Buon compleanno al papà che non c’è più

Oggi il mio papà avrebbe compiuto 79 anni. Era un uomo specifico: era un uomo comune. Si imponeva, nei tempi che visse insieme a tanti altri, un prussianesimo della norma civile e identitaria, insieme con la vocazione a eludere l’interesse singolo, spalancando la possibilità che l’interesse fosse comune. Questo Anchise di nessun Enea mostrava una renitenza alla speculazione morale, pari soltanto all’importanza percepita della speculazione filosofica. Nel passato chiunque risulta filosoficamente più rilevante, di quanto fosse nella realtà ordinaria. Certa saggezza era uno sperpero di coincidenze, di neurosi più o meno identificate, di fraternità stolide, di tradimenti perspicaci e di lividure esistenziali. Il mio papà si centrava esattamente attraverso questa concentrazione topica e assoluta, su di sé e sugli altri. La traccia dell’inadeguatezza, un’ombra spirituale che fece il secolo borghese, colpiva per primi coloro che della borghesia erano le vittime predestinate, ovvero i proletari: e mio papà era un proletario. Le case in cui era cresciuto erano proletarie, i suoi genitori e i suoi fratelli erano proletari, i suoi vizi erano del tutto proletari. Fu un uomo specificato dall’appartenenza al proletariato, fino all’ultimo giorno, quello in cui fatalmente io non ci fui. Quando Troia fu in fiamme, Enea festeggiava sull’Ellesponto. Vide fuochi che scambiò per fatui, quando erano fatali. Il calice da sorbire non fu affatto zuccherino, per quest’uomo, il quale fece e fa e farà almeno metà della mia scrittura e del mio continuo spaesamento. L’adesione alla norma sociale era per lui rivoluzionaria: un paradosso che fatico a comprendere ancor oggi. Camminava in Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, sfoderando giacche color ruggine e cravatte annodate troppo. Ce lo si ricorda giocare una volta a pallone: come era inadatto alla minima mossa fisica, come si riassumeva tutto in un giro mentale che asfissiava le molecole, come calcolava politicamente la traiettoria del pallone Tango! Feci questo, un giorno di agosto, nel riverbero dell’asfalto, su cui si calcinavano le cacche di cane e le polveri fluorescenti allo zolfo per disinfettare la vita nella nostra contenzione: dissi che non andavo al cinema America con lui in via Tito Livio, ero un prefisso per un’angoscia maggiore – poi ci andai da solo, al cinema America, e lui mi vide per caso, uscivo dalla sala, avendogli negato la compagnia filiale. Il film era di pasquale Festa Campanile, “Bingo Bongo”, con Adriano Celentano. Volevo accoltellare il padre, volevo sterminarlo con l’arma dell’ansia e dell’immoralità, per restituire pienamente al mittente la maledizione della cura che mi veniva e non mi veniva comminata. Chi ti dà la vita deve imparare presto a convivere con un’ingratitudine onnipotente. Noi figlioletti siamo dotati di piccoli denti affilati e non ci risparmiamo il morso – siamo fragilissimi piranha, si sa. Un’altra volta rubai cinquantamila lire e diedi la colpa a lui. Lo osservavo più o meno inerte davanti allo schermo che faceva la tirannide del salotto, mentre le sagome dei giocatori juventini consentivano a me di formulare bispensieri e neolingue a profusione, costruendosi così un feticcio di comunicazione: che era poi un sostituto d’imposta dell’abbraccio che avrei voluto dargli e probabilmente lui a me. L’impossibilità di un gesto semplice e basilare, che crea la salute dimidiando il dolore, ce la siamo palleggiata come Zavarov e Rui Barros. Riconoscevo in lui certa cifra di Dino Zoff: quel pudore cuoiato e ligneo con cui zittiva la domanda stando in silenzio, quello sguardo acuminato verso la lontananza, certo furlanesimo, certo ritegno, una moralità edotta del mondo eppure stupita per troppa vecchiezza e non per naturale germoglio del giovane che si fa esperto. Il suo sguardo esoftalmico, i suoi denti in qualche modo malandati e perenni, il dissidio tra la secchezza della pelle e la cisti alla schieda che gli bruciarono quando io appresi a leggere sui giornaletti di Tex Willer, quell’incedere sempre sottotraccia, le mani conserte da qualche parte, in una postura mai orgogliosa, bensì umbratile fino all’autoflagellazione che dava energia a un’identità ferita – quella lacerazione della storia io me la porto dentro, in forma di funzionamento e approccio alla corrosiva scempiaggine che è il mondo. Gramsci come principio egoico non basta a trascinare esemplarmente l’animale vivo. C’era dello Spengler nel suo tramonto sempiterno. Sciacquare la mucosa con il liquido liquoroso era un’ulteriore abrasione delle difese, un’ebbrezza non piacevole, una vertigine orizzontale – in cui lui andava, caracollando un poco nel suo fisico minuto, così indifeso e bambino invecchiato sempre, così teneramente assiso su una sponda del fiume, in cui non passa un cadavere e, se passa, non lo si vede, poiché non ci si è seduti lì per prendersi una rivincità sulla terrestrità del male. Quanto vorrei scrivere all’infinito così, sempre così… Quanto ricordo custodisco senza pensarci, senza saperlo, sapendolo benissimo? Dove porrò il segno memorabile, dedicato a lui e alle mie care, ora che il libro è talmente spalancato, che non esistono più pagine? Cerco ancora l’abbraccio postumo, quando ne ho la possibilità qui e ora? No. E dunque buon compleanno, papà, che non smetti di esistere, poiché l’esistenza non smette mai di finire e l’Italia sei tu, questa forma di perennità e di pus, di amore e di alcol, di fumo di sigaretta stantio sul divano carta da zucchero, di fronte allo schermo cieco, buon compleanno…

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