Meditazione sul tempo rivoluzionato e scemo. Dove si muove Guido Lopez.

Stamattina ho letto dalla home di Repubblica un’intervista a due “gemelle influencer” da milioni di follower su TikTok. Un’intervista che in tempi sospetti poteva essere fatta a Carlo Felice Nicolis conte di Robilant, a Concetto Marchesi, a Luciano Lama e poi via via a Gaetano Quagliariello, al papà di Eluana Englaro, a Solange, al primo Cracco, a Nina Moric, ad Antonio Zequila, fino a Imen Jane. A queste latitudini siamo nell’ovvio – anzi, sono io nell’ovvio: la renitenza a questo tempo in forma dell’opposto della resilienza e dell’empatia. Un reazionariato tutto interiore, un invecchiamento precoce, un moralismo rigido e vieto. La norma anagrafica data da mutamenti impressionanti nell’antropologia di riferimento. Il percorso in stato confusionale, mentre i lipidi gonfiano e non più le mamme imbiancano, perché a imbiancare sono direttamente io. Io, io, io: gli organismi geneticamente e antropologicamente mutati faccio fatica anche solo ad assaggiarli, ma il primo a essere tale sono ancora io, questo pronome con la pappagorgia, questa piccola abissalità che verticalizza poco e ciancia molto. Partendo da simili e intimi banchi di nebbia – una nebbia livida, spessa, premessa spontanea all’indecifrabilità delle strade e quindi delle vie di fuga -, non esimo il me stesso dall’espressione di tutto un disgusto legato alla norma esistenziale di un tempo rivoluzionario come quello che stiamo vivendo. Tempo rivoluzionario in quanto rivoluzionato. Non si scorge infatti all’orizzonte nessun conato rivoluzionario, che starebbe in luogo dell’asserzione che uno esiste al mondo e il mondo esiste a lui. La rivoluzione sta nelle cose e nei rapporti di base, abbruttiti oggettivamente, oggettivamente istupiditi. Ho atteso nove minuti della mia giornata a guardare una delle challenge delle due tiktokers omozigote: si mettevano davanti alla camera, ingollavano acqua e la trattenevano in bocca, guardavano video al cui confronto le perle di “Paperissima” sono Marsilio Ficino, la prima che sputava l’acqua ridendo perdeva. Nove minuti: l’infinito intrattenimento, l’infinita conversazione. In quei nove minuti chissà cosa pensavano Zingaretti o Cuperlo o Garavaglia della Lega o Fraccaro. In quei nove minuti chissà quante challenge fallite, registrate, implementate con gli effetti da app, chissà quanti cadaveri e quanti morti, quanti ologrammi umani, quanti sogni di andare su Marte a colpi di bitcoin per terraformare a colpi di arsenale nucleare. E quanti sussurri e quanti parti cesarei e quanta disperazione. Tutto che sfuma in una disattenzione: e anche questo non è vero, perché prima sfumava tutto nell’oblio o nell’inconsapevolezza, mentre ora sfuma nei rigorismi di un disinteresse per le cose e per il mondo da celenterati, da tubi digerenti, da enzimi digestivi, da dieci erbe e da troppa curcuma. Insomma: un mondo e un tempo che lievemente mi disgustano, a ondate di nausea, capaci però di salire a procella, a volte a onda anomala, altre volte a vaga allegria da naufragio, se non a lieta dissociazione. Tutto mi rimanda oggi a io, a io, a io. E i testi, i testi!, che mi servivano a corredare quel pronome lipidico con le medagliette del senso, dell’illusione di un senso ricavato dal parlare, dallo scrivere, dall’immaginare. Si era dentro un fare comune. Si ragionava fumando pacchetti su pacchetti, bevendo grappa con gli amici, che sapeva di legni pregiati, impiegando l’alito in una fonazione stupenda al momento, memorabile il momento successivo, dimenticata due istanti dopo. Dove dovevo muovere il mio personaggio vuoto, in una cupa atmosfera fitta di simboli più o meno arcani, più o meno neri, tra ventate di paranoia e scivolate improvvise sui ghiacci della memoria? Cosa parlavo a fare di complotti e religioni sbagliate, di terrorismi impensati e di invasioni cinesi e vaticane, tra intelligence scafate e governanti assai poco ingenui o inermi? Tutto avrebbe dato ragione a ogni cosa. Era una questione di tempo, ovvero di impermanenza, e si sarebbe dovuto inventare in altro modo, più beota e semplicistico, poco respingente e decorativistico, sterilizzato e lineare – cioè minimo. A presiedere al principio di scrittura, le challange delle sorelle gemelle rincretinite dall’enfasi espressiva delle stories e dei video post. Nessun simbolo, nessuna croce e, soprattutto, nessuno a portarla, la croce. Se non questo io. Dunque il segreto del tempo che come una bibita sorbisco per rendermi ebbro sempre, sempre matto o disallineato, sempre sfigato e sofferente nello sguardo poco stupito, era l’irritazione della prima persona, l’indecidibilità del pronome, lo sciabordio del tempo peggiore che copre il *tuo* tempo migliore. E così andare, nella nebbia, nella deriva, nell’immane disillusione che la realtà offra una chance pionieristica, un eroismo privato, un ricordo di sé qualunque, stinto o vivido. In questo esserci che è pari al non esserci, si muove Guido Lopez.

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