Quasi vivendo in un caleidoscopio di tonalità spezzate, scoordinate, in forme fluttuanti eppure duramente geometriche, bidimensionali, in una rotazione lenta e continua, a configurazioni che mutano e mutano e mutano, sono questi giorni dove il calore bianco è dietro, è dentro: va scovato. Il segreto è un grande spettacolo che si tiene in nessuna parte ovunque. La paura genera il tremore, il tremore genera il gelo, il gelo fa paura. Il grande calderone del mondo, che non è né sogno né incubo, è un vasto movimento di adeguazione, della mente al movimento. Così, decentrati, si sta, quarantasei gocce dall’inizio, di cera fusa, a sigillo della pelle la cera avanza la pretesa di essere la pelle. E di ora in ora vado testimoniando la fatica di testimoniare niente. Ri voglio sempre questo: niente. A tutto ciò adducono conforto e confortano la dedica le tre poesie da “Sempre perdendosi” di Silvia Bre, la più “alta” e sublime poetessa italiana contemporanea, di cui tratterò ulteriormente su di lei ragionando, e non su di me, che la scrittura sua dedica a una deità silenziosa e retrostante il mondo affannoso dei fenomeni e dei mondi che siamo.
«Sebastiano»
Poiché il cielo è così alto io sono un servo:
è giusto non dormire.
La gola è stretta, da intonare all’urlo,
dentro ho la vocazione maledetta.
Ma mi confondo
con tutto questo sonno.
Amo senza capire.
E’ non capire, che amo fino in fondo.
Mi spoglia
mi porta in giro sanguinante.
Lo spazio che mi cerca e che mi strozza
è un movimento andato
dove mi trovo infermo
nella malinconia d’essere altro.
Io vengo deportato
vengo allo sguardo.
Meno non posso.
Essere qui col corpo, col dolore,
tutto ferito, pronto al mio assalto,
a un altro finire ancora dietro l’altro.
«Silenzio»
Ecco, mi scordo, mi slego –
sarà lo smarrimento a suggerire
quasi una formula, un confine,
forse una frase sola che sia tutto,
un’eleganza
che vanti fino al nulla questo lutto.
Mi perdo
per un’arte che raduna
e rallenta ogni gesto in una forma
e in ogni forma il gesto che saluta.
C’è dello spazio negli occhi da riempire
e nella mente occorre una parola
da ridire con le labbra nella notte
fino a quando la notte si rovescia.
Così gira una ronda innamorata
così canta quel coro che s’ammira.
Si è parte
dentro una belva che si sfama.
Ah, mi fa stare qui, a cantare il coro –
che l’ultimo volere
sia questo stringersi nell’ultimo tono
come un filo che pende nel pensiero,
che si insegue perdutamente,
che ci dimentica.
«Colpo»
Qui io magistralmente scongiuro di morire –
finché mi tocca sfondo la mia scena,
la svesto, la depongo
con dentro tutto il sonno da dormire.
Faccio di meno intanto
faccio a meno
abbasso la pretesa, mi riduco –
la vastità immisurabile del luogo
forzata nella vastità della mente,
nella tenuta stagna delle parole.
Ma non è vero –
è così che si muore
ve lo dico: sempre perdendosi
per sempre.
Beati voi che dormite.
Un cuore invece batte a sangue,
sa il mio nome.
Nessuna faccia smetta di infierire,
va in cerca pure lei della sua fine
oltre la pelle
in me che sono vuoto,
nell’anima del corpo
tra i muscoli, tra i nervi
che si fanno da parte,
nel buio ostinato della vita
che rinchiude la morte.
È a me che lo fa dire,
a un disgraziato, al servo –
mi tortura il respiro
lo sorprende, lo scuote,
che io rimanga sveglio! che io gridi…
Così un altro rinvio
eppure addio, addio
addio sempre.
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