Per il corso di scrittura: Oltre la fine: il “Gordon Pym” di Poe

[Se interessate interessati al corso di scrittura, che terrò presso la libreria Egea a Milano, da ottobre a dicembre, questo è il sito dedicato e qui sono reperibili moduli per info e iscrizioni. In questa sezione, tutti i materiali di riflessione proposti.]

Tempio letterario del fantastico, il “Gordon Pym” di Poe è un maelstrom che mira all’occhio gravitazionale interno: mira a sfondare, a ridurre allo zero polare tutto il racconto. La traversata marinaresca a cui si sottopone il protagonista viene distrutta con un duplice finale: un’esperienza dell’inoltramento inaudito, che ricorda l’agone problematico che Kafka affronta nel suo supremo romanzo “Amerika” – mentre il grande praghese risolve con l’esperienza metafisica del “Teatro di Oklahama”, il grande americano dipinge la dissoluzione, sempre secondo le tonalità del metafisico, andando a rovesciare tutto, dallo sguardo al clima alle apparizioni di non-personaggi, tra urla indecifrabili, che portano ben al di là della semplice onomatopea. L’avventura di Edgar Allan Pym è uno dei momenti di oltranza assoluta del letterario. Ecco l’ultimo capitolo del libro di Poe, a cui segue un ulteriore finale, qui non riportato, in forma di nota enigmistica, di decifrazione razionale dell’irrazionale… GG

L’ULTIMO CAPITOLO DE “LE AVVENTURE DI GORDON PYM”
di EDGAR ALLAN POE

Ci ritrovammo così nell’immenso e desolato Oceano Antartico, a oltre 84° di latitudine, a bordo di una fragile canoa e senza altre provviste che le tre tartarughe. Bisognava tenere presente che il lungo inverno polare non poteva essere tanto lontano, e riflettere bene sulla rotta da seguire. C’erano altre sei o sette isole nello stesso arcipelago, a cinque o sei leghe di distanza l’una dall’altra, ma su quelle terre non intendevamo affatto avventurarci. Arrivando da nord a bordo della Jane Guy, avevamo poco per volta lasciato alle nostre spalle le più rigide regioni glaciali; per quanto poco collimasse con le conoscenze più diffuse in materia di Antartico, questo era un dato di fatto che la nostra recente esperienza ci impediva di ignorare. Tentare di tornare indietro sarebbe dunque stata una follia, soprattutto a stagione già così inoltrata. Un’unica strada si apriva ancora alla speranza. Coraggiosamente, decidemmo di puntare verso sud, dove c’era almeno una probabilità di scoprire altre terre, e ben più d’una di incontrare un clima più mite. Finora avevamo potuto constatare che l’Antartico, come pure l’Oceano Artico, era stranamente immune da tempeste violente e da grosse mareggiate; ma siccome la nostra canoa, benché spaziosa, era di struttura alquanto fragile, ci ingegnammo di rafforzarla come meglio ce lo avrebbero consentito le limitate risorse a nostra disposizione. Lo scafo dell’imbarcazione era ricavato dalla corteccia di un albero sconosciuto e le costole da un vimine robusto, particolarmente adatto per l’uso al quale era destinato. Da poppa a prua misurava cinquanta piedi, di larghezza da quattro a sei e di profondità quattro e mezzo: una barca, dunque, di forma assai diversa da quelle di ogni altra popolazione dei mari del sud conosciuta alle nazioni civili. Sebbene queste imbarcazioni si trovassero in possesso dei primitivi abitanti di quelle isole, mai avremmo creduto che le avessero costruite loro; e infatti alcuni giorni dopo, rivolgendo delle domande al prigioniero, scoprimmo che in effetti erano state costruite dagli indigeni di un altro arcipelago, situato a sud-ovest dell’isola dove le avevamo trovate, e che soltanto per caso erano cadute nelle mani di quei barbari. Tuttavia ben poco potevamo fare per rinforzare l’imbarcazione. Scoprimmo diverse falle di una certa larghezza vicino alle due estremità e ci ingegnammo di turarle con qualche pezza strappata dai giubbotti di lana. Servendoci delle pagaie in eccesso, che erano persino troppe, erigemmo a prua una specie di armatura per frangere le onde che avessero minacciato di inondarci da quella parte. Le pale di altre due pagaie vennero utilizzate come alberi e appoggiate ai fianchi della canoa, una contro l’altra, in modo da poter fare a meno del pennone. A questi alberi legammo una vela ricavata dalle nostre camicie, la quale operazione presentò qualche difficoltà poiché non c’era verso di farci aiutare dal prigioniero, che pure aveva mostrato buona volontà nel partecipare a tutte le altre fatiche. La vista di quel tessuto sembrava avere su di lui un effetto estremamente singolare. Non riuscivamo a farglielo toccare né potemmo convincerlo ad avvicinarsi, e quando tentammo di forzarlo si mise a tremare e a urlare Tekeli-li! Terminati i preparativi per rinforzare la canoa puntammo in direzione sud-sudest, con l’intenzione di doppiare l’isola più meridionale di tutto l’arcipelago che avevamo dinnanzi. Poi volgemmo decisamente la prua a sud. Non si poteva certo dire che il tempo fosse cattivo. Da nord soffiava una brezza leggera e costante, il mare era liscio e la luce del giorno perpetua. Di ghiaccio non se ne vedeva affatto, e già da quando avevamo superato il parallelo dell’Isolotto di Bennett non ne avevo più avvistato un solo cristallo. In effetti la temperatura dell’acqua era troppo alta perché potesse formarsene. Dopo aver ucciso la più grande delle tartarughe, dalla quale oltre al cibo ricavammo anche un’abbondante scorta d’acqua, continuammo a mantenere la nostra rotta senza particolari incidenti, per sette o otto giorni, durante i quali probabilmente coprimmo una grande distanza in direzione sud, grazie al vento in poppa e a una corrente fortissima che ci spingeva, senza mai deviare, nella direzione voluta. 1 marzo. Molti strani fenomeni ci indicarono che stavamo entrando in una regione ricca di novità e di meraviglie. Un’alta barriera di vapori grigio chiari copriva senza interruzioni l’orizzonte a sud, innalzandosi a volte in strisce altissime che correvano da est a ovest o viceversa, e raccogliendosi poi ancora lungo una linea piatta e uniforme: presentava, insomma, tutte le variazioni imprevedibili dell’aurora boreale. Dalla nostra posizione l’altezza di questo vapore sembrava raggiungere in media i venticinque gradi. L’acqua, che sembrava sempre più calda, aveva subito una notevole alterazione nel colore. 2 marzo. Quel giorno, dopo aver interrogato più volte il prigioniero, venimmo a conoscenza di molti dettagli riguardanti l’isola dove si era consumato il massacro, i suoi abitanti e le loro usanze: ma come posso adesso trattenere il lettore con simili cose? Lasciatemi almeno dire che l’arcipelago era composto di otto isole, governate da un unico sovrano chiamato Tsalemon, o Psalemoun, il quale risiedeva su una delle isole più piccole; le pelli nere con cui si vestivano i guerrieri appartenevano a un animale di grandi dimensioni, che viveva unicamente in una valle vicina alla corte del re; gli abitanti dell’arcipelago non sapevano costruire altre imbarcazioni tranne le zattere piatte, e le quattro canoe, delle quali si erano impadroniti per puro caso in qualche grande isola a sud-ovest, erano le uniche in loro possesso; lui, il prigioniero, si chiamava Nu-Nu, e l’Isolotto di Bennett non lo conosceva affatto; l’isola dalla quale eravamo fuggiti si chiamava Tsalal. Pronunciava la prima sillaba delle parole Tsalemon e Tsalal emettendo un lungo sibilo che, nonostante i ripetuti tentativi, non ci riuscì di imitare, e che riproduceva esattamente il verso del tarabuso nero di cui ci eravamo nutriti in cima alla collina. 3 marzo. L’acqua, oltre ad avere ormai raggiunto una notevole temperatura, stava subendo rapide trasformazioni cromatiche: perduta la trasparenza, aveva assunto una tinta e una consistenza lattiginosa. Intorno a noi il mare di solito era calmo, o comunque mai tanto agitato da mettere in pericolo la canoa; spesso, però, con nostra sorpresa notavamo a destra e a sinistra, a distanze diverse, turbolenze improvvise ed estese che, come poi ci accorgemmo, venivano immancabilmente precedute da violenti guizzi di vapore che comparivano a sud. 4 marzo. Quel giorno, dato che la brezza da nord si era sensibilmente affievolita, estrassi dalla tasca del giaccone un fazzoletto bianco, che volevo utilizzare per aumentare la superficie della vela. Nu-Nu era seduto al mio fianco e quando il fazzoletto gli sfiorò per caso il viso, venne preso da un violento attacco di convulsioni. Rimase poi come istupidito e semiaddormentato, e mormorava sottovoce: «Tekeli-li! Tekeli-li!». 5 marzo. Il vento era cessato del tutto ma evidentemente stavamo ancora correndo verso sud, spinti da una forte corrente. A questo punto, dunque, sarebbe stato naturale allarmarsi per la piega che stavano prendendo gli eventi – invece la cosa neppure ci sfiorò. Peters, nonostante non lasciasse trapelare nulla, a volte assumeva un’espressione che non riuscivo a scandagliare. L’inverno polare si stava avvicinando, ma senza i consueti terrori. Provavo un senso di torpore fisico e mentale – quasi stessi vivendo un sogno – e questo era tutto. 6 marzo. Il vapore grigio si era ormai alzato di parecchi gradi sopra l’orizzonte e intanto perdeva gradualmente la tinta grigiastra. L’acqua era calda al punto che a toccarla ci si scottava, e di un colore sempre più lattiginoso. Quel giorno, proprio accanto alla canoa, si produsse in acqua una violenta turbolenza. Anche questa volta il fenomeno fu accompagnato da una incredibile eruzione di vapore alla sommità della cortina e da una momentanea spaccatura lungo la base. Una polvere bianca, finissima, simile a cenere ma certamente non tale, cadde sulla canoa e su un vasto tratto di mare tutt’intorno, mentre gli spruzzi sparivano in mezzo al vapore e il mare si richiudeva su quel turbinio. Nu-Nu allora si gettò prono sul fondo della canoa, e non ci fu verso di convincerlo a rialzarsi. 7 marzo. Quel giorno interrogammo Nu-Nu riguardo ai motivi che avevano spinto la sua gente a eliminare i nostri compagni, ma era in preda a un terrore tale da non poterci dare risposte coerenti. Si ostinava a restare disteso sul fondo della canoa e quando gli ripetemmo le domande sui motivi del loro agire si limitò a compiere dei gesti insensati, sollevando ad esempio il labbro superiore con l’indice e mostrando i denti. Erano neri. Mai fino ad allora avevamo visto i denti di un abitante di Tsalal. 8 marzo. Quel giorno l’acqua trasportò vicino a noi un animale bianco, come quello che, comparso sulla spiaggia di Tsalal, aveva causato un incredibile tumulto tra i selvaggi. Avrei potuto catturarlo, ma fui colto da un’improvvisa indifferenza che me lo impedì. L’acqua era salita ancora di temperatura, tanto che ormai immergerci la mano era impossibile. Peters parlava poco e della sua apatia non sapevo che pensare. NuNu respirava e nulla più. 9 marzo. La sostanza bianca e cinerea ci pioveva addosso copiosa. A sud, la cortina di vapore si era come per incanto levata sull’orizzonte e cominciava ad assumere una forma più distinta. Non saprei a che cosa paragonarla se non a una cataratta senza fine che silenziosamente precipiti in mare da un immenso e lontano monte del cielo. A sud questo sipario gigantesco chiudeva l’orizzonte in tutta la sua estensione, ma da esso non proveniva alcun suono. 21 marzo. Un’oscurità sinistra si distese su di noi, eppure dalle lattee profondità dell’oceano si levava un bagliore di luce che veniva a lambire i fianchi dell’imbarcazione. Eravamo quasi sopraffatti dalla pioggia bianca e cinerea che si abbatteva su di noi e sulla canoa, sciogliendosi però al contatto con l’acqua. La sommità della cataratta si perdeva confusa in lontananza, sebbene le stessimo evidentemente andando incontro a folle velocità. A tratti vi scorgevamo ampie e repentine incrinature al cui interno regnava una confusione di immagini fluttuanti e indistinte, dalle quali scaturivano venti forti, possenti ma silenziosi, che nel loro corso squarciavano il mare ardente. 22 marzo. L’oscurità era diventata ancora più fitta, alleviata soltanto dal bagliore dell’acqua che rifletteva il sipario bianco calato davanti a noi. Uccelli giganteschi, d’un bianco livore, sbucavano incessanti da dietro al velo, urlando l’eterno Tekeli-li! e sottraendosi alla nostra vista. A questo punto Nu-Nu, sul fondo dell’imbarcazione, si scosse, ma toccandolo ci accorgemmo che aveva reso l’anima. Stavamo ormai per precipitare nell’abbraccio della cataratta, dove un abisso si spalancò per accoglierci. Ma ecco levarsi sul nostro cammino una figura umana velata, di proporzioni ben più vaste di qualsiasi essere umano. E il colore della pelle della figura era del bianco assoluto della neve.

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