63ma Mostra del Cinema di Venezia: il Genna giurato in andropausa

Prima puntata del finto gonzo-reportage apparso su Vanity Fair
veneziavanity.jpgEssere giurato alla Mostra del Cinema di Venezia, per uno scrittore, equivale a un biglietto per il prossimo Shuttle recapitato a un ragioniere di Ladispoli. E’ vero che lo Shuttle comporta alcuni plausibili effetti collaterali: per esempio, morire. A Venezia non è possibile morire, perché ci ha già pensato Thomas Mann a scrivere Morte a Venezia (ma non durante la Mostra) e Luchino Visconti a girarne il corrispettivo cinematografico: all’Hotel des Bains, dove alloggiano le giurie (e quindi anch’io), e dove sono state ambientate scene del film più commovente della storia del cinema, Il paziente inglese (non è vero che è il film più commovente della storia, ma così la pensano tutte le donne con cui ho tentato di fidanzarmi e, per istinto di sopravvivenza, ho capito la lezione: credetemi, Il paziente inglese è davvero il film più commovente della storia – almeno se siete maschi eterosessuali che desiderano fidanzarsi).


Cammino a passi felpati (non per colpa mia, ma per il tappeto su parquet cigolante dell’Hotel Des Bains, inquietantemente simile a quello del giro in triciclo del bimbo di Shining), davanti alla porta della stanza in cui dorme, beve, mangia, si fa il peeling e detta ordini allucinantemente ineseguibili Scarlett Johansson, l’unico autentico motivo per cui sono qui. Mi trovo a pochi metri dalla Venere di Milo rianimata e che mastica bubblegum con divino ruminamento: l’esemplare femminile perfetto (unica imperfezione: sta assieme a Josh Hartnett). I miei colleghi di giuria ipotizzano che io soffra di una sindrome prostatica o intestinale per quante volte, con tremiti inequivocabilmente ormonali, abbandono il consesso e risalgo in camera solo per sfiorare la porta della stanza di Scarlett, sperando che sia aperta. O socchiusa. Oppure va bene anche chiusa, basta che la chiave non sia infilata nella toppa. Ok, avete già capito cosa ho fatto: ma c’erano troppi fiori, dentro, e non ho visto nulla. Qui va enunciata una verità storica, a discolpa di Scarlett. I giornali si sono scatenati contro i suoi capricci da diva, che avrebbero causato un ritardo di venti minuti la sera dell’apertura, con la proiezione di Black Dhalia. Scarlett avrebbe litigato col parrucchiere, costringendolo a ricomposizioni quantiche della sua capigliatura. Non è vero. Lo ammetto: è stata colpa mia. Ho infilato sotto la porta di Scarlett una dichiarazione di stima (diciamo così) delle dimensioni del Modello Unico di Silvio Berlusconi: e lei l’ha letta. Questo lo so perché, terminata la sera della prima, tornato in stanza, ho trovato una sua risposta delle dimensioni di un pizzino di Provenzano. Non solo le dimensioni: anche il contenuto era in stile Provenzano. La direzione sfinterica verso cui mi consigliava di andare era scritta con una calligrafia di-vi-na. Al suo confronto, le altre star femminili mostrano evidenti pecche strutturali: mai avrei immaginato che Sandra Bullock (coprotagonista di Infamous) dal vivo avesse la stazza a Dino Meneghin, né che Catherine Deneuve avesse superato i limiti degli organismi OGM grazie a iniezioni di collagene paragonabili a quelle di un intero reparto di produzione della Fiat Tipo.
Se devo allontanare i miei pensieri dalla Divinità per cui sono qui (e per cui mi travestirò da coiffeur, pur di penetrare nella sua stanza la sera della premiazione: questo si chiama patto coi lettori), la Mostra di Venezia, il luogo intellettuale più all’avanguardia in Italia e l’evento che sta spalancando i miei lobi cerebrali, mi ha riservato almeno due delusioni. La prima è la defezione di Daniel Craig, il nuovo James Bond, che desideravo ardentemente vedere arrivare sul Lido in muta da sub, approdare alla spiaggia e levarsi la tuta subacquea per sfoggiare lo smoking (io, invece, avrei voluto tanto approdare sulla passerella, levarmi lo smoking ed entrare in muta nella leggendaria Sala Grande: con lo smoking risulto un incrocio tra Harpo Marx, il Pinguino nemico di Batman e Flavio Bucci tra quarant’anni). La seconda delusione: non è arrivato Nicholas Cage, il cui parkinsonismo facciale, non dovuto ad alcun Parkinson, lascia intendere che secerna naturalmente botulino. Meno male che c’era Ben Affleck. Confermo che non si tratta di botulino: sono fatti proprio così.
In cambio ho avuto la soddisfazione di verificare che Spike Lee è alto come Renato Rascel e indossa, insieme a otto chili di orecchini gangsta, uno smoking bianco che è una divisa da cameriere del XXXVII secolo dopo Cristo. Ethan Hawke, invece, è davvero tosto: va in giro col completo originale di Al Capone e nemmeno il compianto Gil Cagné avebbe realizzato la scultura di brillantina che porta in testa. Presenze varie che ho avuto l’onore di sfiorare, giungendo all’ipogeo della mia già miserevole esistenza: Marta Marzotto, imbottita con una coperta d’oro ritrovata in un sito archeologico Inca, e Marina Ripa di Meana, in una sorprendente emulazione riuscita della madre del protagonista di Brazil.
Siamo solo al quarto giorno. Se Scarlett non mi porta via con sé negli USA, ci sentiamo settimana prossima.

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