di GIUSEPPE GENNA | da Nuovi Argomenti, n° 61/2013, “Supernova”
Vado a un luogo che non posso rivelare.
Il tempo che resta per andare al luogo segreto e finale è minimo e congestionato nello spazio da migliaia di veicoli che intasano le circonvallazioni e il cielo tuona e crepita una minaccia vuota di pioggia inacidita e letale solamente per me, me e il mio veicolo a due ruote, e che gracchia, arranca, si era rotto ed è stato riparato male, manca tempo pochissimo e non è assicurato che io arrivi al luogo fatale, dove accadrà l’imprevedibile e orrendo, laddove la fine è imprevedibile e orrenda per la comunità tutta.
Parto in un ritardo sospetto, gracchia il motorino mentre un fulmine silenzioso crepa l’impiantito di nuvoli grigioviola sulla città, nel centro mi pare, silenzioso e poi il rombare del fulmine stesso rotola immenso a distanza di un minuto quasi dall’apparizione del fulmine stesso, quando ho oramai raggiunto la circonvallazione interna, le macchine sono bloccate, file immobili spesse a tre colonne di carrozzerie che scottano nonostante minacci un diluvio, scottate dal sole ore prima per ore e ore, immobili le vetture perché la città è spaccata dal percorso del Papa che arriva, sta arrivando, verrà dall’aeroporto alla cattedrale facendo Forlanini e quindi XXII Marzo, così ha paralizzato la città intera e chiunque pare un manichino da crash test BMW dentro l’abitacolo, mentre io sguscio come un rettile secco ma agile tra le pieghe della coda delle macchine, musi di ferraglia rovente e scarichi che assalgono le narici con il puzzo di idrocarburi e fetori ammoniacali, scavo un percorso per arrivare a consumare il tempo che resta, svelare la fine che mi attende e non la conosco, là, nel posto segreto che esiste e di cui qui sono costretto, io, a omettere particolari e locazione, prima che la tragedia avvenga: è un luogo dove la tragedia perennemente è in atto, sta nell’altra parte della città, si impiega molto tempo e non ne resta a sufficienza, la puntualità sovverte l’ordine che è il proprio scheletro e si affloscia su se stessa, ogni riferimento al tempo è liquido mentre lo spazio si è irrigidito, la città è un tappeto di ferraglia immobile al passaggio di quel Papa, l’ultimo Papa, che a me pare abortito dalla Madre delle madri, pare ingenerato, una vescicola di staminali bianche, meccanicamente tese a raggiungere l’ovulo cattedratico.
Vado.
“Ultimo di tutti, simile a un aborto, apparve a me”. (1)
Corro e penso al cavallo disteso inginocchiato carbonizzato, morto. Nel Grossetano, questa calura e piromani agendo indisturbati, un incendio ha cancellato un maneggio e sono rimaste, fumanti, brucianti, in piedi poche rovine, tra le quali i corpi di alcuni dei sedici cavalli ospitati, distesi neri, con la spuma bianca antincendio che pareva bava di sudore asciugatosi, uno dei cavalli invece come un bonzo suicida birmano o tibetano a Lhasa, magnifico, inginocchiato, i garretti sotto la pancia molle, i muscoli tesi nel dolore, nessuno scheletro ma ancora carne grigliata attaccata alle ossa, era rimasta lì la carne, attaccata alle ossa, morto e risorto in altra forma, buia, oscura, gli occhi infossati perché la sostanza vitrea era soffritta ed evaporata e i nervi si erano disciolti in una sostanza simile a cerume, la forma nobile del cavallo rimasto tra le rovine testimoniando che oltre la fine deve ancora finire.
Corro con il motorino di traverso una Subaru e una Yaris e penso al cavallo morto assiso, Bellerofonte avvocato in Kafka, che racconta del cavallo di Alessandro Magno che secoli e secoli dopo le grandi imprese verso l’Indo si trova poco a suo agio e l’ordine degli avvocati praghesi assume una decisione sensata ammettendolo ai tribunali e allo studio degli antichi codici, consumato la notte sotto lucerne speciali, gli zoccoli che rimbombano sulle scalinate interne del tribunale.
E penso che io sono finito, tutto, quando pochi mesi oramai trascorsi sono morto secondi e secondi, prima che da solo mi rianimassi tornando alla vita manifesta, per una caduta dalla moto provocata da chi mi aveva travolto alle spalle, colpendo la ruota posteriore e scagliandomi sull’asfalto, nuovamente, e morendo non avevo avvertito niente.
Non era vero che avevo avvertito il niente: non esiste ‘niente’.
Non è vero che per secondi e secondi non ero stato, in quanto morto: ero, ma non ero lì e ora dove erano loro a misurare nell’interno dell’ambulanza con i vetri zigrinati e la bombola di ossigeno di emergenza e le fantasie spettrali escrete dagli specchi dei loro neuroni, quelle fumarole multicolori con cui danno sagoma a fasci di luce oltrelettrica che è la potenza e la forma increata dell’idea allo stato nascituro.
Io ero qui e ora dove non sentivo il qualcosa.
E nel frattempo il corpo si gonfiava, diventava livido. Il volto, defigurato a sufficienza, con il labbro, l’inferiore, lacerocontuso che maturava come una prugna dai misteriosi succhi interni, la ferita che aveva tagliato la palpebra, la sinistra, gocciava mentre l’ematoma saliva di grado, la guancia si spaccava come un melone rotto dagli zuccheri fermentati.
Spargevano cloro bianco intorno a me, pensando questo.
Poi, rientrata la consapevolezza nel mio corpo sfigurato, io chiesi forse di mia sorella, rinvenendo acuto come non mai, ed euforico, e dopo sette mesi il cavallo morì carbonizzato con la dignità.
Quindi senza timore, soltanto temendo la pioggia, io corro a bordo del motorino che era incidentato, corro verso il luogo segreto che non posso confessare, corro e mi fermo alla barriera delle autorità che fa cordone al percorso papale ed ecco l’auto procedere lenta, una berlina vaticana, il tempo che inizia a insistere nelle cellule nervose di quel corpo svuotato e bianco a bordo della berlina forse Cadillac bianca e gialla, eccolo dunque, il vicario che siede in sostituzione di Pietro e non del Cristo, la sede non è vacante fino a quando il camerlengo non batterà il martelletto sulla fronte del cadavere papale, dichiarandone effettivo il decesso, eccolo che passa, nell’iracondia dei guidatori, a migliaia, bloccati dal tragitto curiale, tutti immobili nella caldana delle strutture protette degli abitacoli, per un tempo indefinito, a me resta tempo quanto?, eccolo che passa e allora io mi getto all’impazzata col motorino tra due agenti, avendo distaccato la targa della motorizzazione prima di partire, io, poiché sapevo che sarebbe servito non essere individuato, un veloce anonimato burocratico per arrivare in tempo al luogo del segreto inconfessabile, al luogo che sarà definitivo, animale.
Non resta più tempo, vedo la fine.
“Le vesti sacerdotali faranno le veci della qualità di sacerdote… Una semplice abluzione significherà purificazione… La specie sarà incapace di concepire nacite divine…” (2)
Le auto preposte a compiti di pubblica polizia sono incastrate oppure non badano neanche all’evoluzione istantanea e futura, impossibile quasi ad ammirarsi, quasi sembrasse non essere neanche stata, di un motorino che attraversa il corso distante oramai decine di metri dalla berlina pontificia, che sta saettando ora più veloce, secondo la valutazione di quali piani chissà di sicurezza, oltre il tribunale, mentre io ho trapassato piazza V Giornate e mi dirigo nel vuoto assoluto delle macchine, non passava nessuno essendo chiunque bloccato dall’ingredior papale, mentre dall’altro lato della strada, in direzione opposta, l’anguilla multicolore e polverosa delle auto sembra tramortita, morta forse, qualche scossa elettrica, tra i fumi azzurrini quando crepita nel cielo una scarica ulteriore bianca in luce e nervosa come una sinapsi in un universo isolato e stantio.
Corro, vado.
Ho visto crollare, torri, avete fatto capitolare corpi, creature, edifici, capitali. Avete lordato di sozzure livide questa bolla di tempo sudato in cui verso esanime, solissimo, senza parlare da giorni e giorni, estiva, tutti.
Siete colpevoli di un infarto terrestre, di un ictus dei cieli, avete inviato un robot che si chiama Curiosità sopra il pianeta rosso, per comprendere se eravate già stati là, se là una specie rinnovata potrà concepire nascite divine.
Avete defenestrato l’amore e il pudore, intronato la falsità e la ricchezza, imburrato i pani avvelenati del dolore e della stanchezza, defunti maestri di esseri umani ora in forma di luce blu e creola, spettri indemoniati a cui non manca la carne viva per agganciare la propria filariosi spirituale.
Avete fatto della vita qualcosa di terribile, disseccando la terra, incendiando le vostre cupole, le frasche, ammorbando le crode.
In una campagna riarsa ho visto io stesso la terra spaccata in larghe ferite zigzaganti, sotto una cappa di calura che costringeva un ronzio continuo alla vita attorno, la vegetazione ridotta a foglie di tabacco per pipa tzigana, ho visto la terra vomitare dai suoi crepacci legioni di insetti forbici e cimici, i pappataci si innalzavano a nugoli mentre le macchine dell’uomo arrugginivano immobili nei boschi in cui veniva appiccato il fuoco, le biomasse mandate a marcire, piantagioni di mais disseccate con i contadini a faticare per un raccolto da gettare nei fuochi in mezzo ai campi, falò che illuminavano le notti testimoni le stelle polverose di questa galassia di latte.
Orrendamente mutilato un contadino venne su dallo sterrato di Monserrato, il falcetto e le grandi tenaglie ancora gocciavano il sangue caldo della moglie che aveva decapitato, gracchiava “Sono i segni! I segni della fine!”, senza disperazione, constatando, la moglie che per l’Alzheimer lo scambiava da anni ogni giorno ogni ora per il figlio che gli era morto tra i denti del trattore a pochi giorni dalla festa di nozze anni prima, nel campo, rovesciandosi avanti, forse una trebbiatrice.
E io nell’ambulanza tra i vetri zigrinati ero finito, mi si formava forse nella testa, sulla superficie del cervello grigia, una macchia rossastra di ematoma e quando rinvenni sperimentavo la resistenza zincata dell’amnesia, una zona interiore inassaltabile, una macchia di nerissima perfezione, affrontandola si conviene di ottenere il privilegio di stare senza pensare, si è respinti in questa macchia nera perfettissima, il tempo si è costretto in una cavea fattasi pozzo e poi chiusosi in superficie, spento, decuplicato nelle sue fantasmagorie sotterranee – l’amnesia di cui siamo fatti se solo chiediamo di noi stessi a noi stessi. Ed ero immobile nel trauma cranico, la terra allora era innevata, una ghiacciaia la campagna verso Monserrato.
Ed ero giunto alla fine, sono alla fine giunto qui, a dirlo, il dolore, che è la fine a imporre, qualunque fine esige il suo prezzo di lutto, lo spregio che il mondo di amnesia commina a tutti noi, animali verticali, carnosi, oramai insenzienti…
“Nelle Locuzioni e Questioni sull’Ettateuco, Agostino coglie un centro paradossale, quando indica nella parola dell’ultimo testimone (e della parola di Dio come testimone), l’impossibilità della traduzione per l’uomo: “I profeti dicono le cose che hanno inteso dalla bocca di Dio, e un profeta di Dio non è altro che il portavoce di Dio agli uomini che non sono degni di udire Dio, o che non possono comprenderlo”. Il profeta è pertanto l’autistico depositario terreno della verità divina, non è possibile tradurre la lingua di Dio. Apocalisse, in quanto rivelazione divina, è pertanto la balenante immagine di un mosaico in macerie…” (3)
Tra le macerie sfreccio ora nel centro direzionale in costruzione: cave sotterranee enormi, piramidali al contrario, dove ordiscono la trama dei piloni di acciaio e titanio per erigere altissimi i nuovi grattacieli stellari della città che sale, un osso, un’animale privo di anima, Prometeo che si fonde con la roccia scitica a cui è incatenato alle spalle sue, alti e larghi specchianti il cielo aggrottato di questa vigilia della fine, mentre nella corsa del motorino mangio aria e polvere di scavo e tutto il tempo che resta per arrivare in tempo al luogo che mi è impossibile rivelare, segretissimo.
Costruendo, creano macerie.
All’inizio il panorama è finale.
Immaginare i laghi sulfurei, le pozze di broda metafisica, fumante, iniziale.
Chi del resto oggi, in istato finale, come anticipano i Purāṇa, non fu molto posseduto dalla morte? Sotto la pelle vide sempre il cranio e sottoterra creature scarne, arrovesciate in un ghigno prive di labbra. Sostituti dei globi oculari, bulbi di narciso fisserebbero dalle orbite!
Sapeva, l’uomo, che il pensiero si ravvinghia a membra morte serrando ogni sua brama e ogni lussuria? Si sono ridotti a questo, del resto: non riescono a sostituire il senso e quindi si danno a afferrare, adunghiare e penetrare, ravvedendo anche più in là dell’esperienza fino a incappare nella più indesiderabile, qui, tra le conoscenze: conoscere l’angoscia del midollo, la febbre di malaria dello scheletro, il lutto, nessun contatto carnale possibile a lenire la febbre delle ossa.
Il nuovo centro direzionale, e i suoi otto monoliti specchianti il sole opaco che rende morbosa in certi giorni questa città che percorro in un suo diametro completo, nella sua arborea oscurità emana un sentore felino che mi allarga le narici: è il giro del vento ingabbiato tra gli otto corpi innaturalmente eretti dalle fatiche dell’opera umana, questa potenza di termite ammirevole, sospinta dalla paura incessante della fine e della rivelazione delle cose.
Il mio destino si insinua tra costole aride del centro direzionale, che supero scorciando di traverso curve in tunnel imbiancati a nuovo, mentre i cartelli elettrici urlano le misure della mia velocità fuori quota come in Alphaville, e questo è il pegno che trattiene la città per mantenere calda la mia metafisica.
Ed ecco dove vado, ecco il luogo, infine: dove hanno confinato i pazzi che non sono stati liberati all’approvazione della Basaglia, poiché irrimediabilmente danneggiati, privi di parola e memoria e reazione o sembiante umano, le carte del loro confino perdute in incendi o traslochi dell’archivio, finiti nascosti, in un largo parco al cui centro è stata eretta abusiva una casupola, lontano dall’ex nosocomio psichiatrico.
La casa degli spiriti desolati, infernali.
E’ dato asilo presso il nosocomio psichiatrico cittadino in data a partire da oggi, 13 marzo c.a. [1923], in Milano, alla comunità dedicata alla memoria e all’opera dello psichiatra Elido Crisafulli, e dedita a consentire una degna sopravvivenza a sedici tra uomini e donne che di qui in poi chiameremo “cavalli”.
Detti cavalli sono scampati a un grave incendio, sviluppatosi nella palazzina XXVI, all’immediata destra della palazzina in cui si somministravano le terapie elettroconvulsivanti agli altri pazienti del nosocomio, guardando a nord. A codesti cavalli venivano somministrate purtuttavia se non terapie per vie di siringhe e iniezioni di princìpi salini e vitaminici, passando i loro corpi a contropelo con spugne imbevute di acqua salina e unificate nel principio elettrico che conosciamo abbassare i furori a una controllata e beante calma. Tali cavalli, incapaci di partecipare alle corse e ad altre competizioni avvezze alla loro specie, sono soliti dimorare in condizioni altrimenti pietose se non intervenisse l’intervento pietoso e competente di una squadra di operai dell’anima, veri angeli in questa nostra comunità tutta, che riescono a riportare i cavalli medesimi al trotto, pure a rischio che si spezzino e definitivamente – come ben sa chi è informato delle cose equine – le zampe di questi già così sfortunati esemplari, a detta degli esperti non recuperabili a marcia alcuna, elegante o meno, quindi privi di funzione per la comunità tutta.
Ecco dunque la casa dove si consumano dialoghi intraducibili tra pazienti che non patiscono ma vivono nell’allucinazione perenne e incontrollata, le pareti spruzzate dagli sputi delle minestre di verdure chiare e legumi, acquose e immangiabili, la televisione sempre accesa dietro una grata, sospesa nell’angolo superiore destro della parete nord nella stanza di ingresso, e gli otto operatori psichiatrici, alcuni di essi, di volta in volta a seconda dei turni diversi, che si occupano dei sedici corpi senzienti e insenzienti, invasi da ombre che spaventano Gog e Magog, queste babilonie umane da nettàre perché manipolano gli escrementi, si lanciano ciecamente a faccia aperta contro i muri stampigliando morule di sangue rappreso e mai più cancellato.
Era questo il luogo finale, il luogo dei folli che nessuno reclama più.
Di inverno, anni orsono, scappando è fuoriuscito l’uomo, il paziente 6 si sarebbe detto rispettando ordinamenti antichi, quello con la vena che attraversa l’occipite pulsando, nodosa, spesso spezzandosi per vomitare sangue bluastro a coaguli, è uscito nudo cagando mentre tentava una corsa, cadendo in avanti e avanzando a quattro zampe come i nostri antenati a noi superiori in nulla, finché un albero, si è abbattuto contro un albero, volendolo, cercando di spezzare il proprio occipite, per porre fine a questo universo ottagonale in cui è gettato, due sale contentive e molte emorragie fa.
Sono incapaci di vivere, ma sono in vita, poiché è vita questa testa infiorata di visioni abissali e gorgoglii da palato infartuato e caduto, collassato sulla lingua sommersa dalla palta gastrica per gli antipsicotici inutili, mentre l’agnosia è totale e impedisce di vedere poiché non si riconosce la sagoma appena scorta e individuata, la si vede distorta, una cresta infiorata di occhi di agnello che sputa vomito e fuoco e abisso e abisso e abisso…
Questo luogo dove li mantengono protetti, preservandoli da una realtà più infernale di quella che percepiscono: io finisco qui, insieme con loro.
Con la loro collera, la loro visione ultima della collera, della sofferenza che viene dopo questa sofferenza presente e tetragona, bipede e malsicura, pontificale.
E però resta tempo, ancora un poco, minuti ancora, forse, poco più…
“Non per mezzo loro e non da loro sono state seminate queste sementi (parla degli apostoli). Coloro che hanno faticato sono gli angeli dell’economia, per la mediazione dei quali le sementi sono state seminate e fatte crescere.
Voi siete entrati nella loro fatica”. (4)
“Ma l’apostolo deve essere distinto anche da un’altra figura, con la quale viene spesso confuso, esattamente come il tempo messianico è confuso con quello escatologico. Non la profezia, che si rivolge al futuro, ma l’apocalissi, che contempla la fine del tempo, è il più insidioso fraintendimento dell’annuncio messianico. L’apocalittico si situa nell’ultimo giorno, nel giorno della collera: egli vede compiersi la fine e descrive ciò che vede”. (5)
Allora io sono davanti loro e servo loro, baciando loro il mangiare, la minestra opaca di orzo, acquosa. Vi bacio, l’uomo dalla testa enorme, la fronte sporgente, un’unica escrescenza frontale di carne spugnosa, molto derma prima di arrivare all’osso frontale, preso da agnosia assoluta, non mi riconosce dopo che sono uscito dal suo campo visivo, devo ripresentarmi se torno a essere visto da lui, ma mi scordo e lui mi sferra un pugno e svengo, è il trauma cranico, la dolce serena amnesia che mi accoglie sempre, dovunque.
Camminando, di momento in momento, tra un momento e il momento successivo è: questa amnesia.
Dolce e notturna, da nulla preoccupata e in sé soddisfatta per la dolcezza, da cui emerge lentamente una macchia e poi la fenditura e quindi le figure e poi dunque la carne e i mondi pluriottagonali in cui siamo reclusi per dimenticanza della stessa, dico l’amnesia, dolcissima di pace, sostanza su cui tutto poggia non poggiando poiché altro non è, non è, è soltanto questo silenzio e poi i sogni di daghe, foreste pluviali, anonimati intrecciati, amori consunti, brecce nelle assi di legno salmastro, la mantide con la foglia.
Così ero, fui, sono e sarò stato, una
Immagine ferma:
Canopo rituale di Etruria,
Assiso su trono in bronzo ossidato
ossuario in pietra fetida,
rinvenuto a podere di villa in Dolciano,
ossuario rituale,
palpebre chiuse,
non adorno di orecchini aurei incoerenti
sepolto secoli
provenendo dal fuoco fino alla luce riportato con orgoglio della comunità tutta.
Se voi seguiste le parabole, diverreste voi stessi parabole.
Note
1. I Ep. Cor. 15, 8 [traduzione rivisitata]
2. Viṣṇu Purāṇa 4, 24
3. Neil Novello in AAVV, Apocalisse. Modernità e fine del mondo, Liguori
4. Origene, Commento a Giovanni XIII 50 [Ev. Io. 4, 38]
5. Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla “Lettera ai Romani”, Bollati Boringhieri