Chi era il critico di Sofocle? La critica non c’era, ai tempi tutt’altro che aurei della tragedia classica. C’era, invece, la teoria della letteratura e a rappresentarla non erano cialtroni: in età classica, della tragedia, discuteva Aristotele. Da questa incomprensione, che vado adesso a tentare di dipanare, nasce l’idea della poetica dei generi e, arrivando fino a oggi, a un ristorante dietro il Duomo di Milano, l’incomprensione stessa muove un grande intellettuale e poeta come Sanguineti ad affermare che “il tragico non è più, è stato sostituito dall’isterico”. Queste riflessioni che compio sono a uso strettamente personale, valgono come parziale autocommento al Dies Irae, hanno a che fare con il piccolo ciclo della Fabula Orphica che ho scritto (di prossima pubblicazione qui e rappresentata in performance a giugno a Mantova, per la regia di Federica Restani), hanno a che fare con il prossimo romanzo che pubblicherò e a cui sto lavorando.
Il titolo di comodo Sulla tragedia sotto cui vengono iscritte le riflessioni della Poetica di Aristotele è un falso, è sviante. Bisognava interpretare, e da subito, quel titolo in altra maniera: Aristotele scrive sul tragico, è diverso.
A rischio di essere criptico, sarò breve nelle mie considerazioni.
Il tragico è un universale, la tragedia è una forma letteraria.
L’universale, divenendo e mutando forme, è stabile e metastorico.
Le forme letterarie sono storicamente date e, se mutano, non sono più se stesse. La tragedia classica, quella elisabettiana – non esistono più. Anche certe modalità di ricezione non esistono più: sempre più spesso non sono testi da leggersi (o non vengono letti) quelli rappresentati in teatro (il teatro vive ora, da decenni, una crisi di trasmutazione, da cui si intuisce provenire un futuro potentissimo, nonostante quanto i critici accademici vadano sostenendo dopo l’avvento di cinema e televisione).
Quanto al fatto che il tragico sia potenza, ricorro direttamente al testo della Poetica aristotelica:
“Compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità”.
E’ la definizione di immaginario nel suo inscindibile nesso con l’universalità del vivere umano in quanto considerato come totalità in se stessa e la necessità che le cose siano andate come sono andate. Altrimenti l’artista sarebbe uno storico. Ciò è chiaro in quanto il perno dell’arte scritta e performata, per Aristotele, è l’imitazione, la mimesi: ma la mimesi di cosa?
Che ci si trovi davanti al comico o al tragico, considerando che il soggetto umano che affronta queste potenze è per Aristotele tout court il “poeta”, va aggiunto che
“è dunque chiaro da quanto si è detto che il poeta deve essere facitore piuttosto di racconti che non di metri in quanto è poeta rispetto all’imitazione ed egli imita le azioni. Se dunque càpiti che egli faccia poesia su cose accadute, non per questo è meno poeta, giacché niente vieta che alcune delle cose accadute siano tali quali è verosimile che accadessero, ed in questa misura ne sarà il facitore”.
E questo è il passo decisivo.
Aristotele distingue tra la produzione di racconti (immaginario) e forme concrete in cui l’immaginario prende corpo (dice metri” per stile, ritmo, genere letterario). Sgancia, cioè, l’archetipo dalla sua traduzione in forma consolidata. All’inizio di qualunque poetica, ogni poetica di genere è distrutta: e lo è dal limite strutturale della storia umana, cioè il suo avanzare per distorsioni e mutamenti, di cui le forme letterarie sono parte.
Come distinguere, dunque, il temperamento di un’opera dal carattere di un’opera diversa? Attraverso le potenze che agiscono in quell’opera, fatto salvo che il terreno comune è il lavoro di immaginario, cioè di intercettazione dei compossibili che irradiano da ogni fatto, intercettazione che deve prendere corpo attraverso i requisiti della verisimiglianza e della necessità.
Adesso compio un salto nel contemporaneo e chiedo di riflettere sulla suspence. La suspence è la forza motrice della letteratura: sospensione ambigua, che prepara la sorpresa o, in tempi di decadenza (o di saturazione di libido, di desiderio: per me è identico), la denega, la ammaestra e risulta non più sorprendente. Si provi ad applicare all’attualità della letteratura quanto afferma in questo passo Aristotele:
“Ma, poiché la tragedia è imitazione non soltanto di un’azione compiuta, ma anche di casi terribili e pietosi, questo effetto nasce soprattutto quando i fatti si svolgono gli uni dagli altri contro l’aspettativa, giacché avranno a questo modo ben più del sorprendente che se si producessero per caso o fortuitamente; ed infatti anche degli eventi fortuiti sembrano più sorprendenti quelli che appaiono prodursi come di proposito, come quando, per esempio, in Argo la statua di Miti cadde addosso al colpevole della morte di Miti che la stava guardando, e l’uccise; e infatti sembra che fatti come questo non avvengano a caso, cosicché segue di necessità che i racconti di questo genere siano i più belli”.
E’ un passo fondamentale, perché chiarisce che la mimesi e la verisimiglianza non sono affatto quel regime orizzontale, laico, di rappresentazione illuministica, o positivista, che abbiamo in mente oggi. Lo scarto a cui induce l’immaginario produce bellezza e trasforma gli esiti dell’attesa di sorpresa. Ma perché un lettore/spettatore dovrebbe essere sorpreso? E’ questo, la sorpresa, il nucleo della bellezza, che in Aristotele è “il bene”?
E’ una questione contraddittoria e l’impegno di Aristotele è scioglierla. Anzitutto, si dichiara che a garantire la sorpresa è la forza della variazione, poiché il tragico (o il comico) sono potenze che si incarnano attraverso costanti e ciò che è costante non può garantire sorpresa:
“Due parti della tragedia sono dunque queste, peripezia e riconoscimento, mentre una terza è il fatto orrendo. Di queste tre dunque, di peripezia e riconoscimento si è detto, quanto al fatto orrendo, esso è un’azione che reca rovina o dolore, come ad esempio le morti che avvengono sulla scena, le sofferenze, le ferite e cose simili”. Insomma: davanti a una manifestazione del tragico, come possiamo essere sorpresi, se già conosciamo che esso rende visibili questi tre elementi? “
Ma che cosa intendiamo con “bene”? Cerchiamo di dirlo in modo più chiaro:
“È infatti possibile che l’azione avvenga nel modo tenuto dagli antichi che rappresentavano personaggi pienamente consapevoli, come ha fatto anche Euripide nel rappresentare Medea che uccide i proprii figli, ma è anche possibile che si agisca senza sapere che si sta compiendo un’azione terribile, e venire a conoscere, soltanto dopo, la relazione di parentela, come succede all’Edipo di Sofocle; in questo caso l’evento terribile accade fuori del dramma, mentre accade nella stessa tragedia ad esempio all’Alcmeone di Astidamante o al Telegono nell’Odisseo ferito. E c’è anche un terzo caso, oltre questi, quello di chi sta per fare qualcosa di irrimediabile per ignoranza e poi riconosce la vittima prima di compiere l’azione. Ed oltre queste, non ci sono altre possibilità, perché è necessario che o si agisca o non si agisca, e, o sapendo o non sapendo”.
Ecco come viene sciolta la contraddizione: le costanti che permettono al tragico di farsi vicenda e di assumere una forma, non sono storie orizzontali: sono pozzi artesiani da cui trarre possibilità infinite. Il pozzo, comunque, è immobile: lì è il foro, da lì estrai – e la verisimiglianza è garantita, la necessità essendo invece la somma delle retoriche (cognitive, emotive e animiche) che il poeta impiega per svolgere la vicenda che, decreta Aristotele, “deve essere complessa”.
Un ulteriore paradigma, dunque: la “complessità della vicenda tragica”. Questa complessità è ciò che si oppone alla linearità di lettura, non alla comprensione e alla sospensione (suspence) che avverte il lettore/spettatore. Egli, seguendo le vie tortuose del farsi della vicenda tragica, a un certo punto viene a coincidere con la pietà che essa irradia (banalmente, è il celeberrimo momento catartico), il che significa che la sua mente è sospesa, non pensa più, si identifica totalmente con la radiazione del tragico, che è la pietà: se si coincide, c’è uno e non un secondo, l’esterno non c’è più. La pietà non è un pensiero e l’epica più tarda, cioè l’Eneide, dimostrerà che nemmeno è un’emozione. Cos’è la pietà a cui accenna Aristotele nella sua Poetica?
“Ma nelle peripezie e nelle azioni semplici i poeti ottengono l’effetto voluto mediante l’uso del sorprendente, giacché questo è l’elemento tragico e capace di destare umana simpatia”.
Con questo, non esiste più contraddizione: il sorprendente è il tragico, una potenza che desta l’umana simpatia, cioè la potenza che fa di ogni uomo un uomo che sente totalmente l’altro uomo e coincide con lui: da due, diventano uno. E cosa sente un uomo, totalmente, di un altro uomo? Le emozioni? Le emozioni sono identiche? I pensieri sono identici? L’obbiettiva comunanza tra uomo e uomo, l’unica cosa che l’uomo sente identicamente all’altro uomo è “che si è”: è la nuda presenza. La suspence ha questo miracoloso effetto: getta la mente oltre la percezione, in uno stato di stasi dinamica nella pura presenza, che non cancella il mondo, ma da cui il mondo origina. Il tragico è la potenza mediatrice che fa condensare la presenza, l’essere in forme solide: quelle del mondo della vita, che non sono diverse dalla presenza stessa, ma a differenza di questa mutano storicamente.
Il lavoro dello scrittore è trovare continuamente, senza sosta, non i canoni espressivi, ma l’opera che, sorprendendo, sia tragicamente o comicamente l’incarnazione delle potenze che la governano: sia il condotto immaginale che conduce alla potenza di essere, allo stare per accadere.