“SANPA”, la serie memorabile

C’è una serie su Netflix, che compensa anni di produzioni italiane, con la loro enfasi da mainstream e quella retorica orrenda, schierata contro l’immaginario e tutta a favore di una finzionalità tipica di una nazione che se ne è strafregata dell’immaginario e dei suoi rigori. I rigori dell’immaginario: la serietà del lavoro giornalistico, anzitutto, e la capacità di inabissarsi nell’ambiguità, cercando il verbo e la storia di un tempo. “Sanpa”, serie sulla vicenda di Muccioli e San Patrignano, è stata ideata, realizzata e prodotta da una persona speciale, per quanto concerne la mia vita, che è Gianluca Neri. Insieme a lui, a scrivere questo documentario seriale, che è un capolavoro autentico, un’altra persona che stimo tantissimo, Carlo Gabardini. Prima di affrontare “Sanpa” per ciò che è e che ha fatto sorgere in me, mi consento due parole sul creatore, Gianluca Neri, appunto. Ho avuto l’onore di conoscerlo e di lavorare insieme a lui a Clarence, portale satirico politico culturale etc., una delle sue creature, sempre sorprendenti, spiazzanti e capaci di accendersi un fulgore e una memorabilità, di stampo assai diverso dai fulgori e dalle memorie tipicamente italiani. Da quegli ultimi anni Novanta, in cui si lavorò con una crew eccezionale, ai primordi della Rete, Gianluca è andato avanti facendo davvero la storia della Rete stessa, attraverso intuizioni progredienti firmate Macchianera, il suo blog e brand, dalla Festa della Rete fino al travaso di oggi, in un àmbito che si direbbe proibitivo: la produzione seriale su Netflix (“Sanpa” è la prima docuserie italiana prodotta dalla piattaforma al momento dominante). Nelle secche per nulla immaginifiche dell’elaborazione culturale in questo Paese, Gianluca si inserisce sempre con un passo e una direzione per me stupefacenti: taglia obliquamente, garantendosi una zona non toccata da altri, e al contempo si muove frontalmente in direzione di quella zona vergine, con una completezza esaustiva (è un procedere ossessivo e compulsivo, in realtà: la benzina della personalità che crea il nuovo) e un’inventività assoluta, finché il territorio è esplorato, passando dunque a identificare un’altra area da mappare e abitare. Fa così nei decenni. E’ arrivato a svelare l’identità del killer militare Usa a cui si deve la morte del povero Calipari, in questo modo. Entra ed esce, si muove a zig zag, intende comunque e sempre rispondere a quesiti etici e proprio questo interrogarsi sul filo della morale e dell’ambiguità permette di vederne in risalto il profilo, l’azione, l’invenzione. Tutto ciò che Gianluca Neri ha fatto esercita un dominio di ordine intellettuale proprio per questo motivo: c’è una formulazione di domande profonde dal punto di vista morale, il che costituisce un nucleo pesante alla produzione apparentemente più leggera. Non ho mai conosciuto in tutta la mia vita una persona che, come Gianluca, sia in grado di immaginare oniricamente e lavorare il sogno realisticamente, portandolo a compimento. E’ per me un unicum, affettivo, conoscitivo, protettivo. Tutte le volte che rimango senza lavoro, ricorro sempre a questo passaggio: vado a parlare con lui, sono disperatissimo sempre, lui mi accoglie con una positività fattiva, io mi tranquillizzo. Quanto alla questione professionale, il mio costante desiderio è tornare a lavorare con lui, che mi ha garantito gli anni più felici della mestieranza – un mix non casuale di risate, passioni, scientificità, invenzione sfrenata e, tipica cifra sua, libertà incondizionata. Ora vengo ad affrontare “Sanpa”, scusandomi per la lunghezza di una testimonianza che, negli anni, mi matura dentro. Veniamo dunque alla serie.”Sanpa” è tutta la storia dell’Italia, che soltanto un prodotto non italiano poteva identificare, prendere d’infilata, raggrumare in un evento che al contempo è significativo in sé ed emblematico di un tutto, il quale tutto è la nazione e la sua vicenda. Tale cifra esotica e straniera non è un’esclusiva di questa produzione, ovviamente. “Veleno”, la serie podcast firmata da Pablo Trincia, ne è un altro esempio. Resta il fatto che la verità più scottante, diciamo il motore di produzioni come “Sanpa”, anche se ciò può sembrare eccessivo, mentre non lo è affatto, risiede in un sentimento della storia nazionale. Soltanto avendo compreso che la nostra vicenda esula dal carattere nazionale e propone eccezionalità e singolarità a iosa, si può approdare a un racconto tanto universale e specifico, tanto profondo e sconvolgente. Il mostro di Firenze è ben più di Ted Bundy e Alfredino non ha pari nel pianeta e le BR non sono la RAF o l’esercito simbionese. A ogni narrazione della storia nazionale, quando la storia nazionale stessa sia riguardata con le lenti che permettono di vedere che il fatto accaduto esemplifica ben altro da sé, si approda all’eccezione e al singolare. Si può dire che l’ispirazione arriva dall’esterno e, avendo assistito alle prime fasi della creazione di “Sanpa”, posso testimoniare che certamente si è guardato a “Wild, wild county”. Tuttavia l’ispirazione è soltanto una leva per andare laddove non era andato in precedenza nessuno: nell’ambiguità meno mercificabile, nell’italianità che si sussume nel fatto che essa inventa il Senato e duemila anni dopo quell’invenzione Trump si appende al Senato stesso. E’ un gerundio universale, il tempo italiano. Gianluca Neri e gli altri autori hanno applicato queste diottrie alla vicenda di Muccioli, ovvero alla parabola storica della più vasta comunità in Europa di recupero per tossicodipendenti. Mi si permetterà di non calarmi nelle polemiche su quanto fosse santo o criminale Vincenzo Muccioli. Già deflagrano, queste polemiche, sui quotidiani e sui siti, nella giornata di oggi. Il punto che mi interessa non è l’eterno gioco tra guelfi e ghibellini o colpevolisti e innocentisti, una sempiternità nei nostri costumi italiani. Questo stadio del problema storico, cioè l’infinita e sfinita contesa tra quelli del sì e quelli del no, rende sbalzati dalla vicenda italiana gli agreggati storici stessi, solitamente macchiati di nero come la cronaca a cui appartengono, con il risultato di vivere in Italia un’esistenza storicamente determinata dal male, intorno a cui chiunque si sente in grado di dire qualcosa, finendo per non dire nulla. Il format, questo preciso format storico, sarebbe esausto, se non fosse che in ogni ambiguità italica risiede un’attrazione morbosa, la quale pretende di vedere la totalità di se stessa a colpi di morti misteriose e di tragica commedia dei vizi, mai delle virtù, con cui l’italiano, un tempo medio e ora non si sa bene più che cosa, intende autocollocarsi rispetto al mondo che vive. L’antidoto a una simile esaustione da format è il rigore e la sfrenatezza con cui si rappresenta il momento storico – e questo rigore, questa sfrenatezza sono tutto ciò che l’Italia non può o non intende fare. Le migliaia di ore di footage esaminato e montato in “Sanpa”, l’atteggiamento scientifico applicato a un dilemma morale, rendono la serie presule in patria: io non ho mai assistito a qualcosa di simile, che venisse dall’Italia. E’ un prodotto a vocazione statunitense o anglosassone. Roma non vi lascia traccia. E questo assolutismo, conoscitivo e compositivo, genera un effetto devastante, a mio modo di vedere: genera l’esperienza del tempo. E’ un effetto di realtà che mi ha toccato profondamente: formatomi nei Settanta e negli Ottanta, dimenticatomi nei Novanta, ho avuto accesso a quei tempi dissennati, che ho vissuto distrattamente. E’ un atto di accusa implicito, che i creatori di “Sanpa” non so fino a che punto hanno cercato con ostinazione: chiunque veda la serie è catapultato nell’ultima storia prima dell’avvento del digitale di massa. Il vestiario, le posture, la lingua, le gestualità, gli oggetti di consumo, le costumanze, la politica, il lavoro, il riposo e il divertimento, ridere e piangere e immaginare, la fine dell’impegno ideologico, il grottesco teatro umano in cui finì per installarsi Muccioli (a un certo punto a San Patrignano appaiono Craxi e Andreotti), il mistero e la cospirazione, quel tanto di Borgia che è geneticamente inscritto nell’italianità, l’eccezione e lo spettacolo: qui abbiamo a che fare con una totalità. Il fatto che ci troviamo di fronte a e immersi in una totalità, fa compiere un balzo impensabile alla serie e alla materia che tratta, poiché si finisce dalle parti della produzione artistica, il che non credo fosse un’ambizione iniziale e finale di Gianluca Neri e degli altri che a “Sanpa” hanno lavorato così ossessivamente. Per spiegarmi, provo ad avvicinare Muccioli, al tempo stesso king e king-maker della serie. Le fasi di invenzione di San Patrignano, di crescita e collasso e caduta, nell’identificazione assoluta tra fondatore e fondato, disegnano un ritratto a tinte forti, una luce abbagliante sul volto romagnolo, via via pacioso o drammaticamente scavato, di un re Lear che costruisce da se stesso la propria fine. Questo “sapore” non appartiene agli eventi, non è la natura scontata di una vicenda, anche giurisprudenziale, con cui Muccioli ha pressato sul comparto nazionale. La sua stazza fisica era indiscutibile, la sua stazza morale andava discussa. Le polemiche che stanno investendo quest’opera estrema sull’uomo scontano un vizio di fondo: la serie non è sull’uomo, poiché è piuttosto centrata sullo shakespearismo dell’uomo stesso. La persistenza del fondatore, il troppo di storia che gli tocca vivere e gli tocca perché è andato a cercarsi il fatto che lo toccasse, è davvero un delirio preventivo e postumo, un delirio totalizzante che è tipico dell’uomo quando si fa demiurgo, produttore di realtà, affabulatore di se stesso e quindi degli altri. Poco importa, in termini storiografici, che quell’uomo con un trincetto si fosse procurato finte stimmate, prima di fondare San Patrignano, quando ancora si occupava di parapsicologia e Raggi Cristici. Importa invece dal punto di vista della pura narrazione. Sulla quale ho ancora una cosa da dire. E’ davvero per un equivoco che non mi è capitato di partecipare alla scrittura di quest’opera portentosa. Esprimevo tecnicamente perplessità, rispetto alla quantità della narrazione possibile. Vedevo la fondazione, vedevo la crescita, vedevo l’imporsi dell’Aids, vedevo i processi, vedevo la morte del fondatore – e pensavo che, dal punto di vista tecnico, si sarebbe dovuti ricorrere a un certo ridondare, che solitamente è avversario alla tenuta narrativa. E infatti a questo sono ricorsi Gianluca Neri e gli altri autori, facendo ridondare le testimonianze, giocando la partita con un apparente catenaccio – che si rovescia in un gioco a zona. Aveva davvero ragione Gianluca Neri: i fatti si pesano, non si contano. Avere sobillato la rappresentazione di più decenni rende del tutto occasionale il traliccio a cui essi si appoggiano. Se persino Red Ronnie diviene fraterno a Orazio o Mcduff, significa che si viene a subire e a esperire la mobilitazione di un tempo più vasto del tempo che possiamo ricordare o apprezzare, nelle immagini di questo clamoroso montaggio applicato su “Sanpa”. Anche questa generalità della mobilitazione di un tempo è cromosoma non del giornalismo, ma dell’operare in termini artistici o almeno intellettualmente rilevanti. L’oggettività che diviene espressione: quando ci si trova a simili latitudini, si può essere felici di avere *visto*. Guardate “Sanpa”, per trovarvi a queste latitudini: morte, amore, comico, dramma, libertà e necessità, sopravvivenza, il sistema dinamico delle virtù, la fede e la preghiera, il nichilismo e la cecità, il contrasto e la luce, il buco nero e il bilancio, la legge e la violazione, l’affetto e la finzione delle amicizie, il tradimento e la fraternità, il padre e l’assenza di madre – questa è la materia e la risoluzione della materia stessa, ovvero l’umano, che ho visto e che avrete visto.
PS1. C’è un momento di puro assassinio delle mie memorie condizionate, nel corso della visione di “Sanpa”. Un momento che mi parla dei miei automatismi, del mio vacuo desiderare stando al mondo. Viene descritta una procedura con cui Muccioli penalizza chi abbia violato le regole o commesso qualche abominio, schiaffeggiandolo sulle orecchie da dietro, con due ceffoni contemporaneamente. Tale procedura era battezzata “Sole piatti”. E questo, perché una celebre pubblicità, di un altrettanto celebre detersivo per piatti, mostrava una casalinga, impersonata da Gabriella Golia, che batteva due piatti tra di loro. Lo spot appare fugacemente in “Sanpa”, mentre si descrive la punizione “Sole piatti”. Io sono crollato in me stesso all’istante. Ho avvertito il peso di un immaginario collettivo, nel quale ero stato storicamente incluso. Una referenza chiara a tutti, su cui potersi appoggiare per comunicare, per condividere e confliggere. La merce come sogno. L’oggetto come incubo. L’essere nel consumo come delirio. Oggi la storia mi pare davvero distante dalla possibilità di un esercizio comune di ordine immaginario. Se perfino una pandemia non parla all’immaginario, se perfino un veicolatore di immaginario qual è un social diviene decostruttore dell’attività intima di un immaginario – a cosa dovrò votare l’energia delle mie alienazioni? Ecco dunque un’ulteriore specola da cui guardare a “Sanpa”: l’illusione di un’impermanenza totale della storia, dell’esserci e dell’esserci stati.PS2. Personalmente sono uscito dalla visione della serie con un’opinione su Muccioli davvero trasformata. Mi ha colpito l’eroismo del narcisismo inconcusso e sorgivo, con cui è stato in grado di costruire qualcosa di impensabile e di fatto prima di lui impensato.

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