Non mettevo piede al Museo di Storia Naturale di Milano da quando ero giovane. Ci sono stato ieri. Fa schifo. E’ esattamente quanto si evince dalla vicenda italiana e, se si vuole, occidentale negli ultimi decenni: è andato tutto a farsi benedire. Sarebbe un luogo di mistero e di incantamento e diviene la preconizzazione della realtà diminuita. Salta il legame causa ed effetto, che andrebbe sì trasceso, ma per trascenderlo dovresti viverlo e comprenderlo. Si misura, in questa specie di playmobil a uso di imbecilli, la nichilistizzazione in luogo dello stupore, la piccola moda predigitale che anticipa la deriva delle ricerche scolastiche fatte utilizzando le schede wikipediane, l’assenza totale dello stile e della letteratura, la voga cattolica dei preti in blue jeans, l’ipocrisia dei genitori che facevano finta di non sapere che i figli già scopavano e quella dei figli che facevano finta di non sapere che i genitori scopavano. Si assiste all’assoluta assenza di assoluto. Non esiste nessun luogo più metafisico del museo, per una civiltà secolare. Ci sarebbe il tempio, ma nessuno fa più templi, al limite fanno i posti di commemorazione, con quel gusto lugubre fatto di colore viola e piccole luci discrete e crocifissi laici, a cui hanno appeso l’uomo qualunque in vece del corpus domini. Nell’aberrazione totale, che definisce un tipo umano ben distante da quello che per migliaia di anni ha fatto da saprofita al pianeta, si notava come, negli stupendi diorami che un tempo stordivano e oggi non ispirano più i figli dell’uomo, ai piedi degli elefanti, congelati nell’attimo fatale ed eterno di una vita finzionale resa immota per abolizione del tempo, i curatori avessero posto degli animalini in vetro di Murano, come neanche tra i negozietti della via principale a Sansepolcro o a Garbagnate, dove si vendono velleitariamente i brand più alla moda a New York, quando oramai chiunque se li compera su Amazon. Che la grande illusione diventi il piccolo illusionismo era prevedibile, ma concede comunque una fitta viscerale all’osservatore che scruta e desume come sia crollato non solo un secolo, non soltanto due o tre secoli, ma quattro millenni. Del resto, sui quotidiani del giorno che era ieri, si leggevano le solite bituminazioni, tra le quali uno slogan demenziale per l’ultimo libro del giornalista tv: “Quando la storia anticipa il presente”. Fa tutto un po’ schifo, ma senza drammi, ovviamente. Nella seconda sala del Museo, infatti, in vetrina ci sta un rotolo di carta igienica, a dire che consumiamo troppa cellulosa e si inquina il pianeta. Lo pterodattilo è messo che manco lo vedi. Al triceratopo è impossibile girare attorno. Le ossa sono posizionate per non stupire. Gli scheletri non fanno paura. Tutto pronuncia la formula: “non più”. Si è del resto già visto Ben Stiller fare il custode in un museo consimile americano, in un film orrendamente prefigurativo delle stato delle cose, del presente e della storia che lo anticipa: l’attore è un coglioncello che deve essere serio e lavorare per impressionare il figlio dopo la separazione e allora vive la grande avventura e un complotto 5 Stelle all’interno di un museo, di storia, naturale. La bassa intensità a cui hanno costretto il popolo occidentale, che da par suo ha risposto fottendosene dello stato dei salari ed elaborando un inveramento paradossale de “Futuro zero” punk, asserendo pubblicamente e con stolida continuità che per “i giovani” “non c’è futuro” – questo ammanco di vita vivente, questo trionfo della morte in vita, questa danza macabra che non ha nulla del tip tap o del flamenco: tutto ciò è la norma, a cui i trentenni attuali non hanno derogato, che i ventenni attuali non si immaginano nemmeno esistere e tantomeno se lo immaginano gli attuali decenni. Detto che c’è da prendere a calci nelle terga, e puntalmente, qualunque allestitore che abbia immaginato uno scempio del genere, si deve aggiungere che andrebbe preso a colpi di machete qualunque responsabile dello scempio sociale e intercontinentale. Nessuno lo farà, tuttavia. Sono finiti i tempi in cui. Vige il tempo del non più. Ci si trascina, bovinidi, davanti alla ricostruzione del prebovinide. Il diorama, come spesso si è qui annotato, è dinamico ed esterno alla vetrina, indifferente a tutto e primariamente a se stesso.