Questo è da “Fine Impero” (minimum fax, http://bit.ly/14nlU2P), il momento in cui si esce dalla villa delle feste eleganti:
Uscendo dalla Casa degli Affreschi Carnali non c’è tempo, anche di pensare.
Vediamo d’improvviso nel buio dell’alba uomini di tarda età ben conservati avanzare da ogni parte, convergenti sulla villa, paiono gli omìni in cielo di Magritte, quel pittore: sono seri, determinati per inerzia implacabile, definitivi, molti, da tutte le direzioni, convergono alla porta principale, alcuni superano il corpo della villa e si dirigono sul retro, la piscina, i campi calvi.
Vediamo altro, dunque, arrivare la fine delle feste e degli imperi, in una forma non isolata, però monastica: giunge una forza spacciata per autorità, una istituzione che non è facile definire, qualcosa che esula dalla grandezza etrusca del rovistìo di carni appena abbandonato, umani e umane abbandonati su divani nella lascivia e nell’assenza di qualunque lordura non fosse la nostra intima e speciale – noi, gli umani – e ecco, si avanza una forza collettiva discreta e definitiva, un servizio segreto forse, qualcosa di terribile e mormorante, che conserva una memoria di ipogeo.
Sono gli sgomberatori silenti, irreprensibili.
Vestiti ciascheduno al modo medesimo, cappotto grigio con una striscia di ermellino minima, quasi nascosta dai capelli bianchi ma non venerabili, gli occhi a fessura, la stazza di chi è alto e destinato a incutere timore e reverenza per troppo sapere, a decine si avanzano, uguali, quasi quella tenuta finanziera fosse una uniforme.
Io e lei, bionda cenere lattea nella notte al punto da essere fosforescente contro la fosforescenza delle capigliature di questi agenti non improvvisati, muoviamo il passo, vogliamo allontanarci al più presto: questi uomini portano la fine, potremmo avere paura.
I segni dei morsi più recenti e le labbra più sottili non tremano arcuandosi, ancora, per l’arrivo degli sguardi severi degli sgomberatori grigi.
Procedono a passi regolari e fermi, né troppo veloci ne rallentabili, niente e nessuno parrebbe in grado di arrestare questo assedio istantaneo al cuore della proprietà. Le forze dell’ordine sembrano prendere ordini da questi agenti del nulla, spuntati dal nulla o da qualcosa di talmente antico, talmente ipogeo, che se ne era persa memoria o non si era esercitata adeguatamente la attenzione.
Io, che volevo un tempo avere visioni di alghe verdi e pietre e metalli in fusione, la misura di promesse incerte ma continue, il palato allietato dai sali migliori della terra e dai nettari elaborati da più che una specie di insetto, io comprendo ora che tutto quanto volevo un tempo avere io non più lo avrò, dopo un impero il nuovo impero è silenzio di campana contratta, un’acustica infernale perché ovattata, la penuria dei sogni identici a una realtà petrosa, la contraffazione esercitata senza limiti eppure detta disdicevole.
Non avrò mai più niente.
“Dove andate?” chiedo a uno di questi agenti magri, allampanati, bigi. Si ferma soppesandomi nemmeno, quasi un incidente nell’aria, una tunica di tenda lo avesse tratto in impaccio per un momento fuggevole e limitato. “Dove andate? Chi siete?” e lei, bionda e pallida, mi si stringe al braccio sinistro, “Lì è proprietà di chi possiede il Paese!”.
Allora sembra intravvedermi, un umano che fissa un’eclisse o un fenomeno luminoso che ne ferisce la vista, o tenta di intuire un convolvolo lontano tra i mulinelli di un alto fiume. “Noi non possediamo nulla, ma abbiamo tutto”.
Sembrerebbero angeli, non parrebbero demoni, sono invece gli intermediari staminali: potrebbero essere qualunque apparizione.
Alcuni stanno già facendo sgomberare.
Portano la fine a questo impero, ne annunciano un ulteriore.
Il sole atzeco grondò il sangue di vinti a favore del proprio sacrificio, ululanti mentre per attimi fuggevoli riuscivano a intuire la forma cardiaca del proprio muscolo, estratto, ancora pompava il liquido, impreziosiva come una gemma di carne l’apogeo del dio degli imperi, questa potenza voluttuosa che piega la storia umana, facendola ondulare.
Sembrerebbero angeli grigi la cui apparizione automaticamente mi svuota del sangue.
Noi, mentre nessuno scatta fotografie e non c’è fulmicotone a rendere istantanea a giorno la scena, la rugiada notturna del paradiso di proprietà scompigliata sull’erba dai nostri passi e dallo scricchiolio del ghiaìno, ecco ci allontaniamo, i ciottoli sono l’alveo, fuoriusciamo da un impero in un altro, dice che non la vedrò mai più e invece stiamo creando l’orlo di un mondo invalicabile.
Campo lungo: in bianco e nero, un negativo stavolta, in un buio abbagliante, sbavatura e pallore dove scorgiamo me e lei, due ombre che hanno divorato i fuochi, due fiamme alla luce capaci di ardere e consumare ossigeno, oramai più simili a un filo di aria snervata, già vacillanti, lievi moti di etere: ecco entriamo in un nuovo imperio.”
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