E’ diventata “virale” la fotografia degli interpreti di Starsky & Hutch, uno in carrozzina, inabile a camminare, l’altro lo spinge. La tenerezza degli anziani!, degli amici!, l’amicizia tra divi!, la nostalgia di un tempo trascorso!, il nostro immaginario che fu!, quanta malinconia nel ricordare l’emittente unica che era quella scatola, spesso Brionvega e Telefunken, quando non c’era la Rete! Era un mondo più calmo, ad altezza me stesso. Fruibile e alla mano, esso distava anni luce dalla decomposizione in vita delle carni, da quel gonfiore di ristagno sanguigno nelle caviglie macerate del biondino, oggi ridotto a una ritenzione da leone spiaggiato, da diabetico all’ultimo stadio, irriconoscibile il pigmento della capigliatura, un tempo sbarazzina e tirabaci… Il suo giubbotto in pelle si è scamosciato nel corso di quarant’anni. Il suo sguardo è ancora assetato di se stesso, cioè di spettacolo, e infatti viene sospinto da paralitico verso una convention dedicata al duo, che si muoveva agilmente tra le strade californiane, a bordo di una Gran Torino, un’auto mitologica e sfruttata per imporla all’intelletto generale. Più radi i ricci del più ulisseo della coppia, lo sguardo ancora sveglio, nonostante la sfinitezza che comunica l’occasione della reunion: gli attori impelagati, pasticciati con il loro ruolo, il successo ottenuto una volta per sempre, le vicissitudini nascoste dall’esecuzione del copione, le persone annullate dai personaggi e riportate a cruda semivita dall’orrore imposto dal tempo che passa. Questa implacabilità è consona ai tempi che viviamo, il cui significato risiede, per una buona metà, dal rimpianto di epoche decennali oramai inesplicabili a chi è nato a contatto col digitale, col brand new di un tempo che sembra definitivo, perché ci pone fuori dalla storia pesante e oppone alla Gran Torino le Smart del car-sharing. Fa tutto molta tenerezza e molto schifo, queste sagome potrebbero essere reinterpretate da un Durer contemporaneo o tornare a riapparire sulle pagine di un “Cioè” riattato all’epoca social. Ecco una verità del testo, che oggi è così secondario, così minoritario, così trascurato: la lingua che passa ci consegna un oggetto che non passa e il cui avvizzimento non ha alcun rapporto con le spoglie mortali di Gadda o Pasolini. La malattia della memoria, questo conato compulsivo al ricordo, che dovrebbe determinare un’identità, trova oggi un farmaco che aggrava la condizione generale del paziente e i cui effetti collaterali sono molto potenti: la storia è passata, si ha la sensazione che non siano passate una storia o molte storie, ma addirittura l’atteggiamento generico nei confronti della Storia. Testimonial di questo fatale trascorrimento, che è un passaggio verso un’epoca che inaugura una nuova serie di epoche, imparagonabili a ciò che fu nelle civiltà contadina industriale e terziaria, le due figure incerte degli umani masticati da tempo e spettacolo, si avanzano coetanei a me, nonostante vantino tre decenni più della mia anagrafe. E’ questa la soglia del vivere nuovo, disabitati e disabitanti, è questa la fine ingloriosa ma “virale” della risorsa umana, che rimane risorsa si fa per dire ed è umana soltanto per gli acciacchi e le gravi patologie fatte oggetto di riprese fotovideo. Il tempo è pronto a uscire di scena, la prossima grammatica sarà dilazionare la morte, ovvero l’autentica verità dello spettacolo: dilazionava la morte. Tempo e spettacolo sono qui e ora unificati. A tutti molce il cuore la visione di se stessi in una natura, se non morta, morente. Ci si prepari: sta andando a scadenza anche questa mozione di affetti, verrà toccata la biologia e le chemioterapie saranno sempre più dolci ed efficaci, per indurci a visioni e sentimenti distanti da quelli che sperimentammo noi, l’ultima generazione a morire precocemente.