Allestendo quest’officina sulla preparazione (per ora esclusivamente in fase teorica) del nuovo
romanzo, devo tenere in considerazione alcuni aspetti marginali della Cosa che tento di guardare in faccia, direttamente, come la Medusa che pietrifica l’osservatore, ma con differenza rispetto a Perseo: non utilizzo nessuno specchio, cioè nessun aspetto finzionale. Di fronte all’assolutezza del Male, alcune peculiarità appaiono o svalutate in quanto secondarie rispetto agli esiti che il Male raggiunge, oppure vengono enfatizzate e assurgono al ruolo di eziologia e di spiegazione del Male. Entrambi questi atteggiamenti, che in pochissimi esperti della materia che sto affrontando hanno scartato per lanciarsi nell’effettiva ambiguità del Male e nella necessità di abolizione di ogni finzione, saranno da me evitati. In particolare è abbastanza significativo che io mi ritrovi di fronte un Soggetto che, irrappresentabile, deve essere rappresentato; che, esistendo più tramite tattiche che strategie, ha vita mentale e non corporea o empatica, nonostante i depositi mediatici ne restituiscano l’immagine di furibonda fisicità e di invasamento emotivo. Ma queste immagini, sono, per l’appunto immagini: il pieno che simula l’esistenza per permettere allo Zero di eiettare lo scatenamento del Male. Ciò ha a che vedere col rapporto tra immagine ed eros: in questa prospettiva, la Cosa del romanzo è addirittura archetipica, per noi contemporanei. Priva di eros, la Cosa pratica un’immagine dell’eros che rimane tuttavia segreta e conturbante per i morbosi interpreti in cerca dell’oscena spiegazione. Ben differente da quanto accaduto nelle spire della Storia che la precede, la Cosa è unica, è una manifestazione mai osservata prima dall’uomo e non è possibile spiegarla come perversione, il che è un fenomeno che appartiene alla sfera dell’empatico, seppure per narcisistica ritrazione dall’empatico. Il Male è il Male e non ha agenti o immagini: è il Male ed è l'”io” la trappola inindagata con cui l’incarnazione del male sembra essere demonicamente mossa, mentre la sua routine esistenziale è già il Male, senza separatezza dal soggetto agente.
Ed ecco, dunque, che la scelta dello sfondo-Celan (enunciata prevalentemente qui), come filo silenzioso che senza rappresentazione attraverserà il romanzo, si manifesta nel suo pieno valore: Celan antagonista della Cosa, ma non in logica bipolare – la sostanza del Bene è la medesima di quella del Male, se si sta sul falso piano degli “io”, e non sulla sostanza da cui “io” emerge – che è silenzio. Ciò mi basta a ridurre a nulla le interpretazioni psicostoriche che tanto mi irritano, soprattutto all’apice del lavoro che sto compiendo.
Per questo motivo, qui di seguito, pubblico un estratto (che modifico sensibilmente) dalla tesi di Tonino Pintacuda su Paul Celan, Neve e silenzio. Paul Celan verso un’estetica della testimonianza (disponibile qui in pdf): montaggio e silenzio, nell’accezione datane da Pintacuda, sono le uniche retoriche di cui dispongo.
Vari sono stati gli approcci per cercare di rendere testimonianza dell’evento disumanizzante che ha lacerato il tempo e l’inviolabilità dell’uomo. Tra questi, quello di Jean-Luc Godard e delle sue Histoire(s) du cinéma è particolarmente significativo.
Godard s’è confrontato con l’esigenza di ripensare interamente il nostro rapporto anche con l’immagine; l’ha fatto sottolineando come tutte le immagini, ormai, non ci «parlano» che di questo evento disumanizzante (ma dire che «ne parlano», non significa dire che «lo dicono»), perciò, instancabilmente, Godard rivisita tutta la nostra cultura visiva alla luce di questa questione.
Tutto, in «un tipo di montaggio che fa turbinare i documenti, le citazioni, gli estratti di film verso una distesa mai coperta: montaggio centrifugo, elogio della velocità», parla dell’evento disumanizzante: nella composita architettura fatta di parole che si sovrappongono, di spezzoni, di commenti fuori campo e di musica, emerge un brandello di Storia che è spiazzante e fortemente semantizzato. […] Godard ha semplicemente mostrato nel montaggio quello che è veramente accaduto.
L’evento disumanizzante si è conficcato nel Tempo e nella vita che ha ripreso i suoi cicli, fatti anche di sorrisi hollywoodiani e ciò non ha impedito di eternizzare un sorriso oscuramente felice. Lo stesso faceva Celan quando, scrivendo i versi di CORONA, celebrava il tempo che riprendeva, malgrado tutto, a scorrere.
Paul Celan aveva sintetizzato tutto questo nella coappartenenza necessaria di papavero e memoria, tra i due estremi trova spazio anche una vitale eredità di speranza:Ho tagliato bambù: per te, figlio mio. Ho vissuto. Codesta, che domani sarà altrove, capanna, ora regge. Non diedi mano a costruirla: tu non sai in quali vasi io misi, anni addietro, la sabbia che mi stava intorno, per ordine e decreto. La tua nasce libera — libera rimane. La canna, che prende piede qui, domani s’innalza pur sempre, ovunque l’anima ti possa spingere fuori d’ogni vincolo.