Dal libro inedito “Oscuro arcaico”: capitolo quinto

Ecco il quinto capitolo del libro inedito “Oscuro arcaico”, che vado pubblicando on line e non avrà mai editore, perché troppo cupo, indecifrabile, ottuso e inadatto all’editoria italiana, essendo più idoneo all’editoria polacca, ungherese, russa forse, anche dello Stige se lo Stige esprimesse un’editoria. Preannuncio che il capitolo 6 verrà pubblicato settimana prossima dalla rivista “Verde”, con cure grafiche speciali. Intanto questo pezzo, che è un capitolo di pausa, in cui si racconta soltanto di un bambone, un bamba, che ti viene addosso minaccioso, per sferrarti un pugno in faccia: è il grande “no” alla vita, che è un “sì”. Buona lettura.

GIUSEPPE GENNA
OSCURO ARCAICO

[Primo capitoloSecondo capitoloTerzo capitolo – <a href="http://%5BPrimo capitoloSecondo capitoloTerzo capitolo]” rel=”noopener” target=”_blank”>Quarto capitolo]

Capitolo quinto

Qui viene il momento della lotta, improvviso, sempre. E’ un lutto improvviso. Una religione in atto.
Questo è il momento della disappropriazione, della consistenza, del moto più saldo e veritiero. Il momento della lotta ti educa a che il mondo c’è, non puoi schivarlo. Il mondo, del resto, è frontale, occupa tutto lo schermo della visuale, non puoi trovare in esso una frattura o una crepa e infilartici dentro per evitare l’impatto, il gong, lo schianto.
Il cielo corrusco si apre un minimo, in alto, passa uno spicchio di luce, fa l’effetto delle canne dorate dell’organo in chiesa, è un cielo solenne e celebrativo, i raggi polifonici del sole penetrano in questo spicchio e corredano lo scenario, facendolo più tumultuoso, più celestiale, illuminando i cumulonembi che sembrano un coro di angeli furibondi. Tutto vira alla rabbia.
E’ frontale e immobile, è fermo lì davanti a te, uno dei collegiali. Massiccio, immobile, lievemente proclive con il volto verso di te, la fronte spaziosa dell’ottuso, i pugni serrati come acciaio, i denti che digrignano sotto le labbra costrette, quell’ombra nello sguardo, quei capelli minacciosi, quei vestiti di fustagno, tutto pare avanzare per un effetto ottico o un tapis roulant verso di te, per una delle molte rese finali. L’uno a uno è terribile, si fatica a sostenerlo. Proteso verso di te, sembra in bianco e nero. E’ capace di tutto e fa aleggiare le fruscianti ali del corvo mortuario, simbolo di accecamento e fine.
Le rocce compongono sullo sfondo, insieme all’erba spessa, fili grassi, bianca e nera, uno stratagemma del paesaggio, per enfatizzare il suo avvicinamento. La sagoma piatta di questo compagno del Collegio pare ordita dal destino, il suo nervo è scosso, si sente un flagello.
E’ un martello. Dietro c’è il rumore incessante del torrente Tenda.
Intorno a lui e con lui il tempo è fermo e cresce il gradiente di un tono monocromo, simile a un ronzio.
E’ una testona dalla fronte corrugata, minacciosa, che si avvicina a te.
L’evidenza della sua rabbia ti spaventa. Sta in una brusca e continua contrazione muscolare. L’iracondia gli rende paonazzo il volto. La sua testa si avvicina sempre di più, quasi preme il suo occipite contro l’aria, statua rossa che si protende in una pagoda fatta di aria. Cresce al crescere dei secondi la sua furia contro di te.
Tu passi dall’essere disarmato alla convocazione di qualunque forza a disposizione, distribuita in ogni fibra. I padiglioni auricolari si induriscono. Aumenta una certa febbre. I pugni si stringono, il fiato si fa denso, vaporoso. La postura muta, il gesto è difensivo. Le ossa si allungano, la loro meccanica positivista si attiva.
La natura intorno, tumefatta, sta. C’è l’abbrivio nell’aria e basta.
Le due teste, una contro l’altra, a mo’ di stambecchi, si piombano, faccia a faccia. Adesso tira un pugno e si spacca il naso.
Tutta la natura dice: NO
Ecco lo scontro.

Il libro “Oscuro arcaico”: il quarto capitolo

Quarto capitolo di un libro che non vedrà mai la luce, perché è troppo cupo e indecifrabile per qualunque sostanza luminosa. I fotoni divengono sfere di ottone ossidato, se entrano in contatto con questa narrazione. Si intitola “Oscuro arcaico”, è del tutto inedito. In questo capitolo si parla di: gli armadi. Per i capitoli precedenti, i link nei commenti. Eccolo.

OSCURO ARCAICO

un inedito cupo di Giuseppe Genna

[Primo capitoloSecondo capitoloTerzo capitolo]

Capitolo quarto

Come dei Soloni muti immobili stanno un po’ dovunque gli armadi. Sono fatti di mogano, la polvere ne rende offuscato il legno ottocentesco. Sembrano delle teste verticali, dell’Isola di Pasqua. Nella camerata, negli spogliatoi antistanti i bagni, nelle giunzioni delle scalinate, nei corridoi, perfino in cucina stanno, monumentali e serrati in se stessi, questi armadi sapienziali.
Ciò che di fine vi è nella vita non è che pare bandito di qui; non ha mai inteso nemmeno arrivarci. Nessun enigma, nessuna dissoluzione, se non quella prevedibile adolescenziale, fatta di lacrime immotivate e stupide, che più tardi magari verranno ricordate confusamente, con tenerezza. A questo proposito usiamo portare con noi fazzoletti di stoffa, bianca, a volte ingrigita dall’amido dei lavaggi, una cornice di trama finemente colorata corre lungo il perimetro. Posso tergermi così le lacrime, oppure soffiare il naso riempiendo il tessuto di muco, che poi si secca, in questo caso successivamente è opportuno separare i lembi del fazzoletto che risultano appiccicati dal muco asciugatosi. Terminato il pianto, si gode di un rilassamento del sistema nervoso.
Anche gli altri collegiali, posso giurarci, piangono; però non si fanno vedere da nessuno. Anche per questo esistono gli armadi. Si entra e si chiude l’anta, si sta un po’ nel buio che sa di naftalina. Si prende la pallina di naftalina, poco più grande di un nocciòlo di sambuco. La si annusa, quasi si andasse a tentoni con l’olfatto. Sprigiona aromi dovuti a atomi che si liberano nell’aria, rarefacendosi. Ciò si chiama sublimazione. Il passaggio della materia dallo stato solido a quello gassoso, senza passare dal liquido, è comunemente detto sublimazione. C’è qualcosa di contronaturale nella constatazione che un corpo solido evapora, più o meno all’improvviso. La naftalina rappresenta l’emblema di questa sparizione atomica. Preservatrice delle lane e castigatrice delle insidiose tarme, la pallina di naftalina domina nel suo regno ligneo, fatto di cassetti e di interstizi, di tasche di giacche e di golf ripiegati su se stessi come bravi impiegati. Domina nel buio, sembra la perla nell’ostrica. Addirittura c’è chi fa aderire del tutto la narice a questa piccola sfera compatta, che già si consuma tra indice e pollice, quasi sembra entrare nel canale olfattivo, il naso si deforma. Inspiriamo profondamente i suoi vapori per sognare meglio. La naftalina dimostra l’esistenza incontrovertibile del tempo, in quanto si consuma nell’istante stesso. Uno ce l’ha in mano e dopo poco non ce l’ha più. Questo atteggiamento nipponico della pallina di naftalina non smette di sorprenderci, un po’ come le contorsioni dei bruchi verdi o delle gatte pelose.
Dentro l’armadio non ci rifugiamo unicamente al fine di piangere nascosti. L’interno dell’armadio è anche una perfetta simulazione della capsula spaziale. Ci rannicchiamo con la faccia rivolta verso l’interno delle ante, ignorando a bella posta la luce che penetra dalle fessure, dalle cerniere. Siamo nell’abitacolo di una capsula, lontana dall’astronave-madre, priva di rotta, non esiste più basso o alto, destra o sinistra, utilizziamo i rotori e la pulsantiera. Incidiamo la nostra voce nella scatola nera. Fuori dagli oblò immaginiamo il tempo curvarsi in forma di spazio, un lucernario di astri freddi e lontani, andiamo su Titano. Conosciamo l’eccezionalità della scoperta: uno spettrografo della sonda Cassini ha individuato sulla superficie di Titano del propilene. Con il propilene, meglio noto col nome di plastica, si realizzano molti prodotti di consumo, dai paraurti ai contenitori per alimentari. La plastica esiste in natura. Ciò costituisce indubbiamente un punto oscuro sul quale meditare o fantasticare. Noi proseguiamo il viaggio senza ritorno nella nostra navicella, isolati dal cosmo esterno, pilotando nella direzione di un astro più famigliare degli altri.
Molti armadi sono vuoti, per esempio quelli chiusi a chiave nel corridoio, di fronte alle aule, tra un finestrone e l’altro. Optiamo per una rinuncia secca ad aprirli, anziché procurarci di nascosto la chiave in ottone, che del resto non abbiamo mai veduto e non sappiamo nemmeno se esista. Io preferisco un armadio interno alla camerata. E’ il più maestoso, ricavato da alti fusti massicci, chiudendomi lì mi sento molto al sicuro, perché mi trovo nell’interno di un interno, costituito dalla camerata stessa. Si deve convivere, è vero, con i vestiti, che non ho idea a chi appartengano. Sono abiti maschili, di taglia adulta. Una polvere lieve è andata depositandosi negli anni sulle spalline delle giacche e una camicia bianca, forse da sera, è ingiallita in malo modo. Nel fondo dell’armadio, in un sacchetto di panno lenci, sono custodite scarpe, un paio molto elegante, di buon cuoio nero, mi piace annusarne il sentore di lucido nero, quell’ombra di vernice, artefatta, artigianale, tipica delle botteghe calzolaie. E come sono belle le stringhe! Robuste ma agili, esse paiono dei serpenti di una specie molto evoluta nel futuro, precisa ed efficiente, che sta incominciando a fare a meno del corpo. Queste stringhe saettanti offrono ulteriori possibilità di scatenare la fantasia. Sono spaghetti sintetici, un cibo futuribile, quando non ci sarà più abbondanza di messi sul pianeta; oppure delle redini di esotica fattura, dei Traci, attaccate con morsi al cavallo che è la scarpa e che ci risucchia in una corsa a perdifiato sulle praterie trace; o anche degli esseri bidimensionali appartenenti a un’altra dimensione, che comunicano con il pensiero e non più con il gesto o la postura o la parola; perfino i capelli grassi e spessi di un orco gigantesco, il quale si ritrae nella sua spelonca che è l’armadio.
Qui ci scambiano i nostri tesori. Spesso facciamo la gara a chi ha più fiammiferi svedesi e per un attimo questo regno ligneo si illumina, guardiamo le nostre facce stupite, già uno soffia sullo zolfanello e tutto riprecipita nel buio.
Ai commessi non è ancora venuta in mente l’idea che siamo nascosti dentro gli armadi. Ci vengono a cercare, per condurci alla doccia, sgradevole per via del getto freddo e delle piastrelle bianche gelide, fatte di una ceramica scivolosa. Non è la prima volta che qualcuno cade e si fa male.
Questi commessi hanno una mente rudimentale, tuttavia non compongono una casta o una classe a parte. A dire il vero sono due, uno alto e guercio e l’altro alto e magro. Indossano un grembiule bluastro, tipico di qualunque bidello in qualunque istituto scolastico. Sono apparentemente indaffarati sempre, non mi sembrano efficienti. Potrebbero essere un’anomalia, ma non in un luogo in cui abitano molte anomalie, però non tantissime.
Una volta ho acceso due fiammiferi insieme, una coppia solidale, trattenendoli insieme tra il polpastrello dell’indice e quello del pollice, meditando alla luce dentro l’armadio questa frase: “Bussate e vi sarà aperto”. “Non dice di buttare giù la porta, o scassinarla; nemmeno di stare fermi davanti alla porta aspettando che la aprano; dice di bussare, discretamente, in una forma di giustezza che sappiamo tutti qual è” pensai.
Riportai queste considerazioni, forse scriteriate, sulla pagina del diario, così come sono state dette.
Quel diario è la mia croce e la mia delizia! Vi scrivo tutto dentro, ne serro con attenzione il piccolo lucchetto, lo nascondo sotto il letto. Però rileggerlo mi dà molta malinconia, non mi viene da piangere, questo no, mi viene da pensare che quei momenti sono già passati e vorrei continuare a viverli. Ma sono troppi, non sarebbe umanamente possibile.
Anche gli altri tengono un diario, ne sono sicuro. Sospetto che persino il maestro ne possieda uno.
Un pomeriggio, per via del rilassamento, mi sono addormentato dentro uno di questi armadi, mi sono svegliato nel buio, stordito e ancora impregnato di quel sonno sordo.

Il libro “Oscuro arcaico”: terzo capitolo

Questo è un libro che non vedrà mai la luce. E’ troppo cupo per affrontare una qualsiasi illuminazione. Cos’è la luce? Una sfoglia d’oro, un metallo insopportabilmente sottile, una sostanza che svela il furto e si insinua nell’inganno, nella quale le persone, anche le più infide, ritengono di vedere e stare distanti dal sonno, rubricando la giornata. Ecco, è scritto così. A chi può interessare? A chi ha buon cuore e vuole bene all’autore, questo papà minore di un racconto minorato. Ecco il terzo capitolo, che suona sordo come una campana ossidata troppo.

[Primo capitoloSecondo capitolo]

OSCURO ARCAICO

di Giuseppe Genna

Terzo Capitolo

Non c’è colpa. Nessuno ha colpa. Solo la mente starnazzante fa credere che esista una cosa come la colpa e che si è colpevoli. Sembra che esista la colpa, ma non è vero. Su questo non ho altro da dire.
I giochi che si praticano al Collegio, fuori, quando le lezioni sono finite, assolti i compiti, svolte le più elementari procedure igieniche, tra le quali l’alimentazione, sono rudi e semplici. Pratichiamo il calcio. Abbiamo provato a simulare il gioco del calcio, nel campo di sabbia e ghiaia proprio sotto il costone del monte, dove l’ombra è più scabra e cupa. Per palla abbiamo utilizzato anche una pietra, sommariamente tonda, prima di ricavare una grossa sfera di cuoio riempita di stracci, sommariamente rotonda anch’essa. Per via delle escoriazioni alle teste e alle ginocchia, abbiamo rinunciato alla pietra, anche se era il nostro intento. Siamo comunque riusciti a siglare due goal, uno per parte, accontentandoci del punteggio salomonico. Peraltro il legno dei pali delle porte è fradicio per via dell’insistente ombra e della conseguente umidità, il che lo rende fragile come un frassino, non va bene. Nessuno si è schierato nelle veci dell’arbitro, ma è tipico fra gli adolescenti che non vi sia necessità di un’autorità che faccia rispettare certe regole. Le si discutono, si mercanteggiano, ogni episodio una trattativa. Utilizziamo argomentazioni fondate per reclamare le nostre ragioni contro la parte avversa. Arriviamo a eccedere e a trascendere. Giusto così.
Il gioco più praticato tra di noi, espletati i doveri, è di fatto una specie di noia. Stiamo sul basello di cemento che corre lungo i lavatoi verso la cucina prima della stalla, il pomeriggio, che è molto lungo a trascorrere, nonostante i compiti da svolgere, noi ci sediamo quasi sfiorando il terreno sassoso, e stiamo lì quasi ad annoiarci.
Diamo vita a dialoghi a volte poco edificanti, altre volte esemplari. Diciamo baggianate, corbellerie, pronunciamo assunti. Spesso riguardano quello che facevamo prima, quando vivevamo in queste grandi case, ariose, con il giardino verdenero per i muschi e le ombre degli alberi secolari, che facevano spavento. Esistono tecniche con cui si riesce, a seconda della natura della ninfea, nelle acque dello stagno a individuare i girini. Ognuno mette a disposizione la sua esperienza con le zecche, a cui, tenendole alle estremità di una pinzetta per i cigli, si appicca il fuoco. E’ una voluttà. Ai primi caldi troviamo gli animali infestati principalmente da zecche adulte, in agosto sono infestati principalmente da ninfe che vengono volgarmente chiamate “piombini” dato il loro aspetto. Gli adulti a cui danno origine sono le zecche adulte che infesteranno gli animali all’inizio della primavera successiva. E’ anche da cose come questa che desumiamo i cicli di vita, le stagionalità, i ritorni enigmatici a distanza di millenni, sui quali ci applichiamo nello studio quando siamo in aula o a eseguire i compiti.
I coetanei, tutti maschi, rientrano nell’ordinamento universale di questi affari adolescenziali in un collegio. Anche in una scuola è così. Ce ne sono infatti di tutti i tipi, esattamente quelli che si possono immaginare. C’è uno furbo e piccolo, uno furbo e prepotente, uno grasso e ingenuo (ha sempre la bolla di muco al naso e ride), uno magro che studia moltissimo (con le spalle inarcate, come se la sua vocazione fosse impiegatizia), uno violento e uno pervicace, uno ausiliario e di cui i forti sembrano avere necessità, uno che sa le algebre perché è versato in quelle, uno che evidentemente formula sogni magri e inchiostrati di azzurro acqua, uno che mostra a ogni piè sospinto la fragilità dei nervi, uno canzonato per via della sua sessualità incerta. E’ con questi compagni di avventure che l’esistenza quotidiana viene scandita in ore e periodi, un po’ come accade ai monaci con le horae canonicae (essi stessi sono tutti maschi).
Un giorno è dovuto intervenire il maestro, coadiuvato dall’insegnante di ginnastica, a separarci, una rissa tra di noi, piuttosto arruffata, come al solito priva di scopo, scoppiata perché uno diceva all’altro che sua madre lo aveva venduto in via definitiva al Collegio. E’ stata comminata una punizione esemplare.
C’è sempre qualche barra di cioccolato da rubare nella dispensa; sempre qualche palloncino trafugato da riempire d’acqua; o qualche ciliegia sotto spirito da assaggiare di nascosto dal rettore, nello studio dove accoglie i genitori per dare loro le dovute comunicazioni.
Giochiamo agli animali. Li impersoniamo, li personifichiamo. Uno di essi è il mulo. Solido, stolido, immobile e radicato nel terreno petroso, egli sta lì, carico di storia, lo sguardo paziente, sebbene non indifferente, solo marginalmente interessato, come se i fatti non lo toccassero o nemmeno inerissero a lui. C’è una cifra in qualche modo papale, dentro al mulo. Anche la sua ira è contenuta. Si trattiene nello stesso posto, spesso solatìo, nonostante il bastio, quando qualcuno cerca di trainarlo. Allora egli diviene un marmo testardo e risoluto, sempre senza concedere un minimo di partecipazione alla cosa, ciò irrita il peone. Possono addobbarlo con piumaggi colorati e connetterlo a carretti tempestati di finti rubini e verniciati a bella posta nelle maniere più fantasiose. Anche allora non scalpiterà, infuribondendo il carnevale a cui lo costringono a partecipare. Tuttavia è molto fedele. Si comporta, almeno, come tale, poi non si sa. Non si sa cosa passi per la testa del mulo: quali le sue fantasie, quali comportamenti camaleontici egli adotti per difendersi dalla pesantezza del mondo e del consesso. Ama nutrirsi di orzo. E’ capace di digerire i foraggi grossolani. La sua unghia è spessa e potente, infatti lo ricordiamo per il suo zoccolo. Il mulo è un ibrido sterile, deriva dall’incrocio tra l’asino stallone e la cavalla. L’ibrido derivato dall’incrocio contrario (cavallo stallone e asina) si chiama bardotto. Insospettabilmente è longevo. Il suo buddhismo è rustico. Deriva da questa monta misteriosa, un momento di spruzzo del seme che non di rado è stato eletto ad analogia del cosmo intero, per esempio dagli indù. E’ cresciuto nell’Illiria, il bardotto nella Mesopotamia. Dobbiamo tenere presenti queste caratteristiche, quando lo impersoniamo.
Ci addobbiamo di copricapi di pesante cartapesta, dalla forma di teste di suddetti animali. Queste maschere, verticali e che celano il volto, sono impegnative. Al loro interno si forma un microambiente in cui proliferano le muffe. L’odore è un afrore pesante. Sa di soia e di piedi. Le voci rimbombano sui nostri padiglioni auricolari. C’è da diffidare dei felidi. Chi impersona la tigre non è nobile. Disdegno particolarmente i predatori alfa. Linneo mette in guardia da queste pantere colorate, nel suo Sistema naturale. Non è casuale che si siano sviluppate anzitutto a Giava, e a Sumatra, nel Borneo, in generale. Escludiamo dal gioco il fatto del gene recessivo che attribuisce alla tigre una colorazione biancastra. Del resto non disponiamo di una maschera del genere. Il magazzino, nello scomparto in cartongesso e vetrocemento, ammetto di non averlo ispezionato da cima a fondo. Quindi potrebbe darsi che da qualche parte esista anche il copricapo a forma di tigre bianca.
Queste maschere tragiche sono anche un’occasione di amplificazione e trasformazione della voce. Sono casse armoniche. E’ come disporre di un ulteriore torace, ad altezza testa. Non hanno nulla a che vedere con gli zanni, come l’arlecchino.
Il guardiano del frutteto non gradisce affatto i nostri ludi animali. Ci censura. Lesto leva dalle nostre spalle il copricapo e ci torce dolorosamente l’orecchio. Esso duole per ore, la cartilagine ne risente.
Si può organizzare una truffa ai danni del corpo insegnante e dei lavoratori del collegio, uscendo in piena notte a guardare le stelle indossando silenziosamente questi costumi animali. Il cielo è sempre tumultuoso, la luce nitida delle stelle penetra difficoltosamente. Non è possibile tracciare le costellazioni, una parte del cielo è sempre coperta.
Si odono dei cincillà fare all’amore, strisciando dietro il fogliame spesso, verso il buio del bosco.
Non ci accontentiamo di fare i figuranti, facciamo altri giochi. Svolgiamo i doveri elementari che la natura e gli insegnanti ci hanno comminato. Vero si è che sottraiamo alla dispensa, con furti ben dosati nella frequenza e nell’importanza, dei lecca-lecca rossi. Sono fluorescenti, scintillano nel buio, attivati dalla nostra saliva. La lingua si impasta contro la liscia superficie del caramello. Chissà quali addittivi usano per rendere così colorati e golosi i lecca-lecca. Addensanti e aromi vari, ma anche i pericolosi E-137 e affini. Non ci stanchiamo mai di leccarli, di succhiarli, di gustarli. E’ una degustazione che induce un certo sfinimento. Le mandibole fanno male, alla lunga. Curviamo le superfici zuccherine, incavandole, raspiamo con la lingua, facendola aderire perfettamente, in modo maschio, e mulinando su e giù. Nascosti nel vano degli armadi in mogano o nelle paratie delle false porte, ciucciamo i lecca-lecca, sognando le costellazioni e avvertendo pulsioni, forse le femmine, comunque non soltanto inguinali. Poi, alla fine, non sappiamo che farcene dei bastoncini bianchi, in cartoncino plasticato e arrotolato, dei lecca-lecca. Non intendiamo lasciare tracce in giro, allora li mastichiamo, compulsivamente. Li mordiamo, li tiriamo mentre li tratteniamo con i denti, saldando le mascelle, percependo distintamente la fatica che l’incisivo compie a restare saldo nella sua sede. Questo male dei denti, che dura finché tiriamo i bastoncini, fino a che non sono consumati del tutto e la carta ci si sfalda in bocca, questi morsi serratissimi: sono belli. Il dolore è piacevole, fino a un certo punto, soprattutto se autoprodotto.
Sembriamo tanti pianetini nel buio, nello spazio, scintillanti e rossi, con questi lecca-lecca, nascosti nell’armadio sopra i calcinacci in un falso vano.
La digestione ci lascia esausti, a volte ci addormentiamo lì dentro.

“Oscuro arcaico”: il secondo capitolo di un libro che non vedrà mai la luce

Pubblico il secondo capitolo di “Oscuro arcaico”, un libro inedito che non vedrà mai la luce, perché è cupo plumbeo e atro. E’ una fantasia malata, che snoda vicende incongrue nell’ombra infetta di un collegio eternamente primonovecentesco. Il primo capitolo è leggibile qui.

[Primo capitoloTerzo capitolo]

CAPITOLO SECONDO

“Mi lasciarono dormire, evidentemente, perché mi risvegliai al suono di una campanella in ottone a mattina inoltrata, come dedussi dal fatto che la parete a sud del colle Tenda andava rischiarandosi di raggi del sole obliqui, i quali si avventuravano nella gola in ombra.
I letti erano vuoti, tutti. Qualcuno non rifatto perfettamente comunicava una sensazione penosa di disguido e panico.
Mi infilai i calzoni della divisa, stando attento al buco di entrata nella fibbia, apprezzai come penetrava il fermo in metallo, ovvero l’ardiglione: pratico, pneumatico. Quindi mi precipitai nelle cucine, che avevo conosciuto la notte precedente.
Non si vedeva nessuno, sull’angolo di una tavola ampia bianca in fòrmica era stata sistemata una ciotola ancora calda, di caffè di orzo, e un tozzo di pane. La bevanda di orzo era acquosa e insipida, il pane sapeva di cantina. Quindi, ricontrollando la cinghia di tela che tenesse, i libri e l’astuccio ben sistemati, a perdifiato feci il corridoio che portava all’aula e bussai.
Il maestro dietro la cattedra era compunto e pignolo. C’era da aspettarselo. Venni presentato alla classe. Quei ragazzi mi parvero ostili, senza eccezioni.
Il banco in fondo a destra era dunque quello che mi era stato riservato. Trovai il manuale sotto il piano scrittoio, che si apriva come un cofano. I libri di testo non servivano. Qualche pastello di scorta era sparso sul fondo desolante di quella scrivania, insieme a una riga, una squadra in plastica trasparente e una lente di ingrandimento. Annusai i pastelli: era un odore di tempera e di pongo, confortante, un materiale di cera colorata, il giallo giallo, il rosso rosso, lasciavo le impronte digitali dell’indice su quella pasta colorata. Sono prodotti similmente i dadi di estratto di carne, marroni, ma un poco screziati, che ciucciavo anni prima, dopo averli sottratti segretamente alla mia madre dentro la dispensa. In quella madia, mi era stato riferito, veniva lasciato l’impastato del pane casereccio e il lievito a riposare, in un’ombra lievemente umida e pomeridiana.
Iniziammo tutti a leggere la prima pagina del manuale, pareva un abbecedario perché aveva le pagine grandi, i caratteri a stampa grandi, la carta grezza, il quale manuale diceva, come leggeva a voce alta e ferma il maestro:
“Quantunque a volte, graziosissime femmine, e maschi naturalmente, vi capiti di pensare di sembrare di essere qualcosa in qualche modo, noi tutti conosciamo, nemmeno quasi lo ricordassimo, e con certezza lo si potrebbe dire, sappiamo perfettamente che sarà gravoso, per voi, il cominciamento del sapere qui illustrato, con grandi affanni per via della memoria, che è imperfetto ricordo fallace e non una fantasia dei popoli, per quanto qui pure raccontati nel loro progredire verso le forme attuali di esistenza, e per l’età e per la fatica che segna la fronte, essendo che chiunque è niente, il più insignificante tra gli apprendisti, e dunque chini resterete su queste pagine, memorabili per voi, che sempre porterete in un cantuccio del cuore, custodendovi caramente l’insegnamento e la sua fruttificazione, la quale tanto vi sarà utile alla fabbricazione, nella società, di voi stessi, e dei vostri cari, esistenti già ora, e a venire, edificando il consesso e maturadone la pietà e l’amore”.
Fui stranito dal fatto che venivano convocate femmine, qui, e per di più all’inizio, trovandomi in un Collegio esclusivamente maschile, come dimostravano del resto quelle teste chine e torve, sulle parole del libro di testo, intente tutte a piegarsi come al di sotto di un bastio, invisibile ma non per questo meno pesante. Dunque erano costoro che dormivano nel buio della stanza quella notte!
Uno si attorcigliava l’indice ai capelli corti e unti, uno sembrava in cerca di pidocchi, sembravano dormire leggendo.
Studiai il maestro. Aveva una patina biancastra sulla lingua, una lingua che raspava il palato e l’interno degli incisivi, per fare le fricative, senza baffi, alto fino al limite superiore della lavagna, tutta già ingessata, sopra cui si stagliavano le cifre misteriose, le radici quadre, i numeri irrazionali. Aveva una giacca con un fregio che non mi parve quello abituale del Collegio. La grafite della lavagna testimoniava la propria età. Forse era del luogo: pensai alle pietre simili a quella grafite che secondo me avevano estratto da qualche faglia occulta del monte, magari una miniera verso valle: pensa, pensai, agli gneiss antichi, agli scisti, a certi calcari cristallini. La sua costituzione lamellare su cui vergavano con i gessi un po’ dappertutto, per conculcare le nozioni e mostrare apertamente a tutti che cos’è la mente, cioè un campo nero con cifre e grafemi insolitamente bianchi, fluttuanti, cancellabili, in un progresso dettato dal passaggio di questo stoppino a spirale grigio di feltro un po’ lanoso. Sappiamo tutti come si respira il gesso.
Si ritirava la sera in un’ala dedicata agli insegnanti e alle insegnanti, il maestro? Mi risolsi a scoprirlo entro breve tempo, purché quei ragazzi stolidi e secondo me cattivi me lo permettessero.
Mi incantai quindi fuori della finestra, alta sulla sinistra, dopo certe lamelle di carta stagnola messe lì a frusciare riflettendo i barbagli contro i piccioni selvatici vedevo profilarsi le stalle, ma non si notavano animali tutto intorno, tantomeno puledri o bretoni da tiro o agricoli, forse le avevano dismesse. E la parete corrusca di granito a grana grossa di questo colle Tenda, ombreggiava già e nemmeno era la mezza. Un ripugnante gatto randagio una volta avevo visto addentare le interiora di un ratto sventurato sulla soglia in pietra di una porta simile a quella che accanto alle stalle dismesse dava su qualche vano o direttamente sulle cucine. Mi riebbi.
Venni chiamato alla lavagna. Mi fu chiesto di dimostrare abilità nella grafia e prontezza nell’aritmetica. Svolsi i miei compiti con imbarazzo, per via del silenzio con cui il maestro scrutava le mie esecuzioni, senza annuire o concedermi un cenno di assenso, di incoraggiamento. Non mi interessava invece la pressione degli sguardi dei miei nuovi compagni, quei loro bulbi oculari sporgenti, addirittura infelici.
Non c’era pietà né grazia lì.
Il maestro fu soddisfatto e mi additò a esempio per tutti.
Alcuni di loro si sfregavano con le mani le parti intime e quindi fui portato a considerare quale visione deve sopportare un insegnante davanti a quella schiera con le gambe aperte, che soltanto lui può notare.
Avremmo affrontato la chimica delle cose, la trigonometria, la bella scrittura e ovviamente la storia, la tecnica, un po’ di scienza delle costruzioni. Era davvero il primo giorno per tutti, scoprii. Non si conoscevano, quindi. Mi sentii rassicurato da quella constatazione. A volte non serve molto per rasserenarsi.
Certi argomenti scabrosi mi hanno sempre intimidito. Ora non era più tempo di correre fendendo le felci del giardino grande e andare tra le vesti garzose della mia madre, a rifugiarmi in quel grembo cotonoso e privo di profumi, che dovevo ogni volta immaginare, figurarmi quali erano i sentori di una donna, e per di più della madre, forse salini o ittici. Allora tornavo alla palla, al cerchio di legno. I miei balocchi erano oramai scaduti, la fallacia della memoria era insidiosa, aveva pienamente ragione l’estensore del manuale.
Il maestro pretese di spiegarci dell’auditoria quando mancava qualche minuto al trillo della campana e infatti fu interrotto alla metà di una frase. Tacque con disappunto.
Mentre uscivamo dall’aula in ordine sparso, silenziosi ed effettivamente stanchi, avemmo l’impressione che un’ala della cretineria ci avesse sfiorato le nuche piatte.”

Incipit di un libro fantasma: “Oscuro arcaico”

Oscuro arcaico è un libro che vorrei completare e non pubblicare presso editori. Mi piacerebbe distribuirlo in cartaceo, attraverso la Rete. Di cosa si tratta? Di una scrittura ottonata, ottusa, ottentotta. Una vicenda in uno spazio plumbeo, un’avventura in un tempo eternamente primonovecentesco, un’azione pesantemente caricaturale, una parodia tragica e irrisolvibile, un fantasy di natura altra ed estranea a ogni fantasy, una spelonca e uno spedale, dove Jakob Von Gunten e il giovane Törless non hanno nulla a che spartire con un’emulazione metallica ed estravagante di se stessi. Una cupa sessualità in un cupo sentire, un’ombrosa accolita di bambini maliziosi e adultiformi, una collage di college per un incubo scolastico del tutto idiosincratico. E’ un libro in cui apparentemente non si spende alcun contatto con l’attualità e la realtà è sovvertita da un indecente impressionismo. Pubblico qui il primo capitolo. Spero che non dispiaccia, confido che dispiaccia.

[Secondo capitolo]

GIUSEPPE GENNA
OSCURO ARCAICO

Quando arrivai dormivano tutti, tutti.
Presi possesso del mio letto nella grande camerata buia, a stento illuminata dalla luce lunare che penetrava attraverso finestroni alti, le cui cornici erano consunte e sistemate con lo stucco. La coperta è immaginabile: marrone indefinito, due strisce chiare, colore panna, longitudinali, quel certo gusto militare che va avanti negli anni.
“Sarà questo il mio posto, dunque” mi dissi. Quasi attesi che qualcuno si svegliasse, al suono di vibrafono del mio pensiero.
La fanciullezza è sempre estenuante, perdura infinitamente. Si desidera che l’autunno venga.
“Lo studierò attraverso questi vetri” che mi parevano tanti schermi ondulati e irregolari, un po’ assiri, nella camerata coperta dal sonno. Anche io ero stanco. Le foglie di un tiglio pallido tichettavano contro uno di quei vetri, era un osservatorio naturale per l’autunno.
“Poserò le mie cose qui” e il buio si fece gigantesco, quasi fossimo un glutine digerito dalla pancia di Behemot, il famoso mostro biblico. Ero infatti stanco, per il viaggio e anche per il silenzio del mio padre, che avevo fronteggiato a ogni tornante del colle Tenda, tra i dirupi marziani e il torrente rumoroso e nero, fino al Collegio.
Eravamo infatti giunti, stremati alquanto, a tarda sera.
Il torrente Tenda spruzzava le sponde erose di ciottolato bianco, la fonte si trovava in qualche tabernacolo sulla vetta di quel monte arcigno, una escrescenza mostruosa, sembrava un cretese cresciuto sotto l’ascella di un colosso appestato.
Il Collegio era costituito da un edificio centrale dalla architettura considerevole a cuspide nella facciata, privo di ornamento e particolari a cui la visione potesse appendersi, a parte il graticcio di travi portanti a vista, di un legno forse mineralizzatosi. Il frastuono sotterraneo del torrente richiedeva qualche minuto ad abituarsi, poi pareva tutto silenzio, impropriamente.
Voltandosi, con le spalle volte alla facciata del Collegio, la valle crepitava di cicale ritardatarie verso la sera, era una feritoia chiusa e asserrata, una gola in roccia grigioscura e vegetazione impetuosa e disordinata, cupa di un lucore che disorienta chiunque. Quella facciata era fatta di una texture di pietra scura, lavica se non mi sbaglio.
Due parole su Behemot. Il Behemot è il più grande animale che vive sulla terraferma. Il “Libro di Giobbe” ricorda che si nutre di erba come un bue. Ha ossa tubi di bronzo, arti verghe di ferro; ogni giorno si nutre del foraggio di mille montagne enormi. Non abbandona mai le mille montagne e quell’erba che ha consumato di giorno risputa stupidamente di notte. A causa del suo appetito ne fu creato un esemplare unico, impedendo in questo modo che si moltiplicasse. Il suo mugghio è udito da tutti gli animali del mondo, per il terrore si fanno meno feroci e evitano così di assaltare i cuccioli per un anno intero.
Gli è stato vietato di vivere negli abissi. Ha la forza bruta. Dorme molto: per molti secoli. La sua pelle è fatta di graniti scuri. Non sogna. Suo nemico sarebbe il Leviatano.
All’incirca due ore ci vollero perché il Rettore accogliesse mio padre, calorosamente con una stretta di mano, affabile come lo spettro di una rivoluzione americana.
“Ha la divisa, il ragazzo?” chiese, ero incantato dalla sua marsina. Era lisa sotto le ascelle. Chissà quale tuba indossava quando usciva. Non seppi sul momento dire se l’uomo se ne andasse di notte ad abitare da qualche parte oppure dormisse lì, sospeso tra lavoro e lavoro. Quei baffi bianchi e biondi alla Thomas Jefferson non mi facevano simpatia.
Rimasi in attesa fuori dell’ufficio, contavo le brecce nella vernice vecchia, verde sanatorio. Dietro la porta col vetro smerigliato e lo stucco erano confuse le loro chiacchiere. Pareva un controcanto al ruscellare di quell’acqua, sfrenatamente la natura lancia i suoi elementi dentro il vuoto, io pensavo.
Ne vennero a una e fui chiamato nell’ufficio rettorale. Mi impressionò questo mobile forse Luigi Filippo, comunque fine Ottocento, che veniva usato a mo’ di scrivania. Dentro i cassetti laterali venivano conservati gli incartamenti forse. La grana della carta, a quei tempi, era porosa e restia all’acqua, gli inchiostri ne venivano dilavati, lasciando traccia di certe lacrime e immagini tristi quasi mariane.
“E’ questo il ragazzo!” disse l’uomo.
“Possiamo applicare qui la nozione di privatezza assoluta?” domandò il padre.
“Certamente!”
“Quindi posso dimostrare la sanità della sua costituzione. E’ integrale!” affermò il padre. Carezzò la mia nuca, i miei capelli ispidi parevano una ciotola all’incontrario. Con l’indice mi sfiorò il labbro superiore, saggiandone la tenerezza, poi mise il dito a gancio e sollevò il labbro, spostandosi a contatto delle gengive e dei miei denti, in orizzontale, poi aprendomi il labbro inferiore verso la gengiva, come un cavallo.
“Che denti!”
“Infatti. E’ stata dura conculcare nel ragazzo” e mi diede uno scappellotto “l’abitudine a spazzolarli bene”, appariva soddisfatto.
“Ok, è venduto!” disse quindi il padre. “Il ragazzo è vostro. Fatemi firmare il contratto”.
Sistemarono le incombenze dell’affare.
“La divisa” chiese quel rettore.
“E’ nella borsa”. Quella borsa era un rotolo di pelle consumata, due fibbie in cuoio la chiudevano sommariamente, una borsa da sella praticamente. I miei effetti giacevano lì dentro tutti compressi. “Va bene così” mi dissi.
Quindi venni affidato a un bidello in un certo senso imponente e matronale, alto e vestito con un grembiule bianco tazza un poco ingiallito. Senza parlare mi portò nelle cucine dietro il salone dove pranzavano e mi diede una tazza di latte caldo, senza parlare. Poi lo seguii verso la camerata.
Incontrammo casualmente il mio padre, il rettore lo stava accompagnando fuori, verso l’automobile. Mi strinse, forse eccessivamente, forse invece a segnalare che il momento era importante: “Non comportarti come sai e andrà tutto bene” mi sussurrò autoritario.
Provai a baciarlo sulla guancia e non vi riuscii, annusando soltanto un poco della sua pelle secca, che il mattino aveva asperso di un’acqua profumata, un elisir dopobarba.
Quando mi infilai sotto la coperta scolastica, militare, allora mi levigò l’amido eccessivo del lenzuolo di telaccia.
“Sì! Studierò di qui i segnali dell’autunno imminente” feci in tempo a pensare, ascoltando il crepitio lieve dei respiri assopiti di quei ragazzi e non mi chiesi altro.

Il food nel libro atro

Il food nel libro cupo (gli interessati vedano qui: http://on.fb.me/1rgBuaW) gioca un suo certo ruolo:

Atra stagione è l’età delle nozioni. Bisogna affrettarsi all’apprendimento diretto, pratico, senza cinchescherie, senza farloccare in fantasie inafferrabili, quei fumi della testa a cui il pubere inclina e dai quali va corretto, riportandolo alla retta via del giudizio ben ponderato. La gestione dei pargoli ci impegna e ci stimola a progredire verso non so dove. Essi non hanno compreso quanta buona sorte muova gli ingredienti a miscelarsi, alla cottura, al bolo, finendo nel piatto di alluminio che sta a una spanna dai loro nasi moccolosi in mensa, nelle belle cene in mensa alle sei dei pomeriggi di inverno al colle Tenda. Fuori spiove a gocce larghe e il preside, sostantivo che è elisione di presidente così come il collegio è elisione della società tutta, annuncia che si può mettere a bagno la mollica nell’intingolo, fare scarpetta. “Senza macchiarsi la pettorina” ovviamente, rimbomba buona e gravida di conseguenze la gutturale dell’insigne direttore scolastico. Eseguiamo. C’è il mondo in quell’intingolo, una guerra universale di forme e di sostanze, un metabolismo prima della salivazione, un che di nuovo sempre, un pasto: la salsa è stata a lungo preparata dai fati, le bucce sono maturate nella coltivazione a cui il letame, com’è giusto che sia, ha contribuito con il suo fervore, di crescere e di trasformarsi come un lievito della terra, la mano rugosa e distante dal callifugo del contado ha sterminato i frutti, la loro morte si sa che è la nostra vita, la vegetazione non urla punto e noi ne facciamo un sol boccone, così, come niente fosse. Se la verzura fosse innervata di un qualche sistema di tendini e di bocche, ne ascolteremmo delle belle: straziati i pomi, all’olocausto i cocurbitacei, molando in tortura carotene e bucce d’agrumi: sfregare loro la cute abradendola, mettendo a nudo la polpa fresca, raschiando duro, sai che bruciore avvertono quelli. Sono viventi muti, dalle strane forme. Il cetriolo è inquietante: ammettiamolo. Quella zucca viene riattata a, essiccata, cassa armonica, sitàr, con chiavi e piroli se ne fa la tambura, essa è mostruosa ai primordi e incivilita agli esordi, per arricciarsi in rifiuto all’esito finale, come tutto ciò che è vivo finisce a incenerirsi, nell’ecpìrosi individuale prima, nella combustione universale poi. I sughi rappresentano il risultato di un’arte, cioè di una prolungata sapienza a cui si aggiunga l’estro di un genio. Questa persona è mani, è occhi, è nari, è l’immaginazione, facoltà sovrana, con cui si prevedono i sapori, prescindendo dalla ricetta. Questi artusi sono capaci di sminuzzare l’aglio e di invelenire col timo la conserva, la giardiniera la valutano se il botulino vi ha fatto il nido, specie mortale, come la umana dopotutto. Pestano il basilico, agitano la scarola, incruentiscono col brandy. Sanno quando una carne è rosolata e quando il pane, raffermo, è commestibile nonostante le muffe. Allora tutti noi lo mettiamo in bocca, quel tozzo secco e duro come il granito del colle Tenda, lo mastichiamo esclamando: “Che buono, ahi!, ci spezza i denti, che male!”. E’ curioso osservare la cucina senza il cuoco: la mezzaluna giace tra i cipollotti sul tagliere come un relitto di astronave, fatta di un un titanio sconosciuto agli uomini, che proviene da chissà che esopianeti. L’universo è fitto di queste steli di Rosetta. Si sbuccia la cipolla togliendole dapprima la tunica, facendo attenzione alla lama, alle nocche. I cavolfiori sbolliti fumano quel vapore che sa di zolfo e panecotto. Lì è il regno di alchimisti, che ti estraggono l’intingolo e la vivanda, fase acuta di un processo di febbre del minerale, che si sbriciola e si riaggrega in forma chimica, quindi perviene al vivente, all’organismo edibile, ma prima va ammazzato, poi va rilavorato, poi cotto per bene, manducato, quindi si dà inizio alla digestione. C’è il segreto della ptialina, che proviene da una ghiandola, disaggrega, torna minerale, poi fece, quindi ancora minerale: e così via, la vita universale è un gran trambusto. Noi mastichiamo educatamente, a dire il vero sguaiatamente quando ci capita, non rimpiangiamo nulla delle nutrizioni che ci hanno preceduto, sappiamo benissimo che siamo stati predigeriti dalle ptialine e cacati fuori chissà quante volte, ma ruminando sentiamo di esistere oro ora e non più, ci affezioniamo a questo andazzo, siamo tutti così: inerti ma in fondo cattivi, birbe che ti massacrano un padre vecchio o stuprano un’avvenente madre, rifiutano la matrigna, fanno il dispetto alle sorelline a casa, la quale casa non vediamo più e va bene così, in fondo non ci ha dato che dispiaceri e quando ci hanno venduto è stato come nascere di nuovo, consapevoli e ripuliti, rinfrescati, pronti a imparare i vizi e i dobloni, prima di rifarci cacca e di abbandonare questo bel mondo, questa disgrazia.

Un incipit per un Libro Atro – un inedito

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Quando arrivai dormivano tutti, tutti.
Presi possesso del mio letto nella grande camerata buia, a stento illuminata dalla luce lunare che penetrava attraverso finestroni alti, le cui cornici erano consunte e sistemate con lo stucco. La coperta è immaginabile: marrone indefinito, due strisce chiare, colore panna, longitudinali, quel certo gusto militare che va avanti negli anni.
“Sarà questo il mio posto, dunque” mi dissi. Quasi attesi che qualcuno si svegliasse, al suono di vibrafono del mio pensiero.
La fanciullezza è sempre estenuante, perdura infinitamente. Si desidera che l’autunno venga.
“Lo studierò attraverso questi vetri” che mi parevano tanti schermi ondulati e irregolari, un po’ assiri, nella camerata coperta dal sonno. Anche io ero stanco. Le foglie di un tiglio pallido tichettavano contro uno di quei vetri, era un osservatorio naturale per l’autunno.
“Poserò le mie cose qui” e il buio si fece gigantesco, quasi fossimo un glutine digerito dalla pancia di Behemot, il famoso mostro biblico. Ero infatti stanco, per il viaggio e anche per il silenzio del mio padre, che avevo fronteggiato a ogni tornante del colle Tenda, tra i dirupi marziani e il torrente rumoroso e nero, fino al Collegio.
Eravamo infatti giunti, stremati alquanto, a tarda sera.
Il torrente Tenda spruzzava le sponde erose di ciottolato bianco, la fonte si trovava in qualche tabernacolo sulla vetta di quel monte arcigno, una escrescenza mostruosa, sembrava un cretese cresciuto sotto l’ascella di un colosso appestato. Continua a leggere “Un incipit per un Libro Atro – un inedito”

Dal libro atro che si va facendo: “Tecnica cerebellare”

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Nelle ore alternative ai riti funebri che svolgiamo distruggendo uno per uno i ricordi di cui disponiamo, la cui tecnica di disgregazione non ricordiamo già più se ci è stata inculcata dai precettori del collegio al colle Tenda o è stata scovata per ventura da qualche birba delle nostre, la quale non si è fatta problema di inzigare il camerata più prossimo e di carattere floscio a praticarla per gioco, così da attirare via via i temperamenti più aggressivi e mimetici a un ludo e una mania, un uzzolo, un ticchio, con il sembiante di un’innocenzuola e invece salutare, di un salutismo da ventennio, costituendo tutt’assieme una gilda votata incrollabilmente alla meta e all’ambizione della smemoratezza: si fa così: Continua a leggere “Dal libro atro che si va facendo: “Tecnica cerebellare””

Dal libro cupo e sordo che si sta facendo: Le soffitte

f996fb3a184f8e3219136b3b61e82210Seguendo la via regia dei balocchi, una volta, sotto la volta fresca dei soggiorni ai pianterreni, noi si conosceva che babbo e madre erano velami della mirabile visione, facevano velo e paratia, interdicevano, all’esistenza di soffitte o scansìe occulte, serrate dalle serrature incancrenite, cerniere secolari, cardini incrostati dall’antiquaria rugginosa sostanza di età in cui noi bimbi non eravamo, se non girini dell’immaginaria possibilità che l’universo medita di fare e che, si sa, andrebbe di lì a poi a concretarsi nel sego e nell’ossa di questi nostri corpicini nudi, adusi alla coccola e alla carezza, con i dentini a doppia schiera che vengono a galla nelle polpe gengivali e di lì danno sfogo alla voracità dei così detti piranha che ci siamo trovati a essere senza rammemorarlo nel mentre che l’eravamo, salvo poi pigolare i pianti come i coccodrilli, tutti a seguitare in pianti su pianti adulti poi circa le marmellate d’un tempo che fu e fu fumo, a cincischiare lacrime sui bui color melena, l’odorame di polveri antiratti e di ciprie, il vischio in mezzo alle gambe di cuginette e cuginetti, e l’innocenza tutta che i piranha si inventano di avere fatto a ruolo sui palcoscenici del mondo vano e tondo. Continua a leggere “Dal libro cupo e sordo che si sta facendo: Le soffitte”

Da un libro atro in via di facimento

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“Perché ti gratti la testolina?”
“Lo faccio per piccineria, Madre.
I bricchi di porcellana sbeccucciati mi hanno fatto male. La pubertà è un regno di inganni e una pasta d’ossa di sambuco nei giardini dell’infanzia dopo, andati oltre un certo limite. Mi pareva di avere le verruche genitali, i porri, le sostanze. Mi hanno terrorizzato i bui. Tutto questo è la Mitteleuropa, tra infanzia e uomo pubere è tutta Mitteleuropa. L’immagine di te, o Madre, con il Papone prima che se ne andasse con la Troia, apportando a entrambi me e te e il mio fratellino quella sofferenza di pustola spirituale e essere avvezzi a sentore di polvere antibatterica, ricordi?, con lui che voleva lo si chiamasse “Ei” e così lo chiamammo, io e il fratellino. Perché lo partoristi, il fratellino Madre? Era un’infanzia dispensierata di limone e mente, fino a allora!, l’uva giaggiòla della letteratura per l’infanzia disacerbava, come ogni puttana la fa a chi promuove lo sviluppo erettile e allunga il legno della dorsale – quei cric cric! dei cuscinetti tra le vertebre concrescendo, facevano cigolo e stridore nella schiena, a furia di cricchiare al mio irrobustirsi! – e quando la neve calava coi suoi cristalli a soffioni di pappi di neve io mi inventavo di vedere i gatti lividi, bianchi, come zarine dure, che mi guardavano dal finestrone immote, stando sul muro di cinta del lavacro. E le donne, le donne! Che violenza, Mamma! Mi tramestavano le membra, mi assonnavano e trastullavano fino allo svenimento!, fin quando si sentivano i passi duri a schiocchi sull’impiantito in mogano e assi curve del Padre Nostro e della sua Severità. E se ne andò con la Troia perché tu facesti il bambino con un altro: che bello il mio fratellino, tutto d’un colpo non ero più solo e potevo molestarne le carni tenerelle. Ti ricordi, Tu, quando gli baciavo il labbro, della ferita? Aveva il sapore del metallo quel cordone dell’ombelico: che lezione era mangiare l’òmfalos, figurarsi che il mondo è una testa e gira come una testa… La pappa di staminali è buona, mamma. Straparlava il suo chiacchiericcio degli infanti, il frugoletto: e in cuor mio e suo io lo odiavo. Si, Madre, lo odiavo, perché mi rubava a te, la Bionda Cinerea della mia infanzia, e dove finivano le mie pugnette, le mie scolopendre che mi uscivano di Lì e se ne andavano a corteggiarti? Mai più una polluzione, mai più una fantasia: solo seghe, solo collegio, solo colloidalità, o Madre, dal trampolino dell’adolescenza, nel duro tremito dell’etere nefasto, verso la Età Adulta, senza Madre né Padre, ché era fuggito con la Troia, e lo Zio si insinuava tra le tue sottane, così fruscianti di crêpe de Chine che pareva la pelle di una morta da due giorni: l’avvizzire dei tessuti molli è sarcoma al mondo delle terre emerse, quando l’acqua dilava via dall’acqua e lascia quegli eden disseccati a stento essere tra valle e valle della morente età senza nessuno com’è su Marte, dio guerriero che abbiamo spiaccicato col suo nome di gloria e ferro su un pianeta che nome non ne ha nessuno e lo riguardiamo, nottetempo, tra gli sciami di luce morta a fontanelle, nel mezzocielo che pare un grande cerebro e un abisso, sopra le spalle e davanti ai nostri òmeri coi cannocchiali: là c’è la valle di Scardanelli, là i templi perduti di Abisso Nufréne, nella mappa di Christiaan Huygens trovi tutto, là Giovanni Virgilio Schiapparelli che aveva scoperto 69 Hesperia individuava “li canali e canalone subterranei a modo dei nostri canaloni delle Americhe Entrambe, per li punti cardinali di qualche grado volgendosi verso il tramonto del sol a gradi quattro, quattro e venticinque, una illusïone ottica con cui mi garba prendermi gioco della modernità, ché credono, questi, davvero esserci dei canali rigonfi d’acqua su una simile arida scristianizzata terra?” (1) Eppure, Madre, io Lo guardavo, il pianeta Marte, rilucere sabbioso nell’aere offuscato dell’ultima sera, in alto a destra là, per la disperazione che mi davate e Tu e il Padre e l’immenso troneggiare del mondo mondano. Ero un cirlìno fatto così: spiegazzato tutto, niveo, con un caschetto di capelli a zefiro compatti e ondulati, biondocinerei, e pensavo ai grandi uomini del passato, agli antichi: quei Soloni mi hanno sempre irritato, mandavano ai pazzi i miei furori e scaricavo ormoni grettamente come sai che fa il mio sesso, patogeni e patogeni, uretra in fiamme e pannolini di crespo cotone, mi facevo l’ecografia dei visceri, sapevo di lavande di Provenza. Che porchiddìo è nascere, patire, apprendere, disperarsi! Madre!, dove sei? Dove, il Papone? Così feci il mio ingresso nel Mondo Mondano, in direzione padre, stellato del mio bugnato di carne e carne-grossa, sapendo di sebo, masticando torrone.”

(1) “Come suol fare a periodi alternati ora di 15 anni, ora di 17 anni, il pianeta Marte nell’autunno scorso passò ad una delle sue minori distanze da noi, avvicinandosi alla Terra fino a 47 milioni di chilometri, ed apparve luminoso e magnifico più che mai non sia stato dal 1877 a questa parto. A quella distanza, il globo di Marte, di cui il diametro arriva a circa 7600 chilometri, sottendeva nell’occhio dell’osservatore terrestre un angolo di 25″. Sopra un tal globo ed a tale distanza si possono discernere, con telescopi di sufficiente potenza, le configurazioni topografiche del pianeta con un grado di minutezza e di precisione di cui si può avere un’idea dai qui annessi disegni. E reciprocamente, ad uno spettatore collocato in Marte non riuscirebbe troppo difficile distinguere sulla Terra particolarità del medesimo ordine di grandezza. L’esperienza dimostra, che con un istrumento di dimensioni affatto comuni, munito di una lente obbiettiva di 20 centimetri di diametro, una macchia luminosa su fondo oscuro (od oscura su fondo luminoso) si può distinguere senza troppa difficoltà in Marte alla sopradetta distanza di 47 milioni di chilometri, quando ad un discreto contrasto di colore essa congiunga un diametro reale uguale a 1/50 del diametro del pianeta, cioè a 153 chilometri. Epperciò, usando sufficiente diligenza, si potranno scoprire in Marte, con un obbiettivo della detta dimensione, tutte le isole non minori della Sicilia e tutti i laghi non minori del Ladoga, isole come l’Islanda e Ceylan; laghi come quello di Aral ed il Victoria Nyanza devono esser molto cospicui. Similmente una striscia luminosa su fondo più oscuro, secondo le fatte esperienze, dovrebbe essere ancora visibile quando la sua larghezza non fosso minore di 1/100 del diametro di Marte, cioè di 80 chilometri o giù di lì. Quindi lingue di Terra od isole oblunghe come la Jutlandia e Cuba e l’istmo centrale Americano; stretti di mare e laghi oblunghi come il Tanganyika, il Nyassa od il Mar Vermiglio di California dovrebbero esser visibili da un ipotetico abitante di Marte, che vi ponesse molta attenzione. Facilissimi dovrebbero essere per lui oggetti come l’Italia, l’Adriatico, il Mar Rosso, Sumatra e Nippon.” (Anno XIX, n° 1,1° dicembre 1909)

Facendosi del libro atro

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Quando avrete letto e digerito “La vita umana sul pianeta Terra” (Mondadori – per info: http://bit.ly/RbHchj), si sarà già sviluppato il fantasy idiosincratico, patologico e contaminato che è il libro successivo, in cui, fuori dal cerchio dell’ambientazione principale, vive e respira questo personaggio, questa atmosfera, questa assenza di azione.