di Michele Monina
Esiste una risposta intelligente a una domanda stupida?
Decido di partire subito con un paradosso, essendo stato io chiamato a parlare di un libro paradossale, mostruoso. Un libro che, a ben vedere, mi vede nel ruolo di autore al 33,3%, manco si trattasse di un consiglio d’amministrazione. E per parlare di un paradosso adotto la formula del paradosso stesso, ponendo una domanda stupida a cui non so se si possa dare una risposta intelligente, dando così vita a un loop che, in quanto loop, si avvolge su se stesso e su se stesso e su se stesso. Ed è proprio come in un loop che ci si ritrova, una volta che si decide di dare alle stampe un libro come I Demoni. Un loop che ha il motivo principale costituito dalla frase: “Ma perché avete deciso di scrivere questo libro?”
Esiste una risposta intelligente a una domanda così stupida? Dubito. Perché si scrive un libro? Esistono molte possibili risposte, tutte immancabilmente catalogabili in quella imprescindibile categoria meglio nota ai più come “pippe mentali”, o, se si vuol esser originali, “seghe mentali”, che tanto poi è lo stesso.
Chi se ne frega perché uno scrive un libro, del resto. Non è da questi particolari che dipende il futuro del mondo, sospetto. Ma quando a porre una simile questione sono colleghi scrittori, giornalisti, editori e più in generale gente che lavora in quella poco seria industria chiamata editoria, il paradosso ha la sua sublimazione, e allora può avere anche senso cercare di dare una risposta. Chiaro è che, trovandomi io a parlare di un libro di cui ho scritto il 33,3% del testo, la mia sarà una risposta orfana di un buon 66,6% di significato e di significante. Una risposta monca, ma monca di quattro braccia, manco fosse la dea Kali. Perché un giovane autore (così si viene definiti finché non si raggiunge, anagraficamente e non solo, l’irraggiungibile statura anagrafica e non di quel giovane autore meglio noto col nome di Stefano Benni) vagamente logorroico, cioè un giovane autore che abbia già dato alle stampe, atto non richiesto dal mercato, qualcosa come cinque libri nel corso dei precedenti cinque anni, decide di imbarcarsi (e il termine imbarcarsi non è casuale, visto e considerato che la casa editrice che ha sposato la nostra iniziativa si chiama PeQuod) in un’impresa come quella del remake di un colossal come I Demoni di Dostojevski? Risposta non c’è, o forse chi lo sa, dispersa nel vento sarà, canteremmo se fossimo ancora in aria da oratorio. Ma le domande non vengon mai da sole. E allora a tenere compagnia alla precedentemente esposta questione se ne aggiunge una nuova, ancor più inquietante: “Perché a scrivere questo libro vi ci siete messi in tre, e proprio voi tre?” Perché ho il sospetto che qui stia il nocciolo della questione (erano anni che speravo di poter usare il simpatico giro di parole “nocciolo della questione”, e per farlo, a ben vedere, ho dovuto usare il poco pratico escamotage di scrivere un libro di quasi cinquecento pagine insieme a due miei colleghi… che sia questo il vero motivo di tale imperitura impresa?), perché cazzo tre autori così palesemente distanti tra loro, per età anagrafica (nel caso specifico la distanza anagrafica riguarda me e Genna vs Parazzoli), per carriera letteraria (qui si gioca tutti contro tutti, non chiaramente a livello di vendite, nel qual caso io sono una sorta di outsider, ma proprio nel senso che ognuno di noi procede per vie proprie, lontane dagli altri), per approccio alla scrittura e alla vita (e qui i commenti fateli voi) devono fare la fatica di scrivere un libro come questo? Perché noi tre? Perché proprio noi tre? Semplice… semplice. Insomma, ci siamo incontrati in Mondadori, perché, in tempi e modalità diverse tutti e tre abbiamo lavorato lì. Ci siamo annusati, riconosciuti, apprezzati, stimati. Abbiamo visto, con gli occhi della mente, che avevamo uno sguardo simile, o che almeno, ognuno col proprio sguardo, eravamo rivolti tutti allo stesso orizzonte. Ci siamo incontrati e abbiamo scritto I Demoni. Che detta così sembra molto più poetica di come è stata. In realtà, come per ogni libro, si potrebbero tirare in ballo mille cazzate, tutte invariabilmente credibili o incredibili. Si potrebbe parlare di necessità autorale, di volontà autorale, di istintualità autorale. Come dire: tutte cazzate. Lo ripeto. Fumo, ma di quello buono. Fumo che voi comprate e che noi vendiamo, parlando di cose di cui non si dovrebbe parlare. Perché i libri non vanno discussi, vanno letti, semmai. O vanno tenuti distanti da sé, manco fossero il demonio stesso. Perché un libro che parla del male, è chiaro, è un oggetto pericoloso da maneggiare. Un oggetto oscuro, da guardare con sospetto. E non fidatevi di chi vi dice che il male non esiste, che è solo un’invenzione della chiesa.. scusate, ci sono cascato di nuovo, vi stavo di nuovo spacciando per vere le mie parabole mentali. I Demoni è un libro che parla del male. Parla dei nostri tempi, della nostra città. Parla di noi. Ecco perché lo abbiamo scritto. Perché noi tre, seguendo modalità e istinti diversi, siamo tre scrittori uniti da affinità elettive. Tre scrittori che, a ben vedere, non passeranno mai il pomeriggio di un Natale insieme, ma pur sempre vicini. Tre scrittori che, ve lo giuro, si danno del Lei tra di loro. E io non so dire perché si scriva, in generale, e tantomeno perché a scrivere sia io. C’è chi sosterrà che non si sa perché io scriva, ma si sa perché io pubblichi. E qui la questione è bizantina, irrisolvibile come il quesito su chi sia nato prima, l’uovo o la gallina.
Per concludere vi voglio raccontare un aneddoto. Giorni fa una mia amica mi ha detto: “God Less America, il tuo ultimo libro, mi ha salvato la vita.” Ecco, mi sono detto, ecco perché si scrive, per salvare la vita alle persone. A partire da me, è ovvio, poi via via, a scemare, gli altri sei miliardi di cittadini del mondo. “Il tuo libro mi ha salvato la vita,” ha proseguito la mia amica. “Ero in una stanza d’albergo, nel bel mezzo della foresta della Malesia, quando un macaco mi è entrato in camera. Un macaco piccolo, ma con quei denti appuntiti che, ti giuro, fanno davvero paura. Non sapendo che fare ho preso il tuo libro, che tenevo appoggiato sul comodino e l’ho usato come arma contundente. Risultato: la scimmietta bastarda è scappata a zampe levate.”
Ecco perché scrivo libri, per mettere in fuga le scimmiette bastarde.