Ieri in treno. Il ragazzino con la faccia stolida, le solite spalle da stranamente palestrato non andando in palestra, il solito metro e ottanta, i soliti neanche diciotto anni: attende con la cumpa che sloggino a Genova i quaranta negri che, se solo lo sentissero parlare, lo riempirebbero, e giustamente, di schiaffoni. Quando il gruppone migrante, abbastanza splendido ed euforico, abbandona il vagone Trenitalia, la cumpa e il ragazzino, che risulteranno essere tortonesi, si piazzano a molestare i passeggeri italioti, con urla abbastanza spaventevoli, inneggianti al duce. Continuamente a decibel intollerabili l’intollerabile inno al duce. Continuamente, continuamente. Non reagisce nessuno. Le signore dello scompartimento in cui verso in stato colliquativo sono tra l’imbarazzo e lo spavento. I due bambini alla mia sinistra non sanno cosa dire. Non reagisce nessuno. Squadro il ragazzo arianotortonese e, nonostante i quattro buchi nell’addome per la laparoscopia, decido di intimargli di smettere: ci impiego lunghissimi minuti. E’ tutto, il suo momento, una violenza trattenuta, un’oscenità, un orrore: devo salire di intensità fonica e minacciare le botte. Alla fine si tace, questa testina di cazzo bionduta che pare un cotton-fioc intriso di cerume spirituale. Scenderanno poi, lui e la sua banda cocoricò, nella ridente e suprema Tortona, inneggiando tutti al duce, duce, duce. Italia, 2015 – e ancora il duce; oggi più che mai. Questa fragilità ignorante è virulenta. Questi pezzettini di merda sono l’esito recente di un processo antropologico che crea raccapriccio e disastri dall’unità d’Italia in poi. L’italianissimo carnevale perenne è pronto per la macelleria sociale, a meno che la famigliuola di origine non destini alla élite, alla scuola di pregio, al 2.0 dell’interrail, che soltanto ieri mi veniva rimembrato quale segno distintivo della mia generazione (“l’equivalente del *nostro* interrail”: ma vai a fare in culo, tu e l’interrail: vai a lavorare…). Come faccio ad amare l’altro, se l’altro è fascista o, peggio, è proprio così tanto italiano? E quegli sguardi vergognosi e antichi, delle donne, quella pavidità così furbescamente esibita dall’ex mai proletario e ora maschio in crisi perché c’è il digitale, negli scompartimenti del treno italiano, con la lamentela italiana, con la preoccupazione materna italiana: questa tenerezza infinita che ti uccide di colpo per somma indifferenza, che non chiede, che ti condanna con il pregiudizio, che esplode nell’apologia di regime, quella ex borghesia scaduta alle prese con drammi normali che considera straordinari e unici e si permette di non intercettare il tuo sguardo e di darti del matto da più di vent’anni…
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