“Perché ti gratti la testolina?”
“Lo faccio per piccineria, Madre.
I bricchi di porcellana sbeccucciati mi hanno fatto male. La pubertà è un regno di inganni e una pasta d’ossa di sambuco nei giardini dell’infanzia dopo, andati oltre un certo limite. Mi pareva di avere le verruche genitali, i porri, le sostanze. Mi hanno terrorizzato i bui. Tutto questo è la Mitteleuropa, tra infanzia e uomo pubere è tutta Mitteleuropa. L’immagine di te, o Madre, con il Papone prima che se ne andasse con la Troia, apportando a entrambi me e te e il mio fratellino quella sofferenza di pustola spirituale e essere avvezzi a sentore di polvere antibatterica, ricordi?, con lui che voleva lo si chiamasse “Ei” e così lo chiamammo, io e il fratellino. Perché lo partoristi, il fratellino Madre? Era un’infanzia dispensierata di limone e mente, fino a allora!, l’uva giaggiòla della letteratura per l’infanzia disacerbava, come ogni puttana la fa a chi promuove lo sviluppo erettile e allunga il legno della dorsale – quei cric cric! dei cuscinetti tra le vertebre concrescendo, facevano cigolo e stridore nella schiena, a furia di cricchiare al mio irrobustirsi! – e quando la neve calava coi suoi cristalli a soffioni di pappi di neve io mi inventavo di vedere i gatti lividi, bianchi, come zarine dure, che mi guardavano dal finestrone immote, stando sul muro di cinta del lavacro. E le donne, le donne! Che violenza, Mamma! Mi tramestavano le membra, mi assonnavano e trastullavano fino allo svenimento!, fin quando si sentivano i passi duri a schiocchi sull’impiantito in mogano e assi curve del Padre Nostro e della sua Severità. E se ne andò con la Troia perché tu facesti il bambino con un altro: che bello il mio fratellino, tutto d’un colpo non ero più solo e potevo molestarne le carni tenerelle. Ti ricordi, Tu, quando gli baciavo il labbro, della ferita? Aveva il sapore del metallo quel cordone dell’ombelico: che lezione era mangiare l’òmfalos, figurarsi che il mondo è una testa e gira come una testa… La pappa di staminali è buona, mamma. Straparlava il suo chiacchiericcio degli infanti, il frugoletto: e in cuor mio e suo io lo odiavo. Si, Madre, lo odiavo, perché mi rubava a te, la Bionda Cinerea della mia infanzia, e dove finivano le mie pugnette, le mie scolopendre che mi uscivano di Lì e se ne andavano a corteggiarti? Mai più una polluzione, mai più una fantasia: solo seghe, solo collegio, solo colloidalità, o Madre, dal trampolino dell’adolescenza, nel duro tremito dell’etere nefasto, verso la Età Adulta, senza Madre né Padre, ché era fuggito con la Troia, e lo Zio si insinuava tra le tue sottane, così fruscianti di crêpe de Chine che pareva la pelle di una morta da due giorni: l’avvizzire dei tessuti molli è sarcoma al mondo delle terre emerse, quando l’acqua dilava via dall’acqua e lascia quegli eden disseccati a stento essere tra valle e valle della morente età senza nessuno com’è su Marte, dio guerriero che abbiamo spiaccicato col suo nome di gloria e ferro su un pianeta che nome non ne ha nessuno e lo riguardiamo, nottetempo, tra gli sciami di luce morta a fontanelle, nel mezzocielo che pare un grande cerebro e un abisso, sopra le spalle e davanti ai nostri òmeri coi cannocchiali: là c’è la valle di Scardanelli, là i templi perduti di Abisso Nufréne, nella mappa di Christiaan Huygens trovi tutto, là Giovanni Virgilio Schiapparelli che aveva scoperto 69 Hesperia individuava “li canali e canalone subterranei a modo dei nostri canaloni delle Americhe Entrambe, per li punti cardinali di qualche grado volgendosi verso il tramonto del sol a gradi quattro, quattro e venticinque, una illusïone ottica con cui mi garba prendermi gioco della modernità, ché credono, questi, davvero esserci dei canali rigonfi d’acqua su una simile arida scristianizzata terra?” (1) Eppure, Madre, io Lo guardavo, il pianeta Marte, rilucere sabbioso nell’aere offuscato dell’ultima sera, in alto a destra là, per la disperazione che mi davate e Tu e il Padre e l’immenso troneggiare del mondo mondano. Ero un cirlìno fatto così: spiegazzato tutto, niveo, con un caschetto di capelli a zefiro compatti e ondulati, biondocinerei, e pensavo ai grandi uomini del passato, agli antichi: quei Soloni mi hanno sempre irritato, mandavano ai pazzi i miei furori e scaricavo ormoni grettamente come sai che fa il mio sesso, patogeni e patogeni, uretra in fiamme e pannolini di crespo cotone, mi facevo l’ecografia dei visceri, sapevo di lavande di Provenza. Che porchiddìo è nascere, patire, apprendere, disperarsi! Madre!, dove sei? Dove, il Papone? Così feci il mio ingresso nel Mondo Mondano, in direzione padre, stellato del mio bugnato di carne e carne-grossa, sapendo di sebo, masticando torrone.”
(1) “Come suol fare a periodi alternati ora di 15 anni, ora di 17 anni, il pianeta Marte nell’autunno scorso passò ad una delle sue minori distanze da noi, avvicinandosi alla Terra fino a 47 milioni di chilometri, ed apparve luminoso e magnifico più che mai non sia stato dal 1877 a questa parto. A quella distanza, il globo di Marte, di cui il diametro arriva a circa 7600 chilometri, sottendeva nell’occhio dell’osservatore terrestre un angolo di 25″. Sopra un tal globo ed a tale distanza si possono discernere, con telescopi di sufficiente potenza, le configurazioni topografiche del pianeta con un grado di minutezza e di precisione di cui si può avere un’idea dai qui annessi disegni. E reciprocamente, ad uno spettatore collocato in Marte non riuscirebbe troppo difficile distinguere sulla Terra particolarità del medesimo ordine di grandezza. L’esperienza dimostra, che con un istrumento di dimensioni affatto comuni, munito di una lente obbiettiva di 20 centimetri di diametro, una macchia luminosa su fondo oscuro (od oscura su fondo luminoso) si può distinguere senza troppa difficoltà in Marte alla sopradetta distanza di 47 milioni di chilometri, quando ad un discreto contrasto di colore essa congiunga un diametro reale uguale a 1/50 del diametro del pianeta, cioè a 153 chilometri. Epperciò, usando sufficiente diligenza, si potranno scoprire in Marte, con un obbiettivo della detta dimensione, tutte le isole non minori della Sicilia e tutti i laghi non minori del Ladoga, isole come l’Islanda e Ceylan; laghi come quello di Aral ed il Victoria Nyanza devono esser molto cospicui. Similmente una striscia luminosa su fondo più oscuro, secondo le fatte esperienze, dovrebbe essere ancora visibile quando la sua larghezza non fosso minore di 1/100 del diametro di Marte, cioè di 80 chilometri o giù di lì. Quindi lingue di Terra od isole oblunghe come la Jutlandia e Cuba e l’istmo centrale Americano; stretti di mare e laghi oblunghi come il Tanganyika, il Nyassa od il Mar Vermiglio di California dovrebbero esser visibili da un ipotetico abitante di Marte, che vi ponesse molta attenzione. Facilissimi dovrebbero essere per lui oggetti come l’Italia, l’Adriatico, il Mar Rosso, Sumatra e Nippon.” (Anno XIX, n° 1,1° dicembre 1909)