L’uomo bimillenario. Appunti sul diorama italiano

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Ragioniamo sull’Italia, che non esiste più e non è mai esistita nella realtà, poiché la realtà è italiana ed esiste prima di ogni cosa e dopo ogni cosa, vaporizzata nel medio. Sono stati esperiti alcuni quadri storici, in Italia, a partire dalla Seconda guerra mondiale, un discrimine che oggi non ha senso alcuno per i recenti giocatori non brizzolati di Pokémon Go, ma che per i miei coetanei e per chi ci precedeva costituiva una demarcazione profonda, coi partigiani che sembravano scesi dalla Val d’Ossola due anni prima, sempre, quando facevi le elementari, quando facevi le medie, quando andavi alla professionale o al liceo chic. Dal 1940 in poi, ecco come la lingua d’uso ha nominato quei quadri: quelli che “hanno fatto la guerra”, quelli che “hanno fatto la ricostruzione”, quelli che “hanno vissuto il boom economico”, quelli che “hanno fatto il Sessantotto”, quelli che “hanno fatto gli Anni di Piombo”, quelli che “hanno vissuto gli Ottanta”. Poi la tassonomia linguistica si arresta. Si va direttamente a una pletora di nickname giornalisti che, come è ovvio, in quanto è il destino di qualunque attività giornalistica, durano lo spazio di un anno o due: “generazione X”, “nativi digitali”, “millennial”, et coetera. Si sarà notata la determinazione al passivo di alcuni quadri storici, più o meno decennali, in particolare gli anni del boom e quelli dei paninari: sono stati “vissuti” e non “fatti”. Non sono un determinista o uno storicista, ma nemmeno uno scemo, e ritengo che questa valutazione, per quanto rozza e generica, evidenzi un’eziologia, cioè la decisività del benessere economico, che ha reso passivi gli italiani quando avevano grano. Brava gente, gli italiani, nevvero? Mi interessa, tuttavia, il fatto che si arrivi a quadri storici privi di verbo, sia attivo sia passivo, a principiare dagli anni Novanta, fino a oggi. Qui è iniziata farsi sensibile l’accelerazione, si è proceduto a inserirsi nel gomito della curva di un’impennata, un momento geometrico e temporale in cui uno dà l’addio alla linearità della storia e si rende conto che un elemento ha assorbito tutta la verbalità possibile. Questo elemento è la tecnologia. Essa agisce al momento senza verbo e, letteralmente, non si sa in realtà se agisca o sia agita o entrambi i verbi. Quanto agli italiani, non sarà secondario che vadano ad aggregarsi, per via della realtà aumentata, al Colosseo, mentre gli americani si trovano ad ammassarsi a Central Park. Deteniamo un culto segreto per le pietre italiane, che sono l’elemento primario dell’italianità. Abbiamo fatto il Seicento con il travertino dietro il Gianicolo. Il Duomo di Milano ha accentrato stratificazioni storiche sempre successive e, a ben vedere, sempre primarie. L’idea stessa di una storicità che si annulla a priori, continuando così a esistere, in quanto l’annullarsi è pur sempre esistere, è una delle cifre del diorama italiano, cioè umano, poiché l’umano ha deciso che la forma imperiale e castale inventata in quel di Roma fosse la matrice vivibile della specie a occidente e, quindi, anche a oriente, dove prontamente si è riversata: ci ha impiegato due millenni a riversarsi, ma ce l’ha fatta. Non sono le strutture teocratiche egizie o le complesse architetture della civiltà mandarina ad avere trionfato: è l’imperialità italiana, postuma a un consolato, postumo a una repubblica, postuma a un regno, postumo a una fondazione ignota – questo ha trionfato. Ora, nel tempo in cui è vanificata la nominazione dell’azione esercitata dalle schiere italiote, brizzolate o meno, comunque tutte semimmerse in una realtà per nulla aumentata, bensì diminuita nemmeno ad arte, io dico con il poeta: “Schifo, sii netto”. E questa è metà di me. Custodisco del tutto innaturalmente un’antropologia nel mio profondo, e dico innaturalmente poiché si tratta di un elemento culturale, che si svela via via come preterculturale, indifferente rispetto a ciò che chiamiamo: natura. Ci siamo eretti culturalmente, abbiamo invaso il pianeta, creando la broda primordiale che permettesse allo strumento di manifestare la sua vita, prima silente, poi progressivamente sempre più manifesta. L’Italia, e non sembrerebbe credibile, è la patria dell’accelerazione. Lo è in modo accelerato: non c’è Trump che tenga un ventennio di Berlusconi, non c’è comunismo che regga oltre la fine come quello italiano, non c’è un sentimento tanto disilluso rispetto alla forma statale e tanto razzista e fascista rispetto alle altre “etnie”, non c’è una lingua tanto persistente e tanto fondata da un’opera letteraria, non c’è un fantasma tanto eterno quanto l’italiano. Il tecnologico all’americana è l’uomo bicentenario? L’Italia ha già prodotto a priori l’uomo bimillenario; e, azzardo, anche trimillenario, quadrimillenario: eterno, di quell’eternità che è assoluta fino alla fine, quando ci si scorda che non era assoluta, poiché si trapassa, e si scopre un multiverso onirico, che sarà del tutto italiano. Quella realtà autenticamente aumentata preme ovunque, qui e ora, sempre qui e sempre ora: è l’italianità delle pietre e dei ludi, l’infinito flash-mob inaugurato dalla distruzione di una statua colossale intitolata a un imperatore, per sostituirlo col primo schermo occidentale, cioè l’arena. Noi, i coetanei a noi stessi, approfittiamo macrofagi di questa indeterminata putrescenza, vividissima e sfiancata ab origine, e ci trasciniamo con un insegnamento che la storia ha impartito alla subcorticalità italiana, più lenta e veloce dell’egizia, della cinese, della vaticana, la quale sarebbe italiana tra l’altro: la nostra strategia di insetti è molecolare e gigantesca: siamo la stella nana in collisione tra materia e no, in contatto con altro dalla materia, che abbiamo chiamato: spirito, indifferenza: inizio e fine, indelebilmente, finché ci sarà uno sguardo carnale che osserva le pietre e medita vuotamente, stando incantato nello scazzo italiano, la declinazione che abbiamo conferito alla nostra immortalità.

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