Incipit di “Assalto a un tempo devastato e vile” (minimum fax):
«Siamo qui, io e i miei amici, asserragliati al terzo piano di viale Sabotino. Fuori passa il tram, sferragliante ed elettrico, tra le piastre del pavè. La gente transita indifferente a tutto, tra le luminarie e le vetrine, dentro l’odore azotato che ha la città d’inverno. Quando ci penso, mi viene un tuffo al cuore.
“Il mondo contadino, dopo circa quattordicimila anni di vita, è finito praticamente di colpo”, e anche l’Italia, anche l’Italietta, non è andata a morire in nessun luogo. Si è lasciata tramortire, lentamente, violentemente, come in un risucchio repentino, senza lasciare nulla se non l’acrimonia e, appunto, l’indifferenza. Ora, quando giro l’Italia nelle sue devastanti periferie urbane, quando la trapasso nei paesini delle cinture degli hinterland fumigosi, nella nebbia pesante che puzza di letame chimico, o quando entro nelle latterie dove si parla della tris bevendo Campari – io tasto il polso a una morte avvenuta che si è tradotta in una vita più sterile, automatica, indecente.
Distinguo tra loro solo i vecchi, ormai: vedo la pelle avvizzita, crepata dalle rughe, tirarsi a ogni sorso, la mano callosa stringere il bicchiere, luccicare le pupille piccolissime e umide negli occhi ridotti a fessura. Il tempo dà a questi vecchi una caratteristica, se non un carattere. Non hanno nulla di più saggio di quanto potessero avere venti anni fa, se non quella sorta di stordimento che deriva dall’avere sopportato il tempo, le sue botte, i suoi geloni. Se ne stanno lì, istupiditi, e guardano indietro a quel tempo che è passato, poiché sentono che un tempo è passato. Le loro differenze di classe si esaltano di giorno in giorno, mentre corrono verso la fine. I vestiti sono più sdruciti, consumati negli orli, macchiati di caffelatte. Oppure: le loro camicie azzurrine, quasi intatte, i capelli soltanto un poco anarchici ma ben pettinati. Uno sguardo a un vecchio: si comprende subito da dove proviene e quale sia la specie di tempo che ha vissuto. In questa sorta di memoria imbambolata esiste ancora, conservato come la mosca nell’ambra, un tempo che è già sparito, e che non tornerà mai più.
Noi siamo gli ultimi testimoni di un tale tempo. Chi se ne rende conto è salvo. Non è più l’epoca degli ecumenismi. Ogni forma di cattolicesimo, oggi, non può esimersi dall’essere particolare. Una reale coscienza critica, oggi, non si enuncia in qualità di principio: la si esercita, puntualmente, dolorosamente, sul corpo proprio e degli altri. O così, o la fine.
Questo libro enuncia verità – le nostre, di noi qui e ora.
Benvenuti nel Tempo dell’Astio. Milano, 18 ottobre 1967
Caro, angelico Ginsberg, ieri sera ti ho sentito dire tutto quello che ti veniva in mente su New York e San Francisco, coi loro fiori. Io ti ho detto qualcosa dell’Italia (fiori solo dai fiorai). La tua borghesia è una borghesia di PAZZI, la mia una borghesia di IDIOTI. Tu ti rivolti contro la PAZZIA con la PAZZIA (dando fiori ai poliziotti): ma come rivoltarsi contro l’IDIOZIA? Ecc, ecc. queste sono state le nostre chiacchiere. Molto più belle le tue, e te l’ho anche detto il perché. Perché tu, che ti rivolti contro i padri borghesi assassini, lo fai restando dentro il loro stesso mondo… classista (sì, in Italia ci esprimiamo così), e quindi sei costretto a inventare di nuovo e completamente – giorno per giorno, parola per parola – il tuo linguaggio rivoluzionario. Tutti gli uomini della tua America sono costretti, per esprimersi, ad essere degli inventori di parole. Noi qui, invece (anche quelli che hanno adesso sedici anni) abbiamo già il nostro linguaggio rivoluzionario bell’e pronto, con dentro la sua morale. Anche i Cinesi parlano come degli statali. E anch’io – come vedi. Non riesco a MESCOLARE LA PROSA CON LA POESIA (come fai tu!) – e non riesco a dimenticarmi MAI e naturalmente neanche in questo momento – che ho dei doveri linguistici… E’ un linguaggio che non prescinde mai dall’idea del potere, ed è quindi sempre pratica e razionale. Ma la Pratica e la Ragione non sono le stesse divinità che hanno reso PAZZI e IDIOTI i nostri padri borghesi? Povero Wagner e povero Nietzsche! Hanno preso tutta loro la colpa. E non parliamo poi di Pound! Per me era soltanto pura colpa… una pura funzione… la funzione attribuita dalla società dei padri PAZZI e IDIOTI, coltivatori di pratica e razionale – per detenere il potere, per distruggere se stessi? Nulla conferisce un senso, o meglio, una sensazione di colpa più profonda e incurabile che detenere il potere. E’ dunque incredibile che coloro che lo detengono desiderino morire?
“Non è un cambiamento d’epoca, che noi viviamo, ma una tragedia”. E anche: “Evitare o lenire la catastrofe è compito del politico, che merita aiuto. In questo campo anche le forze spirituali più eccelse non possono cambiare nulla. Il loro intervento può essere, semmai, di natura censoria”.
Come cani randagi ci guardiamo, tra amici, pochissimi: rabbiosi e disperati. Con la schiuma alla bocca e le lacrime agli occhi.
Qualcosa non torna, qualcosa non è tornato. C’è uno sfasamento nei calcoli e anche i più ciechi, i più generosi profeti hanno lanciato il loro grido a vuoto. “L’edonismo del potere della società consumistica ha disabituato di colpo, in neanche un decennio, gli italiani alla rassegnazione, all’idea del sacrificio ecc.: gli italiani non sono più disposti – e radicalmente – ad abbandonare quel tanto di comodità e di benessere (sia pur miserabile) che hanno in qualche modo raggiunto”. In che modo? Grazie al generoso e mai ripagabile aiuto dei soffici colonizzatori americani, che fanno del dono uno strumento di deportazione: si è sempre sudditi di quel dono. E poi: è vero?
Pasolini, quando pronunciava il suo vaticinio ventitré anni fa, aveva negli occhi i poveri. Era gente che batteva il fieno nel freddo dei dintorni di Casarsa; o le famiglie proletarie nella polvere di Bologna. Era il tempo degli sguardi. E’ l’invincibile struggimento che coglie chiunque si affacci su una fotografia dell’Italia povera dell’immediato dopoguerra: i volti sono volti, esprimono una sofferenza che non dirada, una saggezza lucida, acquisita nelle cose della vita; gli occhi sono occhi, hanno dentro i mondi che li distinguono dai mondi di altri occhi; la pelle scura, magra, le ossa che sporgono con ombre nei vestiti sempre troppo larghi, di tela grezza. Sono immagini più vive, talvolta, dei vivi che oggi passano, in assoluta e spensierata indifferenza, fuori del portone.
Le storie sono solo storie di poveri. Fuori della povertà, “radicalmente”, non esiste umanità.
E’ figlio di un operaio tornitore – e di una portinaia. Il padre ha perso un dito, ma molto tempo fa, prima di sposarsi. La madre è obesa, e fatica sbuffando e sudando per ogni mestiere che compie sulle scale, o in ascensore.
Poiché la loro sconfitta non è l’assenza di denaro, ma il degrado spirituale che hanno ereditato dalla permanenza nel sordido e nella lordura, hanno creduto che il figlio potesse redimerli, realizzando lontano da loro ciò che essi non hanno conosciuto e forse neppure desiderato realmente.
Ha terminato a fatica il liceo classico. Sempre pulito, e sempre abbigliato allo stesso modo. Il golf colore panna, liso, poi salvato con le toppe di velluto marrone, ora anch’esse consumate. E insieme a tutto ciò, lo sguardo stolido, lievemente strabico, ottuso, immaturo. Scriveva poesie e ora non più.
Si è iscritto alla Facoltà di economia. Ha sostenuto qualche esame, ma nel frattempo ha dovuto lavorare per aiutare la sua famiglia. Di giorno vendeva fiori di legno – tulipani colorati, solidi, che hanno invaso Milano, qualche anno fa. Di sera, all’obitorio, lavava i morti. Non mi ha mai voluto parlare di quest’ultimo lavoro. Ora lavora in Veneto, ma non si sa se sia felice, o meno.
Solo i poveri possiedono le storie, anche se spesso non sono loro a raccontarle, o a essere ricordati perché le raccontano. Nel fatto che la Storia scritta sia sempre quella dei vincitori, si misura la disperazione che assale il vincitore al solo pensiero dello sconfitto. Raccontare la storia distorcendola è l’estremo tentativo di cancellare lo scandalo di ogni conflitto: che sta nella sconfitta stessa: e che è lo stato di indigenza assoluta, di perfetta povertà che attraversa (anche per soli pochi istanti, attimi brucianti) lo sconfitto. Le forze vengono meno; per un solo secondo, prima di essere sconfitto, ha sperimentato una povertà totale, come se non avesse mangiato per secoli, come se per secoli avesse lottato, con ogni energia, fino allo stremo, per ottenere questo risultato: l’annullamento. E poiché il vincitore, sprezzante o prodigo verso il vinto, rimane conquistato dal senso di colpa che ogni ricco deve per natura provare di fronte al povero – oggi che questi uomini sono al cospetto di un passato che hanno sconfitto (il proprio), essi sono preda di una sindrome di colpa colossale e, perciò stesso, di un processo di rimozione planetario…»
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