anni, è la terza opera d’arte cinematografica realizzata da un italiano, a cui mi è dato di assistere – questo davvero mi fa tanto felice.

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