La mia generazione crebbe in una fase maturativa dell’epoca dello Spettacolo. Fu una storia nazionale e internazionale: gli schermi avanzarono verso l’osservatore. Le immagini eruppero. Il conformismo, che già sibilava la sua lingua venefica nella immota società borghese da decenni, con i suoi totem e i suoi tabù orrendamente prefigurati come fase definitiva della Storia, si vide annidato nelle fasi più televisive della contestazione e, quindi, a maggior ragione nella fase più televisiva della televisizzazione: le emittenti cosiddette libere erano la prima incarnazione di una forma di potere che i filosofi e gli osservatori più acuti avevano individuato e che poi avrebbero sperimentato tutti, filosofeggiando o osservando comunque poco, nel decennio italiano che portava a fine millennio. A quel punto non si ricordano filosofi od osservatori all’altezza di prevedere cosa sarebbe successo *dopo*. Tutti gli osservatori istituzionalizzati, cioè i miei coetanei e i miei coetanei che praticavano l’arte e l’arte dell’intelletto, non pensarono: quindi pensarono che il paradigma fosse nuovamente la fine della Storia e dell’esperienza. Sbagliarono clamorosamente, accondiscendendo alla loro vocazione di borghesi, di sapiens-sapiens-sapiens. Non c’era più un Debord a pensare per loro il nuovo paradigma, quello si era ammazzato, proprio per colpa dei miei coetanei, cioè di coloro che in occidente *venivano dopo*. Se anche ci fosse stato un Debord a urlarglielo negli orecchi, ben foderati di prosciutto cotto con i polifosfati, non lo avrebbero riconosciuto, lo avrebbero anzi istintivamente osteggiato, denigrato, ignorato, gli avrebbero dato del matto – poiché, fino a quel punto, la Storia si ripeteva, la parabola era sempre la stessa, primaria e archetipa, declinata ovviamente in sempre postume e contemporanee incarnazioni. La Bêtise non trapassava, era bene riconoscibile e, come sempre nella storia di sapiens-sapiens, si presentava come legione, prendeva l’intera generazione. Fatto sta che l’epoca dello Spettacolo finiva, trapassando essa stessa in una forma nuova, che non sarebbe stata più dialettica, accorciando i tempi tra una forma e quella che si genera dall’autosuperamento della forma stessa. Rimasero incantati dall’aggettivo “liquido”, dall’ipostasi cretinetti del “non-luogo”. Invece si era entrati appunto nell’epoca dell’Accelerazione, che sussumeva in sé lo Spettacolo, all’interno del quale già agiva da tempo, si può dire da sempre, dall’invenzione dello strumento da parte di sapiens: la storia della specie è, sotto un certo riguardo, la storia dell’uscita dalla specie, biologicamente intesa. Bastava attendere. Si è atteso. Gli spiriti più accorti si sono preparati, soffrendo e soffrendo anche ora che la loro diagnosi è emersa come patologia conclamata: uno può vedere in anticipo il futuro, però viverlo impegna la carne e l’anima, è altra cosa. Ora siamo nel pieno del gomito della curva: si vede bene che l’iperbole sta staccandosi da quella che si credeva una linea in lenta progressione, in lento progresso: così il progresso era infatti interpretato nei secoli addietro e ora non può più esserlo. Con quali parole dire questa vicenda? Con un testo, certo, ma non fatto soltanto di parole, non fatto solo di immagini, non fatto solo di suoni, di scarti, di espressioni, di retoriche. La Nuvola in cui siamo non consente alcuna forma dura e la Nuvola è peraltro parte di dove in realtà siamo collocati, avendolo deciso da sempre, non sapendolo, o sapendolo profeticamente: nell’Atmosfera, cioè nel Cosmo, cioè nel Vuoto.
Tutto ciò è raccontato in “Diorama” di Marco Magurno, da ieri in tutte le librerie di Italia. E’ l’unico libro, a me noto, che si colloca all’altezza dei tempi, indicando il tempo. Non c’è romanzo che tenga. Soltanto la poesia gli sta sopra e accanto e dentro, mai sotto. In tutta la mia “carriera editoriale”, mi è capitato raramente di assistere allo sconvolgente. Mi capitò con Babsi Jones e il suo testo immane e diffusissimo, “Sappiano le mie parole di sangue”, istituito in un regno che stava on line e ora non è più, un sito di migliaia di file e pagine, oltre al testo di carta. Mi capita ora con “Diorama” di Marco Magurno. Non sto evidentemente riferendomi a testi bestelleristici e nemmeno a testi che devono entrare in un canone, quest’ossessione dei novecenteschi, che si protrae intatta e morta grazie al lutto e alla paura di morire che è propria dei miei coetanei. Sto riferendomi a oggetti che a me sconvolgono – soltanto questo.