Meditazione sul tempo rivoluzionato e scemo. Dove si muove Guido Lopez.

Stamattina ho letto dalla home di Repubblica un’intervista a due “gemelle influencer” da milioni di follower su TikTok. Un’intervista che in tempi sospetti poteva essere fatta a Carlo Felice Nicolis conte di Robilant, a Concetto Marchesi, a Luciano Lama e poi via via a Gaetano Quagliariello, al papà di Eluana Englaro, a Solange, al primo Cracco, a Nina Moric, ad Antonio Zequila, fino a Imen Jane. A queste latitudini siamo nell’ovvio – anzi, sono io nell’ovvio: la renitenza a questo tempo in forma dell’opposto della resilienza e dell’empatia. Un reazionariato tutto interiore, un invecchiamento precoce, un moralismo rigido e vieto. La norma anagrafica data da mutamenti impressionanti nell’antropologia di riferimento. Il percorso in stato confusionale, mentre i lipidi gonfiano e non più le mamme imbiancano, perché a imbiancare sono direttamente io. Io, io, io: gli organismi geneticamente e antropologicamente mutati faccio fatica anche solo ad assaggiarli, ma il primo a essere tale sono ancora io, questo pronome con la pappagorgia, questa piccola abissalità che verticalizza poco e ciancia molto. Partendo da simili e intimi banchi di nebbia – una nebbia livida, spessa, premessa spontanea all’indecifrabilità delle strade e quindi delle vie di fuga -, non esimo il me stesso dall’espressione di tutto un disgusto legato alla norma esistenziale di un tempo rivoluzionario come quello che stiamo vivendo. Tempo rivoluzionario in quanto rivoluzionato. Non si scorge infatti all’orizzonte nessun conato rivoluzionario, che starebbe in luogo dell’asserzione che uno esiste al mondo e il mondo esiste a lui. La rivoluzione sta nelle cose e nei rapporti di base, abbruttiti oggettivamente, oggettivamente istupiditi. Ho atteso nove minuti della mia giornata a guardare una delle challenge delle due tiktokers omozigote: si mettevano davanti alla camera, ingollavano acqua e la trattenevano in bocca, guardavano video al cui confronto le perle di “Paperissima” sono Marsilio Ficino, la prima che sputava l’acqua ridendo perdeva. Nove minuti: l’infinito intrattenimento, l’infinita conversazione. In quei nove minuti chissà cosa pensavano Zingaretti o Cuperlo o Garavaglia della Lega o Fraccaro. In quei nove minuti chissà quante challenge fallite, registrate, implementate con gli effetti da app, chissà quanti cadaveri e quanti morti, quanti ologrammi umani, quanti sogni di andare su Marte a colpi di bitcoin per terraformare a colpi di arsenale nucleare. E quanti sussurri e quanti parti cesarei e quanta disperazione. Tutto che sfuma in una disattenzione: e anche questo non è vero, perché prima sfumava tutto nell’oblio o nell’inconsapevolezza, mentre ora sfuma nei rigorismi di un disinteresse per le cose e per il mondo da celenterati, da tubi digerenti, da enzimi digestivi, da dieci erbe e da troppa curcuma. Insomma: un mondo e un tempo che lievemente mi disgustano, a ondate di nausea, capaci però di salire a procella, a volte a onda anomala, altre volte a vaga allegria da naufragio, se non a lieta dissociazione. Tutto mi rimanda oggi a io, a io, a io. E i testi, i testi!, che mi servivano a corredare quel pronome lipidico con le medagliette del senso, dell’illusione di un senso ricavato dal parlare, dallo scrivere, dall’immaginare. Si era dentro un fare comune. Si ragionava fumando pacchetti su pacchetti, bevendo grappa con gli amici, che sapeva di legni pregiati, impiegando l’alito in una fonazione stupenda al momento, memorabile il momento successivo, dimenticata due istanti dopo. Dove dovevo muovere il mio personaggio vuoto, in una cupa atmosfera fitta di simboli più o meno arcani, più o meno neri, tra ventate di paranoia e scivolate improvvise sui ghiacci della memoria? Cosa parlavo a fare di complotti e religioni sbagliate, di terrorismi impensati e di invasioni cinesi e vaticane, tra intelligence scafate e governanti assai poco ingenui o inermi? Tutto avrebbe dato ragione a ogni cosa. Era una questione di tempo, ovvero di impermanenza, e si sarebbe dovuto inventare in altro modo, più beota e semplicistico, poco respingente e decorativistico, sterilizzato e lineare – cioè minimo. A presiedere al principio di scrittura, le challange delle sorelle gemelle rincretinite dall’enfasi espressiva delle stories e dei video post. Nessun simbolo, nessuna croce e, soprattutto, nessuno a portarla, la croce. Se non questo io. Dunque il segreto del tempo che come una bibita sorbisco per rendermi ebbro sempre, sempre matto o disallineato, sempre sfigato e sofferente nello sguardo poco stupito, era l’irritazione della prima persona, l’indecidibilità del pronome, lo sciabordio del tempo peggiore che copre il *tuo* tempo migliore. E così andare, nella nebbia, nella deriva, nell’immane disillusione che la realtà offra una chance pionieristica, un eroismo privato, un ricordo di sé qualunque, stinto o vivido. In questo esserci che è pari al non esserci, si muove Guido Lopez.

I BAMBINI DEL 1978 PARLANO DEI BAMBINI DEL 2021

(da “History”, Mondadori)

“E’ tutta una vita dei nervi che stiamo imparando noi bambini. Infido è il bambino del tempo che vivo e lo sarà sempre, a meno che non si rovesci il tempo, con grande fragore di anime e profondo dissesto degli apparati preposti alla sopravvivenza. Il benessere, per esempio, potrebbe riscattare i bambini a venire dalla vita dei nervi e tradurli a un altro tipo di reazione vitale, contro le pressioni e le insidie del mondo. L’incremento della vita economica, che ci è al momento inimmaginabile, sarebbe capace di produrre un esemplare moccioso, inabile allo scontro, malsicuro, incline all’isolamento, di quella specie che oggi si dice stare “sotto le sottane della mamma”, riottoso al sole e all’aria aperta e azotata della metropoli, che produce più smog tra i distretti sudeuropei: un bambino molle e assente, un rincretinito, rappresentante di un’umanità diversa, che sta per affacciarsi alla storia nel futuro imminente, un rappresentante bambino di un’umanità rinnovata e pallida nel sembiante, così come negli atti, un’umanità larvale e poco volitiva, autocostrettasi in un utilizzo limitato del gergo, incapace di invenzione che non sia tecnica, inetta, inidonea all’elaborazione istantanea di strategie e tattiche opportunamente conseguenti, incapace di concepire un sentimento del territorio e di violare le moralità molteplici che le norme del vivere civile impongono a noi i bambini uniti di questo tempo di adesso, un’umanità esangue e priva della necessaria ferocia e spogliata di qualunque disinibizione, poiché i rappresentati di questa umanità debosciata vivranno in un tempo privo di inibizioni e quindi di sfrenatezze, questi bambini di un futuro imminente, che a noi sembra impossibile, saranno allevati all’interno di un corollario di piaceri e attività ludiche, limitati da una cautela tipica degli idioti preoccupati, che strappa loro un previo consenso sociale, sotto il quale non si accorgono di avere apposto la loro firma spirituale, in un’epoca prossima in cui sarà tutto da vedere se la firma spirituale avrà una qualche incidenza sul comparto sociale. Ne dubitiamo. Pensiamo a questi possibili bambini futuri con una commistione di pietà indifferente e odio radicale. Non ci passa neanche per la testa che possano esistere. Avrebbero un aspetto più prossimo alla bambola attuale che a noi.

La nostra umanità, fino alle scuole superiori, che molti di noi non solo non sperano ma nemmeno desiderano di finire per frequentare, è un’umanità belluina, alla ricerca continua di uno stato selvatico, nonostante ci muoviamo in una situazione altamente urbanizzata, in cui evidentemente va a incremento esponenziale il traffico su strada e i consumi di oggettistica privata. Sarebbero, questi bambini del futuro imminente, sarebbero plasticati in qualche modo, inespressivi nel volto e impacciati nel corpo. Si proverebbero su di loro tare cognitive ed emotive che, oggidì, risultano impensabili e, se anche si manifestano, non gliene frega nulla a nessuno, a chi frega in questo tempo della dislessia e del mutismo selettivo?, non frega a nessuno, dai genitori agli insegnanti, nonostante l’introduzione della figura scolastica dell’insegnante di sostegno indichi che qualcosa sta declinando verso una debolezza e un incivilimento maggiore dei tempi a venire, comunque restando per noi inimmaginabile un’epoca in cui a un bambino sia indicato da parte degli adulti come salire e dondolare su un’altalena o, peggio, gli si occupi il tempo cosiddetto libero con attività ginniche, oppure capaci di sviluppare abilità artistiche e preprofessionali del tutto inutili, se non dannose. Avrebbero i volti fermi, privi di caratteristica, la mimica ridotta all’espressione di poche e facilmente individuabili emozioni, la cui intensità sarebbe in ogni caso ridotta e tendente più allo sfogo isterico che alla veracità della passione provata. Le loro carnagioni dolci ci fanno venire in mente la fibrosità bianca del pesce di fiume quando è lessato. Non è un caso se in questo tempo ci propinino il pesce di fiume lessato con l’olio e il limone e noi lo schifiamo e le prendiamo sonoramente perché ci rifiutiamo anche solo di addentarne la polpa sfilacciata: il pesce di acqua dolce ha infatti un costo economico ridotto rispetto al suo omologo marino e questo non è il tempo delle prelibatezze o dei controlli sanitari ossessivi sugli alimenti, sulla surgelazione. Quella consistenza filamentosa della carne inesperta dei bambini futuri è fonte di indignazione e ci fa infuribondire. Se li incontrassimo nel nostro tempo, li attaccheremmo impietosamente, godendo della violenza che siamo capaci di esercitare su di loro, infliggendo umiliazioni e dilatando il tempo dell’aggressione, fino oltre l’orario in cui i nostri genitori ci pretendono a casa per la cena, quando il crepuscolo chimico vira verso l’imbrunimento meno poetico e si annuncia la notte, questo repertorio di meraviglie e ardimenti che ci viene proibito a bella posta, cacciandoci a letto mentre vogliamo leggere o giocare all’astronave, nascondendoci all’interno dell’armadio, dove succhiamo gelatine alla frutta costellate di granelli di zucchero, di un rosso acceso che quasi illumina dietro le ante che teniamo semichiuse nell’armadio, inalando i vapori di naftalina tarmicida e pilotando l’astronave immaginaria con una torcia accesa, in platica verniciata di metallico, la torcia per adulti che abbiamo sottratto dalla cassetta degli attrezzi dei nostri padri impiegatizi, non aprono mai quella cassetta degli attrezzi, non lavorano in casa, non fanno niente in casa, sfruttano la manodopera delle nostre madri, le quali strofinano tutto e spostano i quadri e sono in grado di scegliere i chiodi più adatti per le pareti in cartongesso delle nostre abitazioni di periferia. Noi renderemmo lacerocontusi quei bambini di domani, picchiando forte e cattivo, dove le cartilagini sono meno morbide ma non ancora stagne come l’osso, sentendo crocchiare sotto le nostre nocche, attendendo il flusso di muco e sangue dal naso, dallo strappo all’angolo della bocca, o dall’orecchio, quando decidiamo di perforare i loro timpani. Gli strappiamo i capelli, noi che li abbiamo unti e improtetti ai pidocchi, tagliati male, noi non andiamo a fare i piccoli principi sul sediolino a forma di cavalluccio dai barbieri, ce li taglia la mamma con una scodella, a caschetto, a ciotola, e li teniamo unti e incrostati di polvere del ghiaino ai giardinetti. Siamo capaci di mangiarci le croste di sangue rappreso strappandole dalle ginocchia ferite, senza passarci sopra il disinfettante o fare i drammi con le madri eccitate nel sistema nervoso: il sangue secco mantiene qualcosa di ferroso e di salato, la carne viva dove strappiamo la crosta è biancastra e sembra essudare sangue come ci immaginiamo i martiri cristiani dovevano trasudarlo in nominechristi, addentiamo con gli incisivi e mastichiamo con i molari, là in fondo dove sappiamo che ci cresceranno i denti del giudizio e abbiamo fatto girare la voce che, allo spuntare dei denti del giudizio, saremo capaci di copulare le bambine, diventate ragazze. Questi esseri mosci, che sono i bambini del futuro imminente, a cui avremo ridotto i genitali a un livido unico a furia di calci di punta, strilleranno senza reagire o reagiranno scompostamente, ignari delle grammatiche più elementari della lotta e inconsapevoli che, anche se si attaccano alle ciocche delle nostre zazzere e le strappano via e si vede il sangue sul cuoio capelluto, noi siamo entusiasti di intingere nella ferita il polpastrello dell’indice e di succhiarlo. Il nostro di adesso è un tempo in cui, appena ci sono i soldi per la spesa alimentare, si corre alla macelleria equina per acquistare bistecche ferrose e si mangia tutto, la carne e i nervi e, col pane, la sugaglia, intingendo nell’olio di frittura e nel sangue suppurato dalla polpa il pezzo di michetta, poiché il pane all’olio costa e bisogna pensarci, a comprarlo, devono pensarci tutti, non soltanto le madri, i padri non fanno acquisti alimentari, ma dobbiamo pensarci anche noi, che siamo avvertiti del prezzo di ogni cosa, utilizzando come unità di misura le cinque figurine calcistiche della bustina all’edicola. Questi bambini inerti futuri li massacriamo e tentiamo uno stupro ai danni delle bambine con le bottiglie di vetro verde lasciate vuote a decine nei giardinetti dai tossici e dagli ubriachi nottetempo, che nessuna nettezza urbana viene a ripulire. L’atto va compiuto ciecamente e noi siamo ciechi, appunto: annusiamo l’aria, aguzziamo l’udito, come la nidiata dei pipistrelli che si orienta in una vasta grotta sotterranea ed è dove viviamo, qui, ora, in questa città, in questo tempo. Però noi riteniamo che il tempo non si chinerà mai a produrre una simile specie rincretinita e imbelle, sciolta in un ammollo perenne di cure troppe e sommersa da beni di consumo fino all’annullamento della percezione di un bene, di una cosa. Sdegniamo l’omologazione, ma stiamo apprendendo i riti e i piaceri della ripetizione sempre uguale, stiamo affacciandoci agli schermi: potremmo essere noi la premessa a quella popolazione di bambini idioti, viventi, deambulanti, chini e attoniti in un futuro per ora inimmaginabile.”

“SANPA”, la serie memorabile

C’è una serie su Netflix, che compensa anni di produzioni italiane, con la loro enfasi da mainstream e quella retorica orrenda, schierata contro l’immaginario e tutta a favore di una finzionalità tipica di una nazione che se ne è strafregata dell’immaginario e dei suoi rigori. I rigori dell’immaginario: la serietà del lavoro giornalistico, anzitutto, e la capacità di inabissarsi nell’ambiguità, cercando il verbo e la storia di un tempo. “Sanpa”, serie sulla vicenda di Muccioli e San Patrignano, è stata ideata, realizzata e prodotta da una persona speciale, per quanto concerne la mia vita, che è Gianluca Neri. Insieme a lui, a scrivere questo documentario seriale, che è un capolavoro autentico, un’altra persona che stimo tantissimo, Carlo Gabardini. Prima di affrontare “Sanpa” per ciò che è e che ha fatto sorgere in me, mi consento due parole sul creatore, Gianluca Neri, appunto. Ho avuto l’onore di conoscerlo e di lavorare insieme a lui a Clarence, portale satirico politico culturale etc., una delle sue creature, sempre sorprendenti, spiazzanti e capaci di accendersi un fulgore e una memorabilità, di stampo assai diverso dai fulgori e dalle memorie tipicamente italiani. Da quegli ultimi anni Novanta, in cui si lavorò con una crew eccezionale, ai primordi della Rete, Gianluca è andato avanti facendo davvero la storia della Rete stessa, attraverso intuizioni progredienti firmate Macchianera, il suo blog e brand, dalla Festa della Rete fino al travaso di oggi, in un àmbito che si direbbe proibitivo: la produzione seriale su Netflix (“Sanpa” è la prima docuserie italiana prodotta dalla piattaforma al momento dominante). Nelle secche per nulla immaginifiche dell’elaborazione culturale in questo Paese, Gianluca si inserisce sempre con un passo e una direzione per me stupefacenti: taglia obliquamente, garantendosi una zona non toccata da altri, e al contempo si muove frontalmente in direzione di quella zona vergine, con una completezza esaustiva (è un procedere ossessivo e compulsivo, in realtà: la benzina della personalità che crea il nuovo) e un’inventività assoluta, finché il territorio è esplorato, passando dunque a identificare un’altra area da mappare e abitare. Fa così nei decenni. E’ arrivato a svelare l’identità del killer militare Usa a cui si deve la morte del povero Calipari, in questo modo. Entra ed esce, si muove a zig zag, intende comunque e sempre rispondere a quesiti etici e proprio questo interrogarsi sul filo della morale e dell’ambiguità permette di vederne in risalto il profilo, l’azione, l’invenzione. Tutto ciò che Gianluca Neri ha fatto esercita un dominio di ordine intellettuale proprio per questo motivo: c’è una formulazione di domande profonde dal punto di vista morale, il che costituisce un nucleo pesante alla produzione apparentemente più leggera. Non ho mai conosciuto in tutta la mia vita una persona che, come Gianluca, sia in grado di immaginare oniricamente e lavorare il sogno realisticamente, portandolo a compimento. E’ per me un unicum, affettivo, conoscitivo, protettivo. Tutte le volte che rimango senza lavoro, ricorro sempre a questo passaggio: vado a parlare con lui, sono disperatissimo sempre, lui mi accoglie con una positività fattiva, io mi tranquillizzo. Quanto alla questione professionale, il mio costante desiderio è tornare a lavorare con lui, che mi ha garantito gli anni più felici della mestieranza – un mix non casuale di risate, passioni, scientificità, invenzione sfrenata e, tipica cifra sua, libertà incondizionata. Ora vengo ad affrontare “Sanpa”, scusandomi per la lunghezza di una testimonianza che, negli anni, mi matura dentro. Veniamo dunque alla serie.”Sanpa” è tutta la storia dell’Italia, che soltanto un prodotto non italiano poteva identificare, prendere d’infilata, raggrumare in un evento che al contempo è significativo in sé ed emblematico di un tutto, il quale tutto è la nazione e la sua vicenda. Tale cifra esotica e straniera non è un’esclusiva di questa produzione, ovviamente. “Veleno”, la serie podcast firmata da Pablo Trincia, ne è un altro esempio. Resta il fatto che la verità più scottante, diciamo il motore di produzioni come “Sanpa”, anche se ciò può sembrare eccessivo, mentre non lo è affatto, risiede in un sentimento della storia nazionale. Soltanto avendo compreso che la nostra vicenda esula dal carattere nazionale e propone eccezionalità e singolarità a iosa, si può approdare a un racconto tanto universale e specifico, tanto profondo e sconvolgente. Il mostro di Firenze è ben più di Ted Bundy e Alfredino non ha pari nel pianeta e le BR non sono la RAF o l’esercito simbionese. A ogni narrazione della storia nazionale, quando la storia nazionale stessa sia riguardata con le lenti che permettono di vedere che il fatto accaduto esemplifica ben altro da sé, si approda all’eccezione e al singolare. Si può dire che l’ispirazione arriva dall’esterno e, avendo assistito alle prime fasi della creazione di “Sanpa”, posso testimoniare che certamente si è guardato a “Wild, wild county”. Tuttavia l’ispirazione è soltanto una leva per andare laddove non era andato in precedenza nessuno: nell’ambiguità meno mercificabile, nell’italianità che si sussume nel fatto che essa inventa il Senato e duemila anni dopo quell’invenzione Trump si appende al Senato stesso. E’ un gerundio universale, il tempo italiano. Gianluca Neri e gli altri autori hanno applicato queste diottrie alla vicenda di Muccioli, ovvero alla parabola storica della più vasta comunità in Europa di recupero per tossicodipendenti. Mi si permetterà di non calarmi nelle polemiche su quanto fosse santo o criminale Vincenzo Muccioli. Già deflagrano, queste polemiche, sui quotidiani e sui siti, nella giornata di oggi. Il punto che mi interessa non è l’eterno gioco tra guelfi e ghibellini o colpevolisti e innocentisti, una sempiternità nei nostri costumi italiani. Questo stadio del problema storico, cioè l’infinita e sfinita contesa tra quelli del sì e quelli del no, rende sbalzati dalla vicenda italiana gli agreggati storici stessi, solitamente macchiati di nero come la cronaca a cui appartengono, con il risultato di vivere in Italia un’esistenza storicamente determinata dal male, intorno a cui chiunque si sente in grado di dire qualcosa, finendo per non dire nulla. Il format, questo preciso format storico, sarebbe esausto, se non fosse che in ogni ambiguità italica risiede un’attrazione morbosa, la quale pretende di vedere la totalità di se stessa a colpi di morti misteriose e di tragica commedia dei vizi, mai delle virtù, con cui l’italiano, un tempo medio e ora non si sa bene più che cosa, intende autocollocarsi rispetto al mondo che vive. L’antidoto a una simile esaustione da format è il rigore e la sfrenatezza con cui si rappresenta il momento storico – e questo rigore, questa sfrenatezza sono tutto ciò che l’Italia non può o non intende fare. Le migliaia di ore di footage esaminato e montato in “Sanpa”, l’atteggiamento scientifico applicato a un dilemma morale, rendono la serie presule in patria: io non ho mai assistito a qualcosa di simile, che venisse dall’Italia. E’ un prodotto a vocazione statunitense o anglosassone. Roma non vi lascia traccia. E questo assolutismo, conoscitivo e compositivo, genera un effetto devastante, a mio modo di vedere: genera l’esperienza del tempo. E’ un effetto di realtà che mi ha toccato profondamente: formatomi nei Settanta e negli Ottanta, dimenticatomi nei Novanta, ho avuto accesso a quei tempi dissennati, che ho vissuto distrattamente. E’ un atto di accusa implicito, che i creatori di “Sanpa” non so fino a che punto hanno cercato con ostinazione: chiunque veda la serie è catapultato nell’ultima storia prima dell’avvento del digitale di massa. Il vestiario, le posture, la lingua, le gestualità, gli oggetti di consumo, le costumanze, la politica, il lavoro, il riposo e il divertimento, ridere e piangere e immaginare, la fine dell’impegno ideologico, il grottesco teatro umano in cui finì per installarsi Muccioli (a un certo punto a San Patrignano appaiono Craxi e Andreotti), il mistero e la cospirazione, quel tanto di Borgia che è geneticamente inscritto nell’italianità, l’eccezione e lo spettacolo: qui abbiamo a che fare con una totalità. Il fatto che ci troviamo di fronte a e immersi in una totalità, fa compiere un balzo impensabile alla serie e alla materia che tratta, poiché si finisce dalle parti della produzione artistica, il che non credo fosse un’ambizione iniziale e finale di Gianluca Neri e degli altri che a “Sanpa” hanno lavorato così ossessivamente. Per spiegarmi, provo ad avvicinare Muccioli, al tempo stesso king e king-maker della serie. Le fasi di invenzione di San Patrignano, di crescita e collasso e caduta, nell’identificazione assoluta tra fondatore e fondato, disegnano un ritratto a tinte forti, una luce abbagliante sul volto romagnolo, via via pacioso o drammaticamente scavato, di un re Lear che costruisce da se stesso la propria fine. Questo “sapore” non appartiene agli eventi, non è la natura scontata di una vicenda, anche giurisprudenziale, con cui Muccioli ha pressato sul comparto nazionale. La sua stazza fisica era indiscutibile, la sua stazza morale andava discussa. Le polemiche che stanno investendo quest’opera estrema sull’uomo scontano un vizio di fondo: la serie non è sull’uomo, poiché è piuttosto centrata sullo shakespearismo dell’uomo stesso. La persistenza del fondatore, il troppo di storia che gli tocca vivere e gli tocca perché è andato a cercarsi il fatto che lo toccasse, è davvero un delirio preventivo e postumo, un delirio totalizzante che è tipico dell’uomo quando si fa demiurgo, produttore di realtà, affabulatore di se stesso e quindi degli altri. Poco importa, in termini storiografici, che quell’uomo con un trincetto si fosse procurato finte stimmate, prima di fondare San Patrignano, quando ancora si occupava di parapsicologia e Raggi Cristici. Importa invece dal punto di vista della pura narrazione. Sulla quale ho ancora una cosa da dire. E’ davvero per un equivoco che non mi è capitato di partecipare alla scrittura di quest’opera portentosa. Esprimevo tecnicamente perplessità, rispetto alla quantità della narrazione possibile. Vedevo la fondazione, vedevo la crescita, vedevo l’imporsi dell’Aids, vedevo i processi, vedevo la morte del fondatore – e pensavo che, dal punto di vista tecnico, si sarebbe dovuti ricorrere a un certo ridondare, che solitamente è avversario alla tenuta narrativa. E infatti a questo sono ricorsi Gianluca Neri e gli altri autori, facendo ridondare le testimonianze, giocando la partita con un apparente catenaccio – che si rovescia in un gioco a zona. Aveva davvero ragione Gianluca Neri: i fatti si pesano, non si contano. Avere sobillato la rappresentazione di più decenni rende del tutto occasionale il traliccio a cui essi si appoggiano. Se persino Red Ronnie diviene fraterno a Orazio o Mcduff, significa che si viene a subire e a esperire la mobilitazione di un tempo più vasto del tempo che possiamo ricordare o apprezzare, nelle immagini di questo clamoroso montaggio applicato su “Sanpa”. Anche questa generalità della mobilitazione di un tempo è cromosoma non del giornalismo, ma dell’operare in termini artistici o almeno intellettualmente rilevanti. L’oggettività che diviene espressione: quando ci si trova a simili latitudini, si può essere felici di avere *visto*. Guardate “Sanpa”, per trovarvi a queste latitudini: morte, amore, comico, dramma, libertà e necessità, sopravvivenza, il sistema dinamico delle virtù, la fede e la preghiera, il nichilismo e la cecità, il contrasto e la luce, il buco nero e il bilancio, la legge e la violazione, l’affetto e la finzione delle amicizie, il tradimento e la fraternità, il padre e l’assenza di madre – questa è la materia e la risoluzione della materia stessa, ovvero l’umano, che ho visto e che avrete visto.
PS1. C’è un momento di puro assassinio delle mie memorie condizionate, nel corso della visione di “Sanpa”. Un momento che mi parla dei miei automatismi, del mio vacuo desiderare stando al mondo. Viene descritta una procedura con cui Muccioli penalizza chi abbia violato le regole o commesso qualche abominio, schiaffeggiandolo sulle orecchie da dietro, con due ceffoni contemporaneamente. Tale procedura era battezzata “Sole piatti”. E questo, perché una celebre pubblicità, di un altrettanto celebre detersivo per piatti, mostrava una casalinga, impersonata da Gabriella Golia, che batteva due piatti tra di loro. Lo spot appare fugacemente in “Sanpa”, mentre si descrive la punizione “Sole piatti”. Io sono crollato in me stesso all’istante. Ho avvertito il peso di un immaginario collettivo, nel quale ero stato storicamente incluso. Una referenza chiara a tutti, su cui potersi appoggiare per comunicare, per condividere e confliggere. La merce come sogno. L’oggetto come incubo. L’essere nel consumo come delirio. Oggi la storia mi pare davvero distante dalla possibilità di un esercizio comune di ordine immaginario. Se perfino una pandemia non parla all’immaginario, se perfino un veicolatore di immaginario qual è un social diviene decostruttore dell’attività intima di un immaginario – a cosa dovrò votare l’energia delle mie alienazioni? Ecco dunque un’ulteriore specola da cui guardare a “Sanpa”: l’illusione di un’impermanenza totale della storia, dell’esserci e dell’esserci stati.PS2. Personalmente sono uscito dalla visione della serie con un’opinione su Muccioli davvero trasformata. Mi ha colpito l’eroismo del narcisismo inconcusso e sorgivo, con cui è stato in grado di costruire qualcosa di impensabile e di fatto prima di lui impensato.

“REALITY?” a Zona K

Un dialogo su teatro e contemporaneo nella prospettiva politica, insieme con il regista lettone Valters Sīlis e la critica teatrale Sara Chiappori, nell’àmbito di un ciclo di quattro dialoghi organizzati da Zona K. Il titolo che era stato dato a questa serie di incontri, in tempi non sospetti, è “REALITY?”, ovvero lo stesso che ho provveduto a dare al mio libro a partire dal primo lockdown. La differenza, peraltro cruciale, è quel punto di domanda. Riflessioni e incursioni nella drammaturgia del reale – buona visione a tutte e tutti! ❤

Reality Trump

C’è, si sa, del patetico nel tragico, meno che del tragico nel patetico. In questa sottile e indefinibile linea d’ombra si pone il fatto storico e letterario che riguarda il 45mo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, rinchiuso da dieci giorni nella Casa Bianca, che egli immagina assediata, mentre è già stata presa. Non credo che esista un momento più patetico e tragico di questo, rappresentato da un anziano leone del furto, più che del mai specificato capitalismo, grottesco fino alla comicità e al dadaismo, fisiognomicamente impressionante con la capigliatura e le mani che sono sopportate più che portate ed essenzializzate nei gesti che non sono più gesti, la pelle arancione, la massa grassa, i cortigiani proliferanti e continuamente licenziabili attorno, la famiglia di freak, il male perpetrato a partire dalla forma cariata di un io insufflato a morte di gas venefici, le stragi comminate all’estero e in patria, il Ku Klux Klan come orizzonte e il pitbull come bestia domestica, la moglie ex modella muta e perennemente assorta in un orizzonte nirvanico, quasi appoggiata al corpo goffo e gradasso dell’inadatto consorte, inadatto a tutto, con quel vestiario da manichino XL del peggior outlet di provincia, la provincia americana a cui questo antinewyorchese parla sbraitando, il cravattone all’aria, mentre separa i bambini dai genitori e conclude la più allibente politica estera nella storia recente degli Usa, ignorando via via la verità e la correttezza e il minimo di etica, protestante a tutto, fino alla negazione di un virus pandemico, all’ignoranza del quarto di milioni di morti che si sono spenti sotto il suo comandamento, mentre gli inoculano farmaci da assiro, ricchi in monoclonali, resuscitandolo dopo qualche ora di profonda patologia e minaccia bilaterale ai polmoni, mentre piazza l’antiabortista alla Corte Suprema, avvelenando il giudizio nei prossimi decenni, ed esce dall’ospedale militare pensando di levarsi la camiciona Oxford per mostrare davvero una maglietta da Superman e rientrando alla Casa Bianca e nei sondaggi, diventando il secondo uomo più votato nell’intera vicenda elettorale di questa nazione tutta aquile Remington e ipocrisia, la nazione libertariana che si erge sulla schiavitù e in direzione della schiavitù di tutti a nessuno, fino a perdere le elezioni strepitando a trucchi e complotti e morti risvegliati all’anagrafe per il voto falso, falso, falso, accusando la sconfitta nel momento in cui gioca a golf in un campo di sua proprietà e chiedendo, mentre è iniziato il processo che lo depone, un attacco militare contro un sito nucleare iraniano, per scatenare una guerra di chiunque contro chiunque – e si aggira sgonfiato o gonfio, empio e drammatico, nella penombra dei corridoi e nella teoria di stanze dall’Ufficio Ovale e dal Giardino delle Rose fino alle cucine e alla sala stampa, chiuso in questo castello di zucchero filato finito a marcescenza nella concrezione, nella putrefazione in vita, sbadigliando dalla furia, immobile nei tre quarti di luce sul volto fratturato dalla dottrina morale e dalla ricerca filosofica, il sangue grosso gli scorre nelle arterie bloccate e il sistema nervoso è fatto di nervi spessi che gli ululano dentro e nell’immensità interna, che gli è intima come la slitta Rosebud, c’è il bimbo arancione e biondo sul pavimento di una stanza in ombra desolata e non sa se piangere, se ridere, è vivo… E’ sempre e ancora vivo… E’ l’ultima chance del romanzo, dell’epica contratta al corpo imbelle del capitale sconfitto, dello spettacolo che è esploso perdurando un secondo di più in tutti gli schermi di tutti i device frontali di questa epoca in transumanza, da un codice carnale a un codice che lo sarà, dalla carne allo stemperamento degli istinti e delle sopravvivenze, la tomba digitalizzata che mostra i momenti apicali della presidenza e i finti affetti dei molti figli e dei generi e delle nuore, senza conoscere il deserto o scrutare le coste gessee del firmamento, ma avendo in vista soltanto soffitti, e lampadari, soltanto solitudini reiterate, pedofilie e scranni, martelletti giudiziari e palloncini sospesi sulle acque clorate delle piscine a Mar-a-Lago, le dentature bianche, poi gialle via via, il membro che si rattrappisce e la rapina sessuale incombe ovunque nell’aria attorno a lui, lui che è impossibile che sia mai lei, un maschio dell’occidente maschile nella luce maschia delle alogene a led, il miliardario che stringe in un abbraccio ideale tutti i rurali di cui è esplicitamente avversario e fiero incantatore, distante dalle vacche e dalle striate del loro sterco: lui, lo sterco, sempre, ma ora più che prima, ora più che mai, tracimato oltre se stesso e collassato supernova di carne bionda dentro il buco nero della reggia ridicola, mentre lo osservano tutti gli abitanti della Cina e lo vedono accasciarsi, provare la fitta cardiaca, mangiare il colesterolo, fino a non esserci più, a esserci sempre…

“Reality”: cosa sta succedendo

Lungi da me immaginarmi come l’esperto letterario di alcunché, tanto meno del virus che sta piagando l’umanità su questa bollicina di terra commista ad acqua, sulla quale la specie secretoria ritiene tuttora di essere una modalità dell’onnipotenza. Fatto sta che un libro su lockdown e postumi del medesimo lo ho apparentemente scritto (si intitola “Reality. Cosa è successo”, lo ha pubblicato Rizzoli). Il libro è uscito a luglio, quando le vanoloquenti sottospecie della pavidità si erano tramutate in assicurazioni sulla morte: supposti luminari in sanità privata che dicevano essere clinicamente esaurito il Covid e necessarissimo riprendere a vivere normalmente, ovvero produttivamente, nell’indistinzione tra tempo libero e tempo schiavo, perché il Paese doveva correre; frange di parodie di Lefebvre e Himmler a manifestare con l’illuminante cartello vergato dallo slogan più tragicomico di sempre, ovvero “BASTA SCIENZA”; entrepreneur dall’inequivoco cipiglio lombrosiano e paraconfindustriale, come sempre con qualche piccolo fallimento alle spalle o davanti agli òmeri, a pigliare grano dallo Stato per potere licenziare meglio *dopo*, a reclamare che quel *dopo* era già lì, bello estivo e pronto a farsi autunnale; cazzate mediatiche, sorrisini opinionistici, congetture che sfumavano a fronte della drammatica sconfitta dell’Inter in finale di Europa League o discettavano che qui “non ce n’è di Còviddi!”; contro immaginari biopotentati, i complottisti colti, la cui patente di filosofi e letterati andrebbe messa al vaglio da anni e tanto più dopo una simile prova di meschineria piccina e arrogante; assalti alla diligenza politica, a colpi di 577 progetti surreali, per spartirsi il grano europeo del fondo ricoverativo, tra cui un memorabile acquario civico a Taranto per uscire dall’emergenza. Implicito, implicato e sempiternamente saccente, l’atteggiamento nazionalista italico, cioè un nazionalismo privo di nazione, secondo la cui vulgata saremmo stati i migliori, noi italiani, eravamo disciplinati, avevamo qualche migliaio di vittime meno dell’Inghilterra, che bravi!, 35mila se ne erano andati e manco una parola di pietà per i morti, manco una parola di orrore per i cadaveri, manco una parola di paura per le intubazioni e i caschi della subintensiva, manco una parola di rispetto per i malati, manco una parola di amore per chi aveva rischiato la vita in nome di Ippocrate e della cura e dell’umanità. Con insensato orgoglio per la frittura del nulla, tutti a spassarsela con l’orizzonte litoraneo. Chi avrebbe accusato le mancanze governative non ha agito collettivamente, protestando perché nulla si stava facendo, nulla si stava predisponendo, nulla si stava ragionevolmente prevedendo. Eppure i sintomi c’erano tutti, le diagnosi anche, i realisti pure. Nessuno spaccia il benvenuto all’inferno, che una popolazione greve si merita dopo questo festival della cazzata e della leggerezza e dell’empietà allegra. Però il sottotitolo del libro, di cui sopra, ovvero “Cosa è successo”, continua a essere perituro ma valido, si trasforma come un proteo, formula l’inesausta domanda, continua a radiare e a proporre *una* chiave di lettura, che è appunto la radiazione: irradia e commina la cacciata dall’albo delle carità più intense. “La realtà geme e si ribella da se stessa” ha scritto il pontefice cattolico nella sua recentissima enciclica, “Fratelli tutti”. Non l’umanità, non la natura: la realtà in toto. Sono lacrime delle cose e le cose umane toccano la mente. A me basterebbe sfiorarla, la mente, inocularvi il punto di domanda che sempre manca di esservi accluso.

“Reality. Cosa è successo” sul Corriere della Sera



Inimmaginabile, eppure reale Viaggio nell’apocalisse Covid
Incubi Giuseppe Genna racconta i giorni più tragici e sconvolgenti della pandemia in Italia (Rizzoli)

Di Stefano Montefiori
[Corriere della Sera, 30 luglio 2020]

Un libro sul coronavirus, sul lockdown, su come lo ha vissuto l’Italia. Ovvero sull’argomento forse più coperto dai media della nostra epoca. Ore e ore di trasmissioni televisive, tonnellate di pagine di giornali, milioni di caratteri sui siti di informazione. In questi casi, si può scegliere un angolo di attacco, o magari lasciare sedimentare i fatti, riprenderli una volta che siano più distanti e chiari per non correre il rischio di raccontare per l’ennesima volta qualcosa che si è appena letto, visto, vissuto. Con Reality (Rizzoli) invece Giuseppe Genna si butta a capofitto, subito, nella tragedia italiana, raccontandola mentre si svolge, e riesce comunque a dare al lettore una visione unica, incomparabile con quanto è già stato descritto da altri, perché lo sguardo — e la lingua — di Genna sono peculiari, inconfondibili.

«Siamo attoniti», scrive l’autore alla quarta riga, e questa è forse la chiave di tutto il libro (e dell’opera di Genna): l’impossibilità di accettare la realtà per quel che è, lo stupore di fronte a fatti della vita ai quali gli uomini tendono ad abituarsi in fretta. In passato sono stati Vermicino, o la morte di un neonato, o più banalmente i villaggi turistici o l’estetica berlusconiana o gli aperitivi milanesi. Capiterà, se non sta già capitando, con le mascherine. Leggendo Genna si ha spesso l’impressione di averlo lì vicino, che ti prende per il braccio e ti dice «ma ti rendi conto? È pazzesco», e ha ragione, è tutto pazzesco, e questo approccio serve a scuotere il lettore quando gli parla delle biciclette Graziella dell’infanzia così come quando Genna affronta l’inaudito, cioè l’epidemia a Milano, per qualche tragica

settimana capitale mondiale del coronavirus.

Scrittore milanese, 50 anni, Genna trova nella crisi sanitaria e nel lockdown l’occasione per offrire un nuovo capitolo del racconto di Milano che egli ha intrapreso da tempo. «Una metropoli che si è glitterata nell’ultimo decennio, una pandemia del consumo veloce, il piombo reso oro atomicamente. La capitale immorale della nazione Italia, ma priva delle dolcezze italiane, disattenta e attrattiva, die

ci milioni di turisti l’anno. Produce. Produce e produce. (..) Milano a ondate elettriche si accende e la guardano le metropoli del pianeta. E adesso è buia».

Genna percorre Milano con la Vespa «male in arnese», un viaggio da Linate verso il centro che poi lo porterà negli ospedali, e tra i tossici di Rogoredo e al mercato ortofrutticolo, e nella Bergamo del sindaco Giorgio Gori, quell’uomo con «la faccia tra la faina e il perfezionismo» che gli ricorda le marionette di Gerry e Sylvia Anderson nella tv per ragazzi: «Le labbra un poco a ciliegia ma strette si muovono al modo di certe marionette in alcuni telefilm fantascientifici degli anni Sessanta, pupazzi con bocche umane filmate sovra impresse, si muovevano in asincrono, con le labbra troppo rosse e i denti in evidenza, Thunderbirds era il titolo, forse».

Probabilmente solo da Genna ci si può aspettare un passaggio sui Thunderbirds mentre racconta di Bergamo, o sulla «magrezza tiroidea» di Pietro Mennea quando affronta la questione dei runner. Ma non si tratta del solito espediente di mescolare alto e basso, di usare la cultura pop come strumento per strappare interesse. Genna sembra scrivere in stato di trance, il destino fantascientifico di Milano si compie inaspettatamente qui e ora, con decenni di anticipo, e lo scrittore reagisce raccontando quel che vede ma anche quel che ricorda, con associazioni improvvise e impreviste, costretto a guardare l’orrore con gli occhi spalancati come Alex nella cura Ludovico di Arancia Meccanica.

Reality è il racconto di un mondo che era stupefacente anche prima, e che adesso ha solamente cambiato modo di essere straordinario. C’è la Macarena cantata e ballata in modo rallentato, mostruoso, sui balconi, c’è il malato che urla insulti ai medici e «appartiene a una ben nota classe bastarda (..), la quale sta fra la cosiddetta classe media e la cosiddetta inferiore e riunisce taluni difetti della seconda con quasi tutti i vizi della prima, senza avere lo slancio generoso dell’operaio né l’ordine onesto del borghese», e c’è anche il fatto che «bisogna raccontare gli scaffali svuotati. Nessuno di noi aveva mai visto prima il fondo della scaffalatura al supermercato, era un segreto che detenevano soltanto gli addetti a riempirli». Genna sembra avere depurato la sua lingua, sempre unica ma più efficace, al servizio di un viaggio psichedelico nella realtà che tutti vedono, ma non così.

«Siamo attoniti», scrive l’autore alla quarta riga, e questa è forse la chiave di tutto il libro

La Reality imposta dal virus: l’eclissi dell’intellettuale

Era ben chiaro che l’orizzonte dell’italiano fu ed è e sarà sempre il litorale. Era anche prevedibile che, dopo una contenzione e un’incertezza biologica durata mesi, le masse scegliessero il recupero, la spensieratezza, ammesso che la pensieratezza fosse il pensiero. Era inoltre plausibile che il distanziamento sociale fosse un’etichetta sballata, in luogo della distanza fisica. Ci ritroviamo, quasi soli al mondo, ad amministrare una ragioneria della morte che prevede una decina di cadaveri al giorno, anziché le cifre sconvolgenti che colpiscono molte nazioni del pianeta, nel momento in cui la pandemia infuria. Non si sarà mai abbastanza grati al governo e agli esperti incaricati per avere contenuto i danni e ottenuto, più o meno misteriosamente, questa bolla di sanità pubblica tra picchi di contagio e assenze della memoria a breve termine. Di fatto, si vive normalmente, ma nulla è normale. Gli economisti ritengono di riunificare i cocci del vaso per ricostruirlo, quando c’è invece da darsi all’edilizia e non alla ceramica. Nessuna legge economica torna più, appare tutto mestamente incomprensibile, non ci si pone il problema che il soggetto economico in questo momento è il virus stesso e la circolazione di beni e i circuiti di scambio coincidono con la pandemia stessa: è la sua dinamica, il suo trasporto e la sua distribuzione a trionfare. La politica è sotto scacco, perché vengono al pettine nodi che stavano aggrovigliandosi e che l’epidemia ha accelerato nell’espressione e non nello scioglimento: servono leadership collettive, ripensamento dei contratti a partire da quello basale che è il contratto sociale, le reti metropolitane scavallano i confini e si propongono come soggetti multipli e coordinati per governare il passaggio a un’epoca successiva. L’arte è distratta e infartuata nella sua illusione di produzione industriale, legata agli eventi e alle manifestazioni, tanto quanto alle immaturità dei narcisi sfioriti, che fanno memorialistica o produzioni di ideine, intollerabili già prima del virus e gravemente grottesche adesso, tra romanzi storici e thriller del tutto non necessari, serie televisive young adult e modern family à go go, azzeramenti della settima arte e blocco delle creazioncine comunicative a 5mila euro l’anno per masterclass inutili ancorché dannosi. Un sistema simula se stesso, in questa simulazione si vede bene che il simulacro era un sarcofago, per etimologia un “mangiatore di carne”. Mi pare che si stia vivendo una sostanza storica eccezionale, sembra di essere in un grand canyon in attesa della rocciosa sponda opposta rispetto a quella di provenienza, in un agone tragico perché massimamente ambiguo, con il pianeta unificato dal sentimento della morte, dal fantasma dell’estinzione di specie, da un colpo inferto al corpo emotivo di tutto il globo, un’umanità rotta per trascinamento, che tiene in mano come una bambina i meccanismi frantumati di un gioco che prima funzionava male e ora è irricomponibile. A maggior ragione mi sconcerta, ai limiti dell’indignazione, questa assenza della mediazione che il pensiero commina a se stesso attraverso il vaniloquio degli osservatori preposti a vedere più che a guardare. Dove sia la parola profetica, che mantiene la promessa di ciò che succederà, è l’autentico noir e l’enigma sempre semifinale, che dice il destino magro di una funzione fondamentale, che pare oggi completamente esaurita. Cosa facciano dicano pensino esprimano i colleghi scrittori artisti filosofi sociologi intellettuali in genere, a oggi, è un mistero, che si risolve in una grande, grande immoralità. La spiritualità parla per via biologica e nessuno intona la danse macabre o il canto di primavera. In questa faglia mitologica, che è tale perché l’orrore è un elemento quintessenziale del mito, l’umanità a me contemporanea sembra tacere la parola, l’intonazione, lo scongiuro, la maledizione o, più urbanamente, la critica. Proprio in questa faglia, per quanto concerne il piccolissimo che sono e che rappresento, ho scritto “Reality” per parlare il linguaggio che va a zero all’orizzonte della mia specie e della sua passata senescenza, che ora si fa rinnovata in modo radicale e potente, in uno spazio che va da Marte al foro interiore nel cuore di ognuno. Mi sia permesso il prolasso e l’accusa ai coetanei, alla fraternità spezzata e ritrovata su altri piani, su orizzonti altri.

Esce “Reality. Cosa è successo”

Oggi, 14 luglio 2020, esce “REALITY”, il mio nuovo libro, edito da Rizzoli. E’ un testo composto vertiginosamente durante la fase iniziale e più acuta della pandemia da Covid. Inizia dunque oggi l’avventura? No: continua, è diverso. I giorni del lockdown hanno costituito una tragedia per un coro muto, mentre si alzavano le grida impressionanti di chi suo malgrado, con immensa pena, di quella tragedia è stato eroe – poiché chiunque è sempre eroe, anche il coro. I morti – i morti: queste vite, queste storie, questi universi sono stati cancellati, con immenso dolore loro e malcerta sofferenza nostra, attutita perché molte persone non hanno accusato lutti. Il tempo si è materialmente piegato sui morti. Ho scritto nella morte, nello spazio della vita che sente i morti, in modo distratto o furioso, nell’infarto dell’aria. Questa scrittura continua, non inizia mai e nemmeno finisce (si spera che neanche sfinisca). Da oggi, dunque, il nuovo libro “Reality – Cosa è successo” comincia il suo controcontagio, libro patologico come ogni libro deve essere a mio parere. Ringrazio già da ora chi avrà la bontà di leggerlo. E’ per i morti, è per i vivi – quello che potevo fare, nel mio piccolissimo.
Qui di seguito, il testo dell’aletta del libro: “L’inimmaginabile accade. Da Oriente a Occidente l’epidemia di Covid-19 dilaga come una peste destinata a cambiare la vita umana sul pianeta Terra. Le metropoli si spengono. I supermercati si svuotano. Le strutture del sistema collassano. Metà della popolazione mondiale è reclusa in regime di quarantena.Giuseppe Genna scivola tra le maglie del lockdown per riempire di parole l’orrore impronunciabile, restituito a malapena dalla numerologia dei morti, opaco agli sguardi che spiano il mondo desolato. Sfida la notte blindata nelle strade di Milano, Wuhan d’Europa, per indagare i giorni della pestilenza. Accede a luoghi interdetti, penetra nei reparti infetti, nei cimiteri sull’orlo delle fosse comuni, nelle case dove giacciono – insepolte – le salme. Si incunea nelle stanze del potere e nelle carceri in rivolta, nei poli logistici e nelle residenze per anziani decimate dal virus. Interroga le immagini spettacolari, e indimenticabili, dell’apocalisse: il sonno di un’infermiera che dorme per la stanchezza e il dolore, il procedere lento del convoglio militare che trasporta le bare via da Bergamo, lo sconvolgente rito celebrato dal Papa in una piazza San Pietro deserta. Attraversa l’età del disastro globale, i gironi di un inferno fisico e spirituale fino a riveder la luce di una speranza incerta.Reality narra ciò che è successo e, come nella Chernobyl di Svjatlana Aleksievic, coglie l’essenza malata di questo tempo. È resoconto di universi che crollano, tragedia classica in epoca contemporanea, diario della contaminazione, coro del disastro. E della salvezza.”

La pandemia che assaltò un tempo devastato e vile

Nella più recente versione di “Assalto a un tempo devastato e vile”, edita da minimum fax, risulta che nell’estate 2009 io scrivessi questo: “Sono fatto accomodare direttamente davanti all’astanteria del pronto soccorso e qui almeno venticinque anziani sotto ossigeno parlano nonostante le maschere dell’ossigeno, sono morenti, si vede vizza la loro pelle gialla, piagata, i vestiti privi di una qualunque coerenza stilistica, quella sorta di slacciamento finale che anticipa in estetica quanto accadrà in fisiologia. Il golfino marrone chiaro, i pantaloni verde marcio in un tessuto poco spesso, le scarpe traforate, il vicino indossa un pullover a scacchi multicolori e tiene un basco sulla nuca pelata e parlano da sotto la maschera per l’ossigeno, fittamente, dell’influenza A, la Suina, la Nuova, la pandemia che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato come la versione rinnovata della Spagnola, tutti sono terrorizzati, il primo morto a causa di influenza A non è morto a causa di influenza A, a Napoli, nessuno è andato al suo funerale per la paura, le scorte di Amuchina si sono esaurite in poche ore, anche a Milano, per via degli annunci tremendi sulla pandemia che va interrotta interrompendo le strette di mano per via dei germi, tutto deve essere disinfettato. Sono più di venticinque vecchi, tossiscono, gravi in insufficienza respiratoria, una sorta di coro tragico disposto su una skenè fintamente tecnologizzata, borbottano, hanno paura, sono terrorizzati, dicono che moriranno per l’influenza A mentre stanno morendo per un virus parainfluenzale, non si accorgono che stanno morendo adesso, parlano di quando moriranno dopo, la parola “pandemia” viene pronunciata un numero impressionante di occorrenze.
La pandemia è l’annuncio della pandemia.”

Giulio Giorello

Per le conseguenze del Covid è scomparso a Milano il filosofo Giulio Giorello.
Fui suo allievo alla cattedra di filosofia della scienza e interlocutore in seguito. Vorrei ricordarlo con un tremito d’anima, è la quarta persona tra i miei amici e conoscenti a morire per questo virus, che pare non avere impresso a sufficienza la sua pedagogia nei cervellini infeltriti della nazione più tossica che c’è.
Veniamo a Giorello, ora.
Era un uomo di capelli strani messi a confronto con le sopracciglione di Carlo Ginzburg in una faccia severa, con la montatura degli occhiali spessa, a significare lo studio e una sapienza fine anni Settanta, Ottanta. Di un illuminismo mai scabro, ma una fantasticheria del positivismo con l’immaginazione, secondo me, ulteriore a ogni teorema, per esempio l’incompletezza e Gödel, e fare tanti esercizi sullo Shoenfield per la logica matematica (stavo facendo quello, gli esercizi e Cantor, nel sottoscala a Brera nel 1993, quando apparve un volto di turista inglese ed era il primo amore invece, l’ultima volta che la vidi: i ricordi vanno così, chiedo scusa a tutte, a tutti). Quindi con Tex Willer ti sembrava un po’ pop e ti insegnava il liberalismo con un Seicento inglese e i Padri Pellegrini, dicendoti che il continuo in logica meritava una riflessione meno umanistica che pratica, secondo il magistero del maestro Ludovico Geymonat, sotto cui era cesciuto nell’intelligenza delle cose e dei saperi, lo demoliva per via del marxismo in maniera militante, l’altro a farlo era Stefano Zecchi. Nessuno voleva bene a nessuno. L’ultima volta che parlavo a Giorello mi diceva: sento colpa nei confronti della vostra generazione, vi abbiamo massacrato perché eravate troppi all’università a filosofia, al primo esame avevo dovuto portare quarantadue testi di esame, di filosofia antica della Caizzi, discepola di Untersteiner, solo per studiare il “De Anima” di Aristotele e Giorello rideva. Non fa niente, gli dissi che non faceva niente, tanto la realtà tendeva sempre e da sempre e per sempre a farti le difficoltà non spiegabili da Frege e da Feyerabend, Paul, filosofo che gli piaceva, per via delle rivoluzioni scientifiche e il metodo. Faceva scrivere i suoi assistenti, non scriveva mai, tutti erano scandalizzati per questo. Grande Giorello. Aveva fatto una collana di filosofia delle idee per l’editore Cortina, con tanti titoli di ottimati della scienza storia filosofia morale. Passavo a quei tempi poche ore in Festa del Perdono, lavorando, a vedere stormire delle foglie contro le case ricche delle famiglie ricche, pensando agli appestati nelle pestilenze secentesche e oltre, riflettendo sulla diluizione che la prosa applica al pensiero, che di per sé è poetico e rapsodico, repentino, non disteso, va ad archi voltaici, attraversati dal profumo di legno di rosa nel 1993 tra i miei disastri…

Cos’è la Lombardia

Dovremo dunque dire qualcosa della Lombardia. Cos’è la Lombardia. Secondo me è un pezzo di terra con dell’erba, delle montagne a forma di sega e dei laghi dove vanno gli americani celebri, in dei castelletti che danno sul lago, con delle spiaggette che non sono spiagge, ma dei sassi un po’ neri, dove non voglio stare, se ci vado allora prendo un asciugamano grande e mi metto lì, sto lì. C’è anche la Brianza, con tutte le cose che si sanno nel mondo, di questo Texas con la nebbia, si cercano i butteri e si trovano dei mobilifici ovunque, lì fanno i divani e sono molto doviziosi rispetto ai soldi, con grandi capacità di un’abnegazione dove non voglio essere. C’era il Parini e il Manzoni aveva questa faccia scura di un cattolicesimo fatto di ginocchia piegate su assi di mogano nelle chiese più umide e vereconde, con il suo cattolicesimo stranissimo in una forma di giansenismo, che viene da Giansenio che non ho mai capito chi era, non volevo saperlo, mi faceva paura. Il massimo della Lombardia di Milano secondo me è piazzale Loreto, dove arrivi da Monza se sei di Monza, ma ha degli oblò novecenteschi incomprensibili in un prato in mezzo alla piazza e tutti ancora stanno a guardare il Duce appeso, c’è molta polemica su questo. Poi c’è misteriosa Varese dove non c’è niente e una versione peggiorativa sulle montagne, che è Sondrio. A Bormio tutti sciano e partoriscono Deborah Compagnoni, ha vinto tanto. Dall’altra parte vai a Bergamo, dove non ricordo niente se non che è bella e è piena di muratori nelle valli attorno, tra cui Bossetti, vengono giù a Milano, costruiscono tutto loro, materialmente. Dall’altra parte ancora hai Cremona Mantova Pavia, che è la parte democratica con più comunisti che altrove, ci sono anche dei cespugli e della flora diversa, ti avvicini al Po padano, si mangia meglio (su, solo i pizzoccheri). E’ più Berlinguer che altrove. In totale qui vive un efficientamento molto orgoglioso di un silenzio montagnino, il pudore si sfinisce nella tonalità di base del lombardo che è la Ü. A Brescia, la bomba e Martinazzoli, ma da piccolo ti dicevano che era una Leonessa. Ci vai la prima volta e ti accoglie una piazza squadrata da Mussolini. Milano lasciamo stare, è diversa, c’è sempre. Mi fanno schifo le rogge. Ci sono ovunque quelli di CL, Formigoni. Hai Pontida con Gad Lerner ogni anno. Fanno il burro. Mangiano queste cotiche spesse con delle verze in umido in una broda, è la cassoela. Orzinuovi si trova qui ma nessuno è proprio certo che si trova qui. Abbiamo il cielo e Stresa, con le vacanze intelligenti del 1956, andavano tutti lì. C’è anche la San Pellegrino, la Polenghi Lombardo e anche l’Alfa, ma la hanno evacuata più e più volte, nessuno sa più se ci sono gli operai o è deserto lì. Molto bello il belvedere ovunque. Prendi i traghetti e hai lo spirito lacustre oppure le Alpi e sei prima della Val d’Aosta, regione strana con degli strani dialetti loro verso la Francia e Gressoney. Le villette dei geometri spaccano con dei nani da giardino ovunque l’aria forte stagna tipica della Lombardia.
Per tutto questo io guardo i volti e sento le voci di Attilio Fontana e Giulio Gallera.