Letteratura e senso

Stamattina alle 7.20, camminando solitario sugli asfalti lucidi di pioggia di via Ripamonti a Milano, pensavo e sentivo le stesse cose che trovo scritte da Aldo Nove su Facebook e che riproduco qui sotto. E’ il motivo per cui mi sono sentito sempre a disagio con la forma romanzo. Un mio amico scrittore, splendida persona e intellettuale profondissimo, Valerio Evangelisti, diceva: non si capisce quello che scrivi se non si tiene conto che vieni dalla poesia e stai ancora nella poesia, e in più ti “centri” in Plotino. Non capivo, poi ho capito: aveva ragione. Non c’è molto da ragionare intorno a questa “sete” di verità, che è desiderio profondo di senso, del testo come veicolatore verso il senso, cioè del testo come fionda verso ciò che viene avvertito come “vuoto”: la verità è infatti un luogo paradossale, non una formula, non il volano di un’ideologia. Per questo la letteratura, come tutte le arti, che sono testuali anche se non utilizzano le parole, consegnano all’artista e al fruitore una “clavis universalis”: che è la metafisica, ovvero lo stupore, la capacità di stare in un incanto nello stato di “non sapere”. Non si tratta di un obbligo esistenziale per chiunque, ma certamente a un punto della propria esistenza uno che scrive o che crea sente proprio questo come obbligo, nel senso che qualunque alternativa a tale sentire è percepita come vana, teatrale, grottesca. Allora si incomincia a stare davvero insieme agli altri, nel luogo unico della verità e del senso – cioè nello stupore luminoso che, espresso con queste parole, è nuovamente un gesto teatrale, perché quelle sillabe sono incapaci di rappresentare uno stato che non si rappresenta, in quanto è la sostanza stessa della rappresentazione. Non è né facile né difficile: è bello e basta. Io lì voglio stare. E’ peraltro il fondamento dell’amicizia, dell’amore e, secondo me, della stessa luce.

576464_410267862335646_1449008445_nAggiornamento di stato di Aldo Nove II: “COME SI DIVENTA. Sono ormai anni che non sopporto più alcuna lettura che non mi trascini nella Verità. Non saprei dire con precisione cosa sia, la Verità e il suo filtrare da un testo, ma la “sento” benissimo, la “annuso” nelle prime pagine. Non ha a che fare con l’intrattenimento (parola odiosa), la bella scrittura, l’affabulazione mirata a colpire il lettore, l’ostentazione narcisistica dell’ego dell’autore. Non me ne frega più nulla dei libri ben fatti, di quelli “divertenti” o ammiccanti. Credo che per me la letteratura sia una questione di vita o di morte. E non voglio sprecare la mia vita.” (http://on.fb.me/1njy5bu)

Evangelisti: REX TREMENDAE MAIESTATIS

Su Vanity Fair di questa settimana, una presentazione generale della figura di Evangelisti e un invito alla lettura della puntata finale (?) del Ciclo di Eymerich.

Georges Simenon pubblicò più di 100.000 pagine, Emilio Salgari superò i 200 titoli, Philip Dick scrisse 10.000 pagine inedite. Valerio Evangelisti, che si può definire un perfetto OGM letterario composto dai tre scrittori citati, chiude ora un fondamentale ciclo narrativo di dieci romanzi, ambientato (con fantascientifici salti di tempo) nell’Europa del Trecento e dedicato alla figura del grande inquisitore Nicholas Eymerich. Ogni romanzo della saga è a se stante, ma tutti convergono in qualche modo in questo Rex tremendae maiestatis (Mondadori Strade Blu, € 18,50), che si fa divorare anche e soprattutto da chi non conosce il latino. Si tratta della summa dell’avventura, l’apice del dungeons & dragon che in poco più di quindici anni ha regalato alla narrativa italiana il Magister (così è soprannominato dai suoi ammiratori questo autore di culto).
Il Ciclo di Eymerich ruota intorno alla figura storica di uno dei più noti avversari dell’eresia cristiana. Domenicano, inquisitore del regno di Aragona, Eymerich abbandona i panni storici di teologo, per diventare grazie a Evangelisti “il più importante personaggio letterario italiano di questi anni”, secondo la definizione di Goffredo Fofi. Scettico, razionalista, scabro fino all’antipatia, Eymerich affronta demoni e attraversa stati allucinatori, si sposta nel tempo fino a un futuro apocalittico, sempre contrastato da forze buie e strabilianti, dalla Grande Madre all’immateriale spirito del suo più acerrimo nemico, l’alchimista Ramón de Terrága.
Commistionando fantascienza e romanzo di avventura, narrazione storica e thriller, lettura politica e spy story, Valerio Evangelisti ha distrutto tutti i cosiddetti generi letterari, per lasciarne in piedi uno solamente: la narrazione pura, quella che da bambini rapisce e incanta, tanto che non si vede l’ora di riaprire quello scrigno cartaceo che, tra qualche anno, cartaceo non sarà più. Facendo esplodere bolle spaziotemporali, il mago Evangelisti (autore tra l’altro proprio di Magus, una trilogia che ha per protagonista Nostradamus) ci conduce in una sorta di Lost letterario all’ennesima potenza, in cui il destino è un gioco stupefacente, una lotta tra umani e potenze infere o superne. A Valerio Evangelisti è assai nota la materia storica in cui si muove Eymerich, questo sdegnoso e iracondo e misogino prete che sembra uscito da un film di Sergio Leone. Soltanto lugubri baronati universitari impedirono infatti a Evangelisti di ottenere all’università di Bologna una cattedra in storia medievale. Sposatosi giovane, questo talento che in Francia è letteralmente un idolo optò per un posto fisso, presso l’Erario (che gli italiani temono almeno quanto gli incubi di Eymerich). Visionario ed erudito, Evangelisti partecipò nel 1994 al mondadoriano Premio Urania, il Nobel italiano per la fantascienza – e lo vinse. Da quell’anno Evangelisti è diventato scrittore di professione a dir poco fluviale, pubblicando ventuno romanzi, dal fantasy più sfrenato ad avventure piratesche, western, noir. Fino all’ambigua soluzione semifinale di questo capolavoro definitivo, che è Rex tremendae maiestatis – l’avventura delle avventure di Nicholas Eymerich, inquisitore ed eroe dei lettori italiani.

La Potenza Femminile in Evangelisti: VERACRUZ

Al momento Valerio Evangelisti ci ha consegnato una “diade”, piuttosto ambigua dal punto di vista narrativo, sulla congrega piratesca dei Fratelli della Costa: Tortuga prima e Veracruz poi. Sono due libri invertiti e inscindibili: prima il sequel e poi il prequel, prima la fine e poi ciò che prelude alla fine. L’ambiguità narrativa è un insieme di allusioni, in cui emergono nuclei di riflessione che possono essere connessi alle dinamiche di azione dei personaggi oppure consistere come apparenti impressioni, eventualmente rilevabili con accurate incursioni testuali. Non sono un critico e non compirò questo lavoro. Intendo soltanto, e brevemente, esprimere alcune considerazioni personali su Veracruz, prescindendo dai suoi rapporti con Tortuga, romanzo che, se letto, a mio avviso conferma le considerazioni che vado qui facendo.
E’ possibile leggere la diade sui pirati di Evangelisti come ennesima conferma (ma davvero: ne ha ancora bisogno, quest’autore così complesso sub specie secreti mentoris?) di certo salgarismo. E’ vero, è indubitabile: un piano della narrazione di Evangelisti (autore che struttura più livelli di lettura e di senzienza) è salgariano. Un salgarismo particolare, però.
Continua a leggere “La Potenza Femminile in Evangelisti: VERACRUZ”

Il Miserabile e la Rete letteraria sul “Corriere della Sera”

Si parla di Rete, di scrittori, di letteratura. Si parla anche di Carmilla. E si rende implicita una Cosa che sta nascendo. Il Miserabile è contento come una puerpera a pochi giorni dal parto… Per leggere la versione pdf, basta cliccare sull’immagine.

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Quel matrimonio (inevitabile) tra Internet e letteratura
Genna: «È cambiato il linguaggio». Moresco: «Messaggi superficiali»
di PAOLO DI STEFANO
[dal Corriere della Sera]

Che rapporto c’è tra letteratura e nuovi media? Ammettiamolo pu­re, sono passati oltre dieci anni dal­la nascita del web e ancora nessu­no saprebbe rispondere con precisione a que­sta domanda. Eppure, indubbiamente il pa­norama letterario (che non significa ancora la Letteratura) è molto cambiato. Il primo (e visibilissimo) effetto di Internet è che se pri­ma il dibattito, il confronto, l’informazione si tenevano soltanto sui giornali e sulle riviste (cartacee), da qualche anno le sedi di discus­sione sulla letteratura si sono moltiplicate e «democratizzate». L’era del blog ha reso ac­cessibile a tutti un’area in cui prima avevano diritto di parola solo gli addetti ai lavori.
Tutto ciò ha finito spesso per creare un sol­co ancora più netto tra apocalittici (che resi­stono alla nuova barbarie) e integrati (i nuovi barbari, appunto). Su questi temi si interro­gherà per un fine settimana, tra il 2 e il 4 otto­bre, Oronzo Macondo , una «Writer’s Factory» che raccoglierà nell’Agriturismo Vil­la Conca Marco di Vanze (provincia di Lecce) un gruppo di intellettuali web-integrati: scrit­tori (da Gianni Biondillo a Paolo Nori e Anto­nio Pascale), critici, teorici e sociologi della rete (come Carlo Formenti e Michele Trecca). Le domande possibili sono tante: per esem­pio, se il web ha comportato o comporterà un mutamento nelle forme di scrittura, se è cambiato lo statuto della critica militante, quali sono le conseguenze dei nuovi canali nel mercato editoriale. Le esperienze italiane in tal senso sono varie e per molti versi con­traddittorie. Lo mette subito a fuoco lo scrit­tore Giuseppe Genna, cui si devono apporti quasi pionieristici a Clarence , poi alle riviste I Miserabili e Carmilla con Evangelisti: «Fino­ra — dice Genna — solo una parte minima di intellettuali italiani ha discusso di contenuti in rete: all’inizio erano cinque o sei e tutto sommati non sono aumentati di molto. Po­chi hanno capito che c’è uno spostamento di baricentro che comporta l’acquisizione di nuovi linguaggi. E gli intellettuali che hanno operato nel web non sono stati ascoltati dalle istituzioni culturali, in primo luogo gli edito­ri ». Detto questo, è anche vero che molti siti nati con grandi speranze hanno chiuso per la superfetazione di materiale inerte: «Diciamo che quelli che resistono vedono aumentare i lettori in maniera impressionante. Carmilla, fatta da tre-quattro scrittori nei ritagli di tem­po, raggiunge 320 mila lettori al mese, una cifra impensabile in passato per riviste anche importanti come Alfabeta . È una realtà (non proprio virtuale) che non si può ignorare. E bisogna aggiungere che i nuovi hardware moltiplicheranno ancora gli effetti. Poi è an­che vero che aprire a tutti i commenti produ­ce spesso un carnaio che porta all’implosio­ne ».
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Il tempo inadeguato alla narrativa

[questo intervento è apparso sulle pagine di Carmilla]

In un intervento che considero abbastanza centrale e che ho qui ripubblicato, Valerio Evangelisti pone una questione importante sui rapporti tra letteratura, immaginario e realtà, partendo da considerazioni politiche e rimettendo in discussione lo statuto della cosiddetta letteratura “bianca”, geneticamente minimalista per trasformazione sua propria in questo tempo. Sulla natura della contrapposizione tra minimalismo e massimalismo effettuata da Evangelisti, va precisato che si tratta di affrontamento di temi cruciali della realtà e della psiche, cioè dell’àmbito biopolitico, non escluso l’immaginario stesso. Da una parte il minimalismo è una reductio ad stilem supportata da una psicologizzazione o una reductio ad realitatem non supportata da una forma adeguata ai tempi. D’altro canto c’è il percorso massimalista, accidentato, ma bene emblematizzato da un genere letterario, la fantascienza o meglio il fantastico, la cui estensione tenterò di determinare.
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Enzo Mansueto sul ‘Corriere del Mezzogiorno’: “Anteprima nazionale”

42_anteprima_nazionalegE’ uscita in edicola una bellissima recensione del critico Enzo Mansueto circa l’antologia narrativa di nove racconti e una prefazione nei tipi minimum fax Anteprima nazionale – Nove visioni del nostro futuro invisibile (laddove il costo si quantifichi in euro 13 e 50 centesimi; e inoltre: 226 pagine – maggio 2009 – ISBN 978-88-7521-222-3), curato il testo da Giorgio Vasta (si sottolinei qui: candidato al Premio Strega per il suo romanzo splendido e importante Il tempo materiale, minimum fax essendone ugualmente editore). La recensione del Mansueto ha ottenuto pubblicazione in una pagina intera che il Corriere del Mezzogiorno ha dedicato a suddetta antologia, con una intensa fotografia di Giancarlo De Cataldo a corredare il pezzo (è infatti uno degli autori partecipanti all’antologia stessa: insieme al sottoscritto e a Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Valerio Evangelisti, Giorgio Falco, Tommaso Pincio oltreché Wu Ming 1).
Quivi pubblico il file in formato pdf della pagina firmata da Enzo Mansueto, scaricabile assai semplicemente con un clic. Ne anticipo lo incipit di seguito qui sotto!

“La parola ‘futuro’ pare non avere più una cittadinanza in una società freneticamente schiacciata dalla soddisfazione di desideri mercificati, dalla ipertrofia del tutto e subito, da un presente iperesteso e globalizzato.”

[PS. Poiché mi è stata fatta notare la sorpresa di un apparente mutamento della di me scrittura, quasi desiderassi parodiare malamente l’Ingegnere o Ippolito Nievo, specifico che tale nonstile verrà indefinitamente adottato finché le viscere detteranno tale inclinazione, per nulla scherzosa!, semplicemente rispettosa di una angolatura della libido epperò in sé e per sé del tutto priva di significazione alcuna o tantomeno offensiva nei confronti di qualcuno o qualche cosa! gg]

Seconda anteprima da “Anteprima nazionale”

42_anteprima_nazionalepCome già scritto nell’àmbito della prima corposa anticipazione, per le cure di Giorgio Vasta minimum fax ha pubblicato Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile (€ 15; la copertina è cliccabile), in cui compaiono racconti di Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Giancarlo De Cataldo, Valerio Evangelisti, Giorgio Falco, Tommaso Pincio, Wu Ming 1 e un racconto mio.
Il mio racconto si intitola: La infinita beltà del programma si vedrà di lontano.
Protagonista assoluto del futuro programma televisivo più seguìto dell’intera storia televisiva italiana, e cioè di una trasmissione che si svolge in non si sa quale tempo ma comunque nel futuro remoto, lo sconosciuto presentatore Enzo Tortora è còlto – in questa anticipazione ulteriore – nella sorpresa della diretta, mentre sta descrivendo una seduta di ipnosi regressiva che il celebre dr. Brian Weiss pratica sull’icona della d.ssa Tirone. Ça va sans dire che i personaggi sono fittizi e i nomi indicano puri ologrammi mediatici di pubblico dominio, che nulla hanno a che vedere con persone fisiche. La foto di corredo è cliccabile per visionare a degna dimensione.

tortora_longarini_mini“[…] Ecco vedete la lingua incomprensibile del dottor Weiss, lingua incomprensibile biascicata, disarmonica, questa lingua di merda anglosassone trasformata da una distanza oceanica dall’isola che l’ha partorita, vedete come distorce la bocca del dottor Brian Weiss, quasi stesse masticando un chewing gum, lingua incapace di poesia, di narrazione, fatta di ritmi che soltanto il sax di un jazzista può nobilitare, questa lingua buccinante e parodistica, questa lingua ironica e filamentosa come certa bava, questa lingua delle scie di lumaconi senza guscio, questo sfrigolare di carne alla griglia strapiena di acqua e mutazioni perniciose in riva a una piscina famigliare piena di cloro e zanzare morte, vedete questa lingua con cui il dottor Weiss domanda alla sua paziente ‘Descrivi la situazione in cui sei, cosa ti sta succedendo’.
E non è una domanda!, è un ordine!, ma io ho fatto finta che fosse una richiesta, la gentilezza abusata diventa ciò che qualunque maschio fa con qualunque femmina, le ultime due comunità formalmente disposte a scontrarsi prima dell’estinzione della specie, crolleranno gli stati, cioè le nazioni e le situazioni immersive in cui siamo psicoemotivamente coinvolt* tutt*, e la paziente, l’indimenticata dottoressa Tirone che si produceva in memorabili televendite ai tempi d’oro che nemmeno riusciamo più a collocare risponde all’ordine, bisogna che questa civiltà faccia una statua d’oro al maestro di tutti noi, Ivan Pavlov, quello del memorabile cane, che gli siano consegnate le chiavi di Roma, ma attenzione!, dalla regia un messaggio a sorpresa!, un dramma per cui siamo costretti a interrompere momentaneamente l’esperimento di ipnosi regressiva, la linea alla regia, eccola, ascoltiamo che ha da dirci:

“INFORMIAMO I NOSTRI SPETTATORI CHE E’ APPENA GIUNTA IN REDAZIONE LA FERALE NOTIZIA DELL’IMPROVVISA MORTE DEL NOSTRO PONTEFICE, CHE E’ STATO IMMEDIATAMENTE SOSTITUITO DA IVAN PAVLOV IN UN CONCLAVE LAMPO STRAORDINARIO”

Abbiamo un nuovo Papa ed è proprio Ivan Pavlov!, sono gli inconvenienti della diretta!, festeggiamo l’incredibile notizia dell’elezione del nuovo pontefice abbattendoci nel lutto per la morte del precedente!, alziamoci e facciamo un minuto di silenzio per la morte del precedente mentre al contempo urliamo tutti il nostro giubilo per l’elezione del nuovo al soglio di Pietro, quest’uomo fatto di pietra su cui hanno eretto tutto, non di sabbia, ma di pietra, senza tondìni e senza carpenteria, fondamenti di roccia come ai bei tempi andati chissà dove, tempi che addirittura precedono quelli già incollocabili del Medioevo, abbracciamo questo Papa inutile ma a cui teniamo tutti tantissimo non credendo più all’anima, alla redenzione e fortunatamente all’inesistente Dio, facciamo la hola per la memoria dell’inesistente Dio, che noi occidentali abbiamo confuso con il limite e con l’errore della morte non comprendendo cosa fosse il dolore, non scavando nel nesso che allaccia amore e solitudine,
Ma non perdiamo tempo, sentiamo ora il racconto della dottoressa Tirone agli ordini del dottor Brian Weiss, che è il Sostituto Di Tutto Il Cristianesimo, perché è in grado di interagire con il nostro vero passato adulatorio in quanto ingannatore in quanto finto ma moralmente tale e oscenamente spiattellato per il nostro desiderio di erigere un limite da abbattere, la mente non ha confini, noi esondiamo, siamo l’onda anomala che spacca qualunque schermo, siamo l’abbraccio incondizionato, siamo il gratis et amore dei, cioè di chiunque al plurale, e ascoltiamo la dottoressa che ci racconta della sua vita passata con smorfie di dolore che non sente, questo è il paradiso che abbiamo tanto sognato!, provare dolore non sentendolo!, ed ecco la risposta, eccola “

Una corposa anticipazione del racconto di ANTEPRIMA NAZIONALE

42_anteprima_nazionalepPer le cure di Giorgio Vasta, minimum fax ha pubblicato Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile (€ 15; la copertina è cliccabile), in cui compaiono anche racconti di Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Giancarlo De Cataldo, Valerio Evangelisti, Giorgio Falco, Tommaso Pincio e Wu Ming 1.
Il mio racconto si intitola: La infinita beltà del programma si vedrà di lontano.
Eccone una corposa anticipazione:

“la rappresentazione è finita nell’interiorità”

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Avviso agli eventuali lettori diretti a Torino: la Miserabile assenza

Mi scuso in anticipo con chi, eventualmente, trovandosi al Salone del Libro di Torino, fosse interessato alla presentazione di Anteprima nazionale, antologia minimum fax curata dal candidato al Premio Strega Giorgio Vasta (non si finirà mai di raccomandare la lettura del suo folgorante Il tempo materiale, uno dei libri più profondi usciti in Italia in questi anni e su cui interverrò prossimamente). Alla presentazione è previsto che partecipi il Miserabile sottoscritto. Tuttavia, in quanto Miserabile, miserevolmente egli sarà impossibilitato a recarsi sotto la Mole sabato. L’evento, annunciato in varie sedi, e dall’Editore in primis, va dunque corretto in corsa, così come qui di seguito. A me tocca scusarmi per l’assenza con organizzatori e lettori nel caso interessati – vivo un momento piuttosto travagliato e davvero non mi è possibile spostarmi. Ecco la segnalazione della presentazione:

SABATO 16 MAGGIO

Stand R 119 del Circolo dei Lettori – Padiglione 3 – ore 18

APERITIVO CON ANTEPRIMA NAZIONALE

Gli autori, il curatore, gli editori di Anteprima nazionale e Antonella Parigi, la direttrice del Circolo dei Lettori, incontrano il pubblico.
Per informazioni: www.circololettori.it

A seguire: Sala Gialla – ore 19 –minimum fax, Italia 150 e Circolo dei Lettori presentano:

Anteprima Nazionale. Immaginare l’Italia da qui a vent’anni

Intervengono: Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Giorgio Falco, Tommaso Pincio, Giorgio Vasta. Modera Michele Serra

Crime: un bilancio

di Giuseppe Genna
[da “il manifesto”, 17.2.2009]

crime.gifMUTAZIONI DI RETORICA NELLO SPETTRO DEL NOIR
Oscenamente più splatter e abissalmente più nera di ogni genere narrativo, la morbosità derivata dalla esibizione della morte, che ci viene compulsivamente propinata dai media, sta modificando il genoma di correnti letterarie che vanno dall’hard boiled al romanzo epico. Contribuiscono alla mutazione le fiction, spesso apologetiche nei confronti delle forze dell’ordine, e le strategie dei nuovi serial tv

Più o meno da sempre i critici letterari italiani hanno inveito contro il successo di massa di alcuni libri: thriller o noir che fossero, i loro autori provenivano da zone troppo lumpen della narrativa. Ma l’onda lunga dei «libri neri» non sembra essersi perciò arrestata: la trilogia “Millennium” di Stieg Larsson, e tutto lo tsunami svedese, sono una conferma, almeno apparente, di questa vitalità.
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Affari Italiani: intervista al Miserabile su Italia De Profundis

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum faxIl sito ufficiale
ITALIA DE PROFUNDIS su minimum fax
Rassegna stampa e materiali
Anticipazione sul blog Il Miserabile
Ipertesto della Scena italiana come inferno
I booktrailer: 1234
Videomeditazioni: La storia non siamo noiStoria di fantasmi
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“L’Italia? E’ un’avanguardia dell’osceno”. Giuseppe Genna ad Affari
di LUCA VAGLIO
[da Affaritaliani.it]
genna_affari.jpg“L’Italia in questo momento è un paese di avanguardia, una frontiera dell’osceno dove stanno arrivando a maturazione processi disgregativi e trasformazioni dell’umano che sono la china su cui discenderà tutto l’Occidente…”. A parlare è lo scrittore Giuseppe Genna, che ha scelto Affari per spiegare la sua visione del degrado culturale italiano e per parlare di alcuni dei temi trattati nel suo ultimo libro “Italia De Profundis” (Minimum Fax). Le ragioni della degenerazione? “Stanno nella spettacolarizzazione dell’immaginario, iniziata negli anni ’80 con la nascita delle tv private…”
Perché nel suo ultimo libro parla dell’Italia come del luogo che ha “disimparato ad amare”?
“L’Italia ha avuto una mutazione antropologica e sociale negli ultimi 30 anni, da noi l’oscenità si sta manifestando in modo più potente che in altri luoghi. Si è inverata la profezia pasoliniana dell’involgarimento di massa, della spettacolarizzazione, del discorso unico che sostituisce il dialogo… E se da un lato c’è un imbarbarimento del luogo Italia, dall’altro io stesso sono connesso, con ossa, nervi e muscoli, a questo processo di anestesia emotiva e disamore. Io, che ho disimparato ad amare e ad amarmi, sono questo luogo…”
E fuori dall’Italia le cose stanno diversamente?
“Sì, senza dubbio. Penso che l’Italia sia in questo momento un paese di avanguardia, dove stanno arrivando a maturazione processi disgregativi e trasformazioni dell’umano che sono la china su cui discenderà tutto l’Occidente… Altri popoli sono più indietro lungo questa forma di evoluzione, la metastasi lì è rallentata, c’è ancora qualcosa che frena la metamorfosi dell’umano in insetto. Ad esempio, recentemente a Copenaghen ho avvertito una maggiore pietà per l’altro, una percezione che l’altro sia parte di sé, che da noi, attorno a me e dentro me, è come evaporata”.
E perché, a suo avviso, in Italia questa disumanizzazione è più accentuata che altrove?
“In primo luogo perché noi non siamo un popolo, non abbiamo mai elaborato una cultura nazionale… al più abbiamo una cultura statale e parastatale. E la storia del paese, dalla 2a guerra mondiale agli anni ‘70 è continuamente messa in discussione da revisionismi devastanti. Lo Stato è da sempre un’entità distante dai cittadini. A questo si aggiungano i misteri di Stato mai chiariti e le ferite mai sanate, in primis quella del terrorismo in rapporto quale si pretende un pentimento carcerario, una reclusione sine die e non il recupero della persona. E sopra tutta questa disgregazione noi ci abbiamo steso lo spettacolo”
In che modo?
“E’ un processo che inizia negli anni ’80 con la nascita delle emittenti televisive private, che si fanno veicolo di un immaginario fragile e distorto. Non c’è nazione in cui l’immaginario è stato contaminato dallo spettacolo come in Italia. Basti pensare alle masse di ragazzini, correva l’anno ’84, che urlavano parole senza senso come “Ass Fidanken”… La memoria del paese è spettacolare, è una berlusconizzazione… di cui lo stesso Berlusconi è un sintomo, non la causa. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini che è in tv, durante la diretta da Vermicino, mentre un bambino muore in un pozzo, e l’anno successivo è al Nou Camp di Madrid, mentre l’Italia sta per vincere la finale dei mondiali calcio, e dice “Non ci prendono più…”. Ma si rende conto Pertini di essere dentro uno spettacolo, che segna una linea di discrimine nella nostra storia? O Antonio Ricci che dice che “Striscia la notizia” è servizio pubblico, quando non è altro che un veicolo di un trauma dell’immaginario. Tutto questo espropria l’umano dell’umano, del linguaggio e di ogni idea o possibilità di cambiare la realtà”
Ma questo fenomeno non riguarda un po’ tutto l’Occidente?
“Sì, ma in Italia si è manifestato in modo più vistoso, anche rispetto agli Stati Uniti, dove, grazie alla struttura federale e al fatto che la tv pubblica, la Pbs, non era sotto controllo politico come la Rai, la disgregazione culturale è stata meno drammatica. Ricordo che nel ’69, quando venne fermato dalla polizia l’anarchico Pietro Valpreda, a pochi giorni dalla morte di Giuseppe Pinelli, c’era un giornalista che intervistava il questore di Milano e dava per certo, usando un tono quasi autoritario, che fosse stato preso il colpevole. Il giornalista veicolava una falsità, spacciandola per verità, in relazione a un fatto intricato e complicatissimo… Bene, quel giornalista era Bruno Vespa, che oggi continua a fare le stesse cose. Questa è l’Italia. Si veicolano falsità e spettacolo come se fossero verità… La realtà viene spogliata sua della verità, in modo pop…e poiché, salvo poche, luminose eccezioni non ci sono intellettuali in grado di opporsi, il paese è in balia di un unico linguaggio, di un unico discorso”.
Quali sono le luminose eccezioni?
“Beh, l’Italia è un’avanguardia per quanto riguarda l’espropriazione dell’umano, ma lo è anche nella produzione dell’umano. La nostra è la lingua letteraria più antica tra quelle moderne. Alcuni scrittori italiani stanno producendo cose che a livello planetario non si fanno. Nessun americano o inglese è all’altezza del poeta Andrea Zanzotto… pochissimi agiscono politicamente e linguisticamente dentro il testo come Tommaso Pincio, i Wu Ming, Valerio Evangelisti o Walter Siti, probabilmente il più grande scrittore vivente in Italia. Si tratta di minoranze esigue… ma molto costanti nel tempo e avanzatissime. Seamus Heaney o Derek Walcott, gli ultimi Nobel anglosassoni, sono fermi a quello che Giusuè Carducci faceva nelle sue “Odi Barbare”. In Italia siamo oltre la morte della lingua… lo ha detto Carmelo Bene, e negli ultimi anni non si è visto un altro come lui… Ma se si guarda al campo della pubblica attenzione la figura dell’intellettuale viene attaccata, ignorata oppure spettacolarizzata, come è successo a Roberto Saviano, che è stato trasformato in un’icona che non corrisponde a quello che Saviano sente e vuole provocare nel lettore”.
In “Italia De Profundis” esprime un giudizio critico sullo stile della poesia italiana di oggi…
“La poesia italiana non parla più… salvo pochissime eccezioni, come l’ultimo libro di Mario Benedetti, “Pitture nere su carta”, edito da Mondatori o Milo De Angelis e lo stesso Andrea Zanzotto. Questi poeti rappresentano un’avanguardia mondiale. Tutti gli altri fanno piccole cose, nel solco della nostra tradizione lirica, quasi a prolungare una sorta di deriva neopetrarchista… non entrano nell’immaginario e nemmeno nello scavo di sé… è inevitabile che se non scavano dentro di loro non possono parlare agli altri”.
Le cose vanno così male anche per il cinema?
“Qui c’è un problema di industria culturale, non si ha la voglia e la capacità di rischiare, di uscire fuori da alcuni schemi rigidi e prestabiliti. E, sia chiaro, non si rischia producendo “Gomorra”, che pure è un film molto interessante, o “Il Divo” con Servillo… Nella mia esperienza di giurato alla Mostra del Cinema di Venezia (2006, ndr), grazie allo sguardo panoptico sulla cinematografia mondiale regalatomi da quella occasione, mi sono reso conto di quanto sia povero, debole e morto il cinema italiano… Anche l’ultimo dei cinesi ha un impatto estetico, etico, politico, emotivo di una forza a cui nessuna opera del nostro cinema attuale può arrivare”.
E non c’è soluzione a un simile degrado culturale?
“L’Italia per diventare paese deve subire uno shock forte, passare per una fase dura di depauperamento determinata da varie ragioni, dalla crisi climatica alle ondate migratorie provenienti dalle aree più povere. Questo shock sociale diventerà un grande evento politico per il nostro paese. Gli italiani, da poveri, probabilmente recupereranno la loro umanità… forse mi sbaglio, ma io vedo solo questa possibilità di cambiamento. Chi spende il 18% del suo stipendio per il telefonino e non se ne rende conto non è più umano…”.
Non le sembra di avere un approccio un po’ pessimista, di legare la sua analisi a dei presupposti radicalmente negativi?
“Davvero restituisco questa impressione? Non è una cosa in cui mi riconosco, certo rispetto allo stato di cose che ci circondano denuncio una negatività. Ma se non avessi dentro di me l’idea di una positività non parlerei in questo modo”

MilanoNera: Intervista al Miserabile Scrittore

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum faxIl sito ufficiale
ITALIA DE PROFUNDIS su minimum fax
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Ipertesto della Scena italiana come inferno
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Videomeditazioni: La storia non siamo noiStoria di fantasmi
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Intervista a Giuseppe Genna
Su “Italia De Profundis” e oltre
di SERGIO PAOLI
[da MilanoNera Web Press]
Giuseppe Genna, milanese, classe ’69, scrittore e non solo. Come scrittore i libri che ha pubblicato sono riassunti (spero tutti) qua. Come “non solo”, è stato consulente della Presidenza della Camera dei Deputati, curatore del sito web di Mondadori, tra i fondatori dell’indimenticato portale Clarence, sceneggiatore per RaiTre, autore di teatro (Fabula Orphica, Museo Trascendentale), giurato alla Biennale di Venezia.
Oggi, in Rete, dà vita all’e-zine letterario Centraal Station, cura il sito (sotto la direzione di Valerio Evangelisti) Carmilla, entra nel pool esploso di contributori di Macchianera, il blog più letto del Web italiano, fondato – manco a dirlo – da Gianluca Neri.
Oggi, ci regala anche un nuovo testo, Italia De Profundis (Minimum Fax), di cui parleremo tra pochissimo.
Ciao Giuseppe, grazie per questa intervista-conversazione. Comincio così: “la storia non siamo noi, noi siamo i sogni, che si avverino o meno”. Nessuno si senta offeso, mi verrebbe da dire, tantomeno De Gregori, o Maurizio Seymandi. Ci parli della videomeditazione che hai proposto, disponibile qua?
GG: Si tratta di un corollario a “Italia De Profundis”, una sorta di azione parallela riguardo a uno dei livelli testuali, e cioè quello che concerne la rappresentazione del “noi” e i suoi rapporti con l’”io”. Il tema è ambiguo e, dunque, la modalità di montaggio spinge verso l’ambiguità. Dal rapporto tra finzione (che per me non è inesperienziale) e realtà, al rapporto tra persona e personaggio, il video propone domande. Per questo il suo acme, almeno nelle intenzioni, è la scena fondamentale di “Benny’s Video” di Haneke – una violenza vera, rappresentata e quindi non vera, e però continuamente reale. Questa modalità rimbalza in meditazione su quanto e come rappresentare con la letteratura.
Quella scena di Haneke mi ha ricordato Kubrick. Ma la violenza vera, nel nostro tempo, quale è e come la si può rapresentare in letteratura?
GG: Qui si tratta di un’accezione molto particolare che io conferisco a quella potenza che si dice “violenza”. Perché mi interessa la scena di Haneke? Perché il video, la testimonianza della violenza, è inerte e privo di giudizio. E’ uguale a ciò che Spirit e Opportunity fanno su Marte: noi vediamo Marte come Haneke ci fa vedere quella stanza in cui si consuma un atto psichico indicibile, che è un omicidio chiesto da una suicida, per nichilismo e gioco e disperazione e, quindi, anche fede. Questo sguardo non è umano, anche se noi umani lo percepiamo. La violenza è tutto. Non esistesse la specie umana, lo scontro tra due galassie sarebbe violento senza che nessuno valutasse quella violenza. Sbalza, da ciò, il verso eschileo: “Agire è soffrire”, che si attaglia a qualunque cosa si muova in questo universo, animata o meno, compreso ma anche escluso l’umano. La violenza è uno stato delle cose che il giudizio morale riporta, da un’ambiguità essenziale e naturale, all’interno del cerchio morale. Il giudizio morale stesso, quindi, è un atto di violenza: necessario, spesso – ma deve esserci consapevolezza che è così.
Cosa è la Storia per te, e come entra nel tuo modo di narrare?
GG: E’ uno dei livelli testuali, che sono tutti embricati tra loro, divisibili l’uno dall’altro solo per indebita astrazione – almeno nelle intenzioni, poi altro è l’esito testuale, che può risultare fallimentare. La Storia è la vicenda del fantastico, il rimbalzo sulla domanda inerente la natura di se stessi e del rapporto col mondo. I fantasmi popolano la Storia, la vicenda umana è ambigua in quanto è assoluta finché c’è l’umano, ma non lo è affatto a fronte della certezza che la specie, prima o poi, finirà di esistere storicamente, mentre i suoi sogni no, la sua immaginazione no.
“Ah! come siamo vivi come tutto accade per tutt’altri motivi.” A me viene da pensare che raccontare la storia è una scelta. Ci sono tanti percorsi, tanti bivi e vicoli ciechi. C’è anche chi ce la racconta con sfondo di cieli azzurri e sorrisi finti, e adesso la pubblicità. Con Italia De Profundis tu come ce la racconti?
GG: Trai questo verso da una canzone di Lucio Battisti, con testo di Pasquale Panella, che ho usato in uno dei booktrailer. La domanda che poni è difficile, perché io affronto un conflitto interno, che è quello tra narrazione e racconto della Storia. La narrazione è aperta, disposta a sperimentare, nell’accezione che dò al termine; mentre il racconto è apparentemente concluso, in qualche modo leggibile anche linearmente, teso a piacere, a utilizzare qualunque dialettica che non pratichi il dissolvimento della dialettica stessa. Mi interessa la narrazione, che è fatta per salti, balzi, scarti, improvvise apparizioni di buchi neri, inesplicabilità, noia, stridìo, dolore, gioia esplosiva, sempre accadimenti che accadono per quali motivi? La realtà è viva, si vive – la pubblicità racconta, non narra. La vita vivente e nervosa della cosa che percepiamo e che denominiamo “realtà” è un flusso di storie di storie, indefinite, ramificantisi. Se io blocco un frame di questa realtà e lo rappresento, passo a ciò che io chiamo racconto – sono comunque destinato a fallire, perché la potenza di ciò che diviene mi farà incappare in uno scarto decisivo, prima o poi.
Viene da pensare che è impossibile raccontare il reale, perché qualcosa ti sfugge sempre, e se cerchi di incastonarlo, comunque fallisci.
GG: Prima proviamo a raccontare l’”io” e vediamo se è possibile, se sfugge qualcosa, se si fallisce. Senza “io”, per l’umano, dov’è il reale?
Perché DE PROFUNDIS? Non c’è più niente dopo? Neanche una speranza, una piccola fiammella? La verità, da qualche parte esiste?
GG: E’ un problema di questi giorni. Devo lavorare all’”In Excelsis” e non so come fare. Verranno altri libri, prima. Non è che non c’è speranza, è che proprio mi sembra assurda e culturale la polarità speranza/disperazione – è emotività. Il sogno trascende questa dialettica, spinge la storia verso l’orizzonte sempre in divenire dell’utopia.
I quattro booktrailer del libro IDP mi hanno lasciato un profondo senso di angoscia, e di disperazione. E una tra le tante, infinite possibili domande. Quante volte si può morire?
GG: Continuamente. Dal punto di vista identitario: continuamente. Appena si muore, si nasce, però. Posizione del tutto personale, sia chiaro.
“Povera patria, schiacciata dagli abusi di potere”, dice Battiato. “Quale patria e quali abusi del potere? La patria non esiste e gli abusi del potere sono semplicemente il potere. E la classe dirigente fa la vita reale, la plasma, ce la presenta e dice: -Ecco, voi siete così e noi siamo così. Dunque, accontentatevi”, dice Loriano Macchiavelli, in una conversazione di qualche giorno fa.
GG: Concordo completamente con l’ammiratissimo Loriano. La patria è un’astrazione indebita, un’acculturazione della violenza implicita che l’umano desidera profondamente esplicitare. Sarebbe come dire che un sogno ha dei confini. Verrebbe da ridere. Il problema del potere è più complesso, però. Ogni atto che compio, e quindi anche la scrittura, sottintende che sto esercitando potere. La realizzazione del desiderio sembra abolitre il potere e lo invera. O si fa un lavoro su di sé e quindi non ci si sente estranei al potere, o tutto diventa separabile con atto di violenza.
Cosa è, cosa rappresenta per te l’opera di Pier Paolo Pasolini?
GG: Caino.
Il fratello cattivo? Perché?
GG: Perché mi è fraterno nel darmi alcune chiavi di volta narrative e pensative, ma anche non induce al fenomeno della coscienza da cui emerge il fenomeno “io” – per come leggo il Pasolini della “Divina Mimesis”, ma anche di “Petrolio”, c’è un movimento di contraddizione, di lacerazione, di distruzione dell’”io”, di definizione della morte che non mi appartiene. Del resto, io non sono Pasolini, non sto mica a quel livello letterario. Ma posso sottrarmi, nel momento in cui Pasolini – e non può farne a meno – è l’autorità che invade il futuro attraverso l’atto culturale, anche se la volontà è quella di distruggere l’atto culturale. Qui io rinvengo una sorta di “reazionariato” pasoliniano (che non è l’accusa di nostalgismo che gli si commina spesso) – è che sa cosa fare con l’ambiguità, ha un’idea piuttosto precisa di non risolverla, ma non è così che per me si lavora sull’ambiguità. La domanda deve essere posta dall’ambiguità, mentre in Pasolini io percepisco che Pasolini offre una domanda ambigua: è diverso, è implicitamente omicida sul piano culturale, come ogni padre oppure ogni fratello che non si centri nella posizione coscienziale.
De Cataldo una volta mi ha detto, a proposito del rapporto tra Storia e narrazione, e di Romanzo Criminale, di “un tentativo, non nuovo e non originale (penso a Balzac, Flaubert, Tolstoi, Dickens, sino a Ellroy), di de-costruire la propaganda e ri-costruirla in chiave metaforica. La Storia è una grande miniera di conoscenze: soprattutto, a studiarla bene, ti svela tanti “trucchi” utilissimi ai fini drammaturgici.” Che ne pensi?
GG: Sono assolutamente d’accordo con De Cataldo. La sua operazione è linguisticamente interessante perché lo è politicamente: agisce con la storia raccontata per ridurla a narrazione di storie, spostando ogni metafora, ricostituendola. La sua narrazione allora diventa allegorica, diventa la storia del Potere, cioè una storia universale che non vale più solo per la Roma dai Settanta all’inizio dei Novanta, e il “Vecchio” esonda, non è più nemmeno il “Grande Vecchio” della paranoia narrativa, bensì un concentrato di mitologie intorno a cui il fantastico secreto dall’umano continua ad aggregarsi. De Cataldo, in questa dichiarazione, sta accennando a una tensione shakesperiana che sarebbe cieco non ravvisare.
Vorrei parlare di NIE, e di un tema che mi sta a cuore: i rischi di elitarismo. Su Anobii ne abbiamo discusso con Kai Zen, Sarasso, Dimitri e altri che spiace non citare. Questo rischio, secondo te c’è, se prendiamo la parola “elitaria” non in senso ristretto, ma la riferiamo al milione di persone che segue Saviano, che è lo stesso che legge molti libri, che è lo stesso che guarda Report, che è lo stesso che si preoccupa dell’Ambiente ecc ecc ecc? Insomma i soliti, pallosi comunisti, in fondo (tra i quali, me medesimo). Tristi, uh come sono tristi, e in fondo pochi, no? E gli altri 49 e passa milioni? Esiste ancora una vera cultura pop o ormai è stata soppiantata dalla cultura dell’Isola dei famosi?
GG: “L’isola dei famosi” è letteratura – non comprenderlo significa, credo, non comprendere una componente molto importante del memorandum di Wu Ming 1. Tu hai una situazione shakesperiana, che la tv mutua dalla letteratura. Hai lo Stronzo, la Puttana, la Pettegola, l’Ambiziosa, il Volgare. L’”isola” è allegorica. L’allegoria si declina in una direzione sottoculturale, ma ciò che va fatto è ravvisare il nucleo allegorico e riportarlo al centro della rappresentazione. Rifiutare la sottocultura è assurdo: il pop non è mai né altoculturale né sottoculturale. Il pop esprime nuclei allegorici. Se poi essi non vengono intercettati, non è colpa se non di chi sarebbe preposto a intercettarli ed elaborarli: cioè gli artisti e gli intellettuali, in primis.
Questo porta a pensare ad una responsabilità degli artisti e degli intellettuali, nel sentirsi elitè e nello snobbare molte cose. Sarebbe utile riprendere in mano la lezione di Andy Warhol (ad es. “Credo che sia un artista chiunque sappia fare bene una cosa; cucinare, per esempio.”) o dei movimenti punk?
GG: Il problema dell’arte è per me legato a una retorica specifica e a una possibilità di allusione al trascendimento. Cucinare, no. Cucinare nel tempo mitico è culturale e simbolico, stabilisce rapporti col dio. Ma questo è già uno sguardo da antropologo. Un cuoco è un cuoco, uno scrittore è uno scrittore. Dipende da cosa ci fai col tuo artigianato. Sono cose distantissime, per me. L’affermazione di Warhol nasce da una possibilità che è l’estetica diffusa spettacolarmente: invera l’oggetto della sua critica.
“In Italia si legge poco perchè per generazioni e generazioni, intellettuali e presunti tali, gonfi palloni pieni d’aria marcia, hanno martellato il fatto che la letteratura è educazione, è cultura, è intelletto. E finchè continuiamo a pensare che noi scrittori/lettori/critici siamo elite (elite buona e gentile, per carità, che deve amorevolmente arrivare alle masse, ma sempre elite), non avremo colto il punto.”, dice Francesco Dimitri. Che ne pensi?
GG: E’ ciò che rispondevo sopra. Sono d’accordo fino a un certo punto, tuttavia. Nel senso che manca una domanda previa: perché gli intellettuali si sono comportati in questa maniera in un determinato periodo e in una determinata area geografica? A quale generazione anagrafica ci riferiamo? Che rapporto con l’auctoritas è stato interrotto? Che rapporto d’amore è stato interrotto? Quale magistero affettivo è stato negato?
Come lavori quando scrivi un romanzo?
GG: Dipende dai romanzi. Generalmente studio moltissimo. Non scaletto quasi mai, tranne che in casi eccezionali (in “Hitler” era impossibile fare a meno di una scaletta), però ho in mente dove andare. Finora, una scena o un’immagine trascinano: voglio arrivare là e non so come farlo. Lo faccio, con paura di non riuscire. Scrivo molte ore al giorno, concentro la scrittura in periodi compatti, mentre scrivo continua a studiare, spesso faccio entrare casualità dovute alla cronaca in ciò che sto scrivendo.
Sei uno scrittore molto attento alla multimedialità. Il web 2.0 può essere un’opportunità per l’oggetto”libro”? O sarò solo l’ennesimo canale promozionale che useranno tutti?
GG: Il Web 2.0 per me non esiste: è il Web che dispone di un accesso di banda maggiore rispetto a prima. Il problema del Web è individuare il suo specifico e fare arte con quello. Per quanto riguarda la comunicazione, è già avvenuta la rivoluzione. Se la specie non avrà problemi ben più seri nei prossimi anni (il che io credo), allora vedremo ulteriori rivoluzioni, prima delle quali, per quanto concerne l’editoria, la distribuzione dei libri, il ritorno potente del catalogo, uno stravolgimento verso il basso della prezzatura.
Una curiosità: ti occupi tu direttamente della realizzazione dei tuoi booktrailer?
GG: Sì, certo, in maniera estremamente dilettantesca. Li chiamo “booktrailer” per comodità, ma non lo sono affatto: sono corollari tematici.
Non conoscendoti per niente, mi dai l’impressione di essere, nei confronti di qualunque forma d’arte che apprezzi, una persona bulimica, che divora e si appropria, rielaborandola in modo personalissimo, di ogni cosa interessante che ti capiti a tiro. Sbaglio?
GG: Questo è l’ologramma “Giuseppe Genna”. O, anche, certo temperamento di “Giuseppe Genna”. In realtà c’è un soggetto che scrive in cerca di amore, tentando di dare amore. A volte sperimenta per sperimentarsi e incontrare l’altro. L’ologramma risulta contraddittorio, iperbolico, bulimico appunto – ma è ologramma, cioè fantasma. Io sono una narrazione, vale a dire che “io” è una narrazione.
Forse non sbaglio anche se dico sei un autore che vuole donarsi completamente, quasi appartenere al lettore. Vuoi essere questo?
GG: No. La mia posizione è: non sono l’autore e chi legge non è chi legge. Dunque: chi siamo? Una madre lascia, in tempi nemmeno tanto antichi, il suo neonato alla Ruota degli Abbandonati e poi sparisce per sempre. Ha partorito quel figlio, verrà allevato da altri, camminerà nel mondo. Che c’entra quella madre con la sua vita? Io desidero l’abbraccio con chi legge attraverso il testo, ma in questo senso: coincidiamo in qualche parte in cui non sappiamo più dire né “noi” né “io”? Lì si dà un amore privo di oggetto, che ha una forte ricaduta sui comportamenti concreti, mondani – cioè politici.
Loriano (Macchiavelli) dice: “All’aspirante giovane (e anche vecchio, perché no?) scrittore consiglio di svegliarsi dal sogno. Il mestiere dello scrivere, per come lo vedo io, prevede un contatto con la realtà. Altro che sogno!”. Che ne dici?
GG: Per me la realtà è un sogno apparentemente coerente. Non muta il rapporto fondamentale: soggetto che conosce | conoscenza | oggetto conosciuto. Quindi, non vedo differenze. Comprendo però cosa dice Macchiavelli, e concordo: il sogno della realtà, soprattutto in questo frangente, è molto importante.
Un autore che ami, e un suo libro. E perché. Uno solo, sopra tutti, però.
GG: Don DeLillo e il suo “Body Art”. Entra in ciò che non si sa, e dico che non si sa per ora. Lo fa indistintamente con stile di superficie, lingua profonda, sguardo, struttura. Enuncia letteralmente, è impossibile interpretare. Perturba. Toglie dall’attaccamento psicologico, senza strappare con violenza. Scrive divinamente in maniera del tutto naturale. Cultura, natura, soprannaturale sono messi in cortocircuito senza che si avverta il peso di un’intenzione. E’ la perfetta allegoria vuota. Specifico che ho scelto appositamente un testo contemporaneo. Altrimenti avrei detto “Amerika” di Kafka.
La musica che ascolti?
GG: Elettronica. E Glass e Part. Ora, soprattutto Murcof. Sentieri Selvaggi e il compositore Filippo Del Corno. Ma sono un profano.
Come ti sei avvicinato al mondo della scrittura? Quale è la prima cosa che hai scritto e hai fatto leggere a qualcuno con l’idea di “pubblicare” e cosa ti hanno detto? Quando hai capito che potevi fare lo scrittore in senso professionale?
GG: Non è accaduto così. Fin da piccolo bazzicavo l’ambiente della poesia contemporanea. La pubblicazione è stato un processo senza difficoltà. Scrivere professionalmente è un incubo cui vorrei sottrarmi. La prima cosa scritta e mostrata, ma senza l’idea di pubblicare, è stato un poemetto dato al poeta Antonio Porta, che mi prese e mi istruì. E’ tuttora la figura di riferimento, non edipica, che Valerio Evangelisti ha sostituito a distanza di anni. L’altro riferimento parallelo è per me inesplicabile ma effettivo, molto fraterno – cioè Tommaso Pincio. Il collettivo Wu Ming mi ha insegnato il rapporto, l’abolizione del lavoro in solitaria, l’artigianato di certe componenti fondamentali del narrare.
Hai dei sogni, e quali?
GG: Non ho nessun sogno in particolare: ho tutti i sogni. Soprattutto che regni l’amore, ovunque, continuamente. Non è possibile, l’uomo non si accorge che l’odio è una forma di amore. Io stesso non realizzo questo sogno, perché sono umano, troppo umano, a volte al di sotto dell’umano.
Grazie!