In un certo senso, quanto si va configurando all’orizzonte temporale nostro è che la parola può cadere: non che vada necessariamente a cadere, ma che è possibile che cada. E’ una conseguenza dell’accelerazione cosiddetta tecnologica? No: è una conseguenza del reale statuto della mente. Della parola non c’è bisogno in assoluto. Non è nemmeno il caso di tentare in modo abborracciato discorsi sulla fine dell’arte; è invece il caso di rendersi conto che quando muori non parli, quando mangi non parli, perfino quando pensi non parli, anche se invale ancora la credenza che esista questa cosa del monologo interiore. E’ pure paradossale che, in tempi in cui la parola è trasformata nel suo impatto sul e nel mondo, tanta retorica nei luoghi ricchi in cui la parola cade si faccia per esempio su questa mitologia distorta e molto dannosa (dannosa psichicamente, collettivamente) che è “lo storytelling” o “la narrazione”. Si tratta appunto di una retorica. La verità è che nessuno, tranne pochi e parecchio scriteriati, sa fare un testo o sa avvertire l’intensità in un testo. Tali scriteriati sarebbero gli scrittori autentici. Ne conto pochissimi, non soltanto nella nazione, in questo tempo che pare accelerare nella smaterializzazione del mondo di carne, mentre non è affatto una categoria interpretativa la velocità. Ci sono gradi diversi di istantaneità che dura e che si manifesta, dal tempo uno sembra non accorgersene, ma si accorge volente o nolente. L’istantaneità che dura sempre e si manifesta totalmente è la consapevolezza o, meglio, la coscienza. Ora vengo a me.
La sensazione che la parola cada, che è totalmente inutile attestarsi in idolatrie formali tanto quanto in fedi ispirazioniste o in ingenuità da buon selvaggio (che pur sempre, sarà anche buono, rimane selvaggio) mi accompagna da sempre, però di più da un po’ di anni. Se dovessi cercare di mettere in chiaro cosa tento quando scrivo, del che so non fregare a nessuno e che però so anche non essere un’istanza folkloristica mia, direi questo: dopo avere cercato di muovere masse linguistiche e immaginali, tentando di allargare le crepe negli assetti stilistici e canonici della prosa, sto provando a fare emergere un ultrasuono nella scrittura. E’ sempre lo stesso ultrasuono. Questo è accaduto a partire da “Hitler”, laddove non tentavo però letteralmente l’ultrasuono, bensì di descrivere un’ultraimmagine, con la lingua più enfatica che potevo, per restituire un’imitazione impossibile di ciò che nessuno di noi avrebbe mai voluto immaginare: la zona *Hitler*, appunto. La questione dell’ultrasuono è esplicita in “Fine Impero” e raggiunge un’accettabilità di resa in “La vita umana sul pianeta Terra”. C’è poi un saggio, “Io sono”, in cui cerco non di esprimere, bensì propriamente di parlare di questo ultrasuono. Il libro a cui mi sto dedicando sarà il tentativo di rendere percepibile questo ultrasuono in modo ancora più sottile. Perché lo faccio? Perché la parola cade, l’ultrasuono no. Come sono fragili le parole della scrittura! Lo sono da sempre, ma in questi anni tutte, quelle inglesi e quelle francesi anche, sembrano così inermi, goffe, inadeguate… Non attendo con ansia l’uscita di un libro nuovo se non di tre o quattro autori che vivono in posti differenti e sparsi sul pianeta. La parola è entrata in uno stato semifinale, che è il suo proprio da sempre, ma che adesso diventa storico, verificabile, alla mano. Questo stato, limbale, è l’italianità. Tutte le parole mondiali sono oggi in stato di italianità. L’italiano è ultrasonico. Ciò definisce i motivi profondi per cui la nostra lingua è letteratura, del tutto automaticamente, da quando è apparsa.
La parola cade, tu no: questo è il punto. Il punto genera lo spazio, ma non appartiene allo spazio. Questo fatto, che potrebbe essere un inaccettabile commentario a Kafka, è l’italianità.
In questo scricchiolio quasi inudibile e da sempre inaudito, se non per gli scriteriati, sta tutta la sostanza dell’arte della parola.