Il
romanzo a cui sto lavorando, per ora soltanto molto studiando e molto riflettendo, è anche un romanzo intriso di messianesimo. Un messianesimo totalmente al di fuori delle beghe teologali e folosifiche che, nel Novecento – e anche in questi sei anni di filosofia – si è spesso presentato à la page. Il messianesimo a cui guardo è un’immagine, sapendo che io non avrò la possibilità di rifare o a cui ricorrere, per le necessità antifinzionali e antiretoriche imposte dalla materia con cui mi trovo a operare: è il celeberrimo Angelo della Storia di Benjamin. Perché la trama del libro è la Storia stessa, una congiura del passato che, volendosi tradurre in futuro, isola e meccanicizza il presente, tentando di dirigere in traiettoria l’inesplicabile punto del presente stesso che, essendo punto, non può essere linea – cioè non può essere direttrice storica, può solo essere sorgività continua della storia, a patto che il presente stesso coincida con l’autoconsapevolezza che mette in scacco l'”io” che si autoillude e illude di esistere, conformato, caratterizzato. Il messianesimo a cui guardo ha ovviamente connotati teologici (da Taubes a Fackenheim, il presso di noi così ignorato Fachenheim…), ma infine ha il suo fondamento (che è uno sfondamento nel non sapere che sostanzia l’umano, in Benjamin, nel Benjamin dell’Angelus Novus, certo, ma anche in quello del Dramma Barocco. Laddove l’autoseppellimento dell’uomo allegorico, nella storia, è la risposta a ogni tentativo di inchiavardare la storia di storie in toria certificata – questo osceno esercizio antiumano che opera attraverso l’umano, concedendo continue vittorie postume al Male che devo scrivere.
Si tratta di un Benjamin, dunque, che sta agli antipodi delle definizioni e degli avvicinamenti ideologici di cui è testimonianza il saggio di Dora Kirchstein, che pubblico qui di seguito (è apparso qualche anno fa sul Manifesto), che spacca la ricezione di Benjamin con una lotta a chi tira più potentemente la giacchetta del povero Walter tra Marx e Scholem. A chi interessasse, per smentire la prospettiva che viene data di Benjamin, ho interlacciato al testo della Kirchstein (in corsivo) mie glosse, che non hanno intenzione di essere decostruttive, ma costruttive.
• L’angelo di Benjamin veglia sulle nozze di marxismo e teologia
di DORA KIRSCHSTEIN
Perché mai l’«Angelo Nuovo» dovrebbe darci delle indicazioni, e forse anche preziose, per comprendere più a fondo e ridisegnare con più chiarezza il rapporto tra teologia e politica? Benjamin non riuscì mai a staccarsi dall’angelo dipinto nell’acquarello di Klee; dovette farlo alla fine, prima di togliersi la vita a Port-Bou, alla frontiera spagnola, inseguito dai nazisti, a un passo dalla libertà. Il quadro, che Benjamin aveva ritagliato dalla cornice e infilato in una valigia, giunse fortunosamente nelle mani di Adorno in America e questi poi lo portò con sé a Francoforte. Così scrive Benjamin: «C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, lui vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta, che si è impigliata nelle sue ali, spira dal paradiso, ed è così forte che non può più richiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui in cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta». Si trova nelle Tesi di filosofia della storia, scritte poco prima di morire, nel 1940, questa descrizione dell’angelo della storia, ovvero dell’angelo della rivoluzione: è insieme l’angelo raffigurato da Klee ma anche quello descritto dalla Kabbalah, tanto che pone già la questione di un originale, difficile, precario e affascinante connubio tra messianismo e comunismo.
Ma quale era davvero la posizione di Benjamin? Alla domanda, più che lecita, è difficile rispondere. Anzitutto perché invano si cercherebbe una coerenza nella sua vita e nella sua opera. Entrambe sfuggono a qualsiasi definizione. E la sua figura è di quelle che si incontrano nell’attualità di un istante messianico della storia. A proposito di questa «attualità» (Jetzteit), Benjamin cita in Avanguardia e rivoluzione la leggenda cabbalistica secondo cui «gli angeli, rinnovati in ogni istante a schiere innumerevoli, sono creati per cessare di esistere e sprofondare nel nulla, una volta che abbiano cantato a Dio il loro inno». Potrebbe essere questa, se necessaria, una descrizione che di sé avrebbe dato Benjamin. Quel che è certo è che dalla sua posizione di linker Ausserseiter, di «outsider di sinistra», Benjamin cerca di coniugare motivi diversi per non dire opposti: dalla mistica ebraica al materialismo storico.
Gershom Scholem e Bertold Brecht sono i due poli, le due stelle polari di una costellazione nella quale si viene delineando la sua opera. Quest’ultima ha anzitutto un nome: critica.
Sin dai primi saggi la «critica» si rivela la via maestra della conoscenza. Il procedimento critico – basato sulla convinzione che il presente non sia un tempo neutrale, ma un istante teso verso il futuro messianico – se ha il suo ambito più abituale nella letteratura e nell’arte [sottolineatura mia, gg], trova un terreno filosofico privilegiato nella filosofia del linguaggio e nella filosofia della storia. È anzi il trait-d’union fra l’una e l’altra. Non si sottolineerà mai abbastanza quanto fosse importante per Benjamin la filosofia del linguaggio. Non solo perché il linguaggio scardina il vecchio sistema filosofico, fondato sulla contrapposizione tra soggetto e oggetto, e rinvia piuttosto a un modello dialogico. Ma anche perché Benjamin, in veste quasi di commentatore rabbinico, partendo dalle prime pagine della Torah, riconosce al linguaggio una forza messianica che sta non solo nel nominare ma anche nel tradurre. Se il filosofo del domani sarà un «nuovo Adamo», il traduttore, capace di far dialogare tra loro le lingue, sarà una figura rivoluzionaria.
La «teoria critica» è l’unità tra filosofia del linguaggio, critica letteraria e filosofia della storia. A questa teoria Benjamin affida l’attesa utopica che la verità si riveli una forza messianica. La filigrana degli scritti di Benjamin è un vocabolario teologico, il loro filo rosso è il messianismo. Come può accordarsi ciò con una radicalità che giunge a ritenere indispensabile la violenza rivoluzionaria votata a interrompere il «sempreuguale» della storia? Non è certo per un amore, e tanto meno per un amore non ricambiato, che si muta idea politica. Eppure Benjamin, che ebbe una vita sentimentale tormentata, in un certo senso la mutò. Nell’estate del 1924 si era trasferito a Capri per scrivere il suo lavoro di libera docenza Il dramma barocco tedesco. Qui incontrò la comunista russa Asja Lacis a cui restò, nonostante tutto, legato e che incontrò ancora a Riga, a Berlino e a Mosca. A lei deve, come lui stesso ammette, la comprensione della «attualità di un comunismo radicale». A metà degli anni `20 Benjamin sarà sul punto di iscriversi al partito comunista.
Ma è soprattutto Brecht, conosciuto nel 1929, a introdurlo al materialismo dialettico. A partire da questo momento Benjamin cercherà con sforzi enormi, e pagando di persona, una sintesi singolare tra mistica ebraica e dialettica materialistica. Nel saggio Il surrealismo, del 1929, riferendosi alla propria adesione alla rivoluzione proletaria, parla di sé, della sua figura di intellettuale che ha dovuto «sperimentare fin nel corpo la posizione estremamente esposta tra ribellione anarchica e disciplina rivoluzionaria». La definizione del proprio compito di intellettuale resta negativo: deve organizzare il pessimismo ed esercitare la distruzione dialettica dei falsi idoli dalle cui proiezioni si viene costituendo lo spazio sociale
Il materialismo dialettico si inscrive però in una concezione messianica della storia caratterizzata da un forte impulso salvifico. A questa concezione Benjamin non rinuncia. Ma è d’altra parte un’impresa disperata accordarla con gli assunti del materialismo dialettico. In breve: nella prospettiva messianica di Benjamin il comunismo si delinea come possibilità realizzabile alla fine della storia. Di qui l’alleanza suggerita nelle Tesi di filosofia della storia: quella tra teologia e politica [il contrario esatto a cui guardo nel comporre ilromanzo, gg]. Il burattino chiamato «materialismo storico» deve vincere, e può farlo, assumendo al proprio servizio la teologia che oggi è «piccola e brutta». Prima ancora di chiedersi se questo strano connubio, se questo sorprendente matrimonio riuscirà, occorre domandarsi che cosa ha spinto Benjamin a giocare, qui, la parte – tutta ebraica – del sensale, che cosa lo ha portato a mettere insieme una coppia tanto inconsueta.
L’obiettivo polemico di Benjamin è quel materialismo positivistico che si è piegato allo storicismo, che si è reso complice di una concezione evoluzionistica della storia dove il tempo si presenta come un corso vuoto e rettilineo. Così, secondo Benjamin, i riformisti socialdemocratici si figurano il progresso, come uno sviluppo lineare e inevitabile. Qui non ci sono interruzioni, non ci sono rotture, non ci sono salti, non ci sono rivoluzioni. A questo progresso, inteso come modernizzazione delle forme di vita, assunto come ritmo «sempre uguale» con cui uomini ed epoche si inseriscono nella «coazione a ripetere» che segna l’affermazione del capitalismo, Benjamin oppone il suo angelo messianico. L’uscita dal capitalismo non può essere evoluzionistica, progressiva, pacifica.
Come per Brecht, anche per Benjamin è insanabile la frattura fra passato e presente. Il politico che non si dà e non dà scadenze è un cattivo politico. Così scrive in Senso unico: «È indifferente che la borghesia vinca o che soccomba nella lotta, perché è comunque condannata a perire dalle contraddizioni interne che diventano mortali nel corso dello sviluppo. Il problema è solo se perirà per mano propria o per mano del proletariato». Decisiva è la risposta a questa domanda. E se la borghesia si esaurirà nel corso dell’evoluzione economica e tecnica, tutto sarà perduto. Perciò l’alternativa al capitalismo è un’alternativa estrema, catastrofica, apocalittica: a questo limite estremo, che è un limite escatologico, la rivoluzione nel suo senso più radicale rinvia già alla redenzione.
Che cos’è allora la rivoluzione per Benjamin? Rivoluzione vuol dire tirare il freno d’emergenza, compiere il balzo dialettico sotto il libero cielo della storia. La rivoluzione interrompe la continuità che consiste nel permanere dell’insopportabile, nell’eterno ritorno della catastrofe [se interpretato in questo modo, Benjamin sta al fianco del Mein Kampf, gg]. Se la catastrofe è la semplice continuità, la salvezza è l’istante in cui il tempo si arresta e inizia l’attesa [questo è ciò che intendo nel parlare di “presente come punto sorgivo”, o di “messianesimo congelato”, gg]. Ma l’attualità dell’arresto messianico è un presente che, come l’angelo, è volto verso il passato nell’intento di redimerlo e riscattarlo. E questo perché l’attualità fronteggia un potere che minaccia vivi e morti: quello del destino mitico [così siamo ancora ad altezza Hitler: questo è il mito hitleriano. gg]. Il genere umano è esiliato nel ciclo riproduttivo della mera sopravvivenza che può essere arrestato solo per brevi istanti riconquistati alla attualità. E non è detto che ciò sempre riesca, non è detto che le irruzioni dell’attualità capaci di spezzare il sempreuguale della storia costituiscano altrettante possibilità di emancipazione e non cadano invece nell’oblio. Sta al critico interrompere il destino truccato da progresso scorgendo il nuovo nel sempreuguale, l’esperienza utopica che, riposta nell’immagine dialettica, è il fermento del futuro.
Il concetto di «attualità» che, come l’angelo, colpendo quasi dall’alto, attraversa il corso lineare e lo interrompe, è un concetto anarchico. Già nel saggio del 1921 Critica della violenza, Benjamin riprende la tradizione anarchica per considerare la fonte del potere e distinguere tra violenza che mantiene diritto e violenza che produce diritto; simile a quest’ultima, perché non «strumentale», è la «violenza rivoluzionaria» che, proprio come la violenza mitica, e opponendosi a questa, semplicemente «si manifesta». Questo modo di intendere la rivoluzione ha basi teologiche. La rivoluzione è una fenditura nella storia che lascia aperto un varco messianico. Senza questo varco, che è un varco salvifico, la fenditura risulterebbe alla fin fine incomprensibile. L’angelo cabbalistico, raffigurato da Klee, è un angelo del giudizio e della distruzione, è un angelo apocalittico. Mentre si fa largo lungo la via della rivoluzione, irrompendo nella storia attraverso una nobile e positiva violenza, prepara l’avvento del Messia e la redenzione [questo è semplicistico: la “redenzione” in Benjamin è compiuta dall’incarnarsi del Messia? gg]. L’angelo fissa lo sguardo al passato da cui si allontana e volge le spalle al futuro. Ma verso il futuro lo sospinge la bufera proveniente dal paradiso. Il «paradiso» è passato remoto e futuro messianico, cioè è origine e meta – come aveva detto Karl Kraus [nei pardès ebraici il tempo è inizialmente liquefatto, ma in posizione sefirotica Ain Soph, si è fuori dal tempo: bisogna ostinatamente domandarsi a quale passato-presente-futuro sta alludendo Benjamin quando attribuisce la triade al “paradiso”: è questo il motivo fondante dell’ambiguità della nozione redentiva in Benjamin. Fuori da questa sospensione, si rischia l’ideologizzazione di Benjamin, la sua cristallizzazione, la dinamica che diviene figura non dinamica, ma congelata, fossile. gg]. La «bufera» è un altro modo, più profano, per dire «progresso». Questa bufera spinge irresistibilmente l’angelo verso un futuro a cui non può guardare, almeno finché non abbia compiuto la sua missione. Viceversa l’angelo guarda verso il passato che non può non presentarglisi come un’unica grande catastrofe, un cumulo di rovine. Questo angelo non canta più inni, ma è azzittito dalla malinconia. Gli resta ancora una speranza?
La risposta è in una frase di Kafka che Benjamin aveva scelto per descrivere la propria rovina: «C’è tanta speranza per tutti, solo non per noi». È qui che viene alla luce il momento messianico nel pensiero di Benjamin [No, assolutamente no: questo è il punto che mette in crisi l’alleanza tra filosofia del linguaggio e arte. Non è pessimistico l’accenno di Kafka: se il “noi” fosse pronunciato da chi sta in attesa messianica, il pessimismo verrebbe meno. L’aforisma di Kafka è messianesimo allo stato puro, non si può identificare il “noi” con Kafka o con gli umani. gg]. Il materialista dialettico, senza speranza negli uomini e per gli uomini, avrà tuttavia ancora speranza in quella catastrofe escatologica nella quale, in un istante, il mondo potrà essere riscattato e redento. Così in Benjamin sembra prendere di nuovo corpo l’antica figura ebraica del profeta che, malgrado l’annientamento del proprio popolo e la coltre di silenzio che lo circonda, tanto più è certo che le sue profezie si realizzeranno.
Il cumulo di rovine, a cui l’angelo guarda, fa pensare alla teoria cabbalistica della «frantumazione dei vasi» che per via della luce divina si sono rotti durante la creazione del mondo. Sembra così che sull’angelo incomba il compito messianico del Tikkun, della riparazione dei frammenti della storia. L’angelo fallirà il suo compito minacciato continuamente dal progresso. Ma sarà proprio il progresso a rendere più «attuale» il Tikkun. Resta allora la speranza nel dialettico «balzo di tigre» della rivoluzione o nel salto messianico della redenzione. Su questa scelta, ammesso che di scelta si tratti, Benjamin non si pronuncia [appunto, perché non ci si può pronunciare qui: qui si è nel “tempo come punto”, non c’è linguaggio o pensiero, e l'”io” come ego formale è superato: nulla è da dire, se non analogicamente: “so di non sapere”. gg]. Ma se l’angelo della storia fallisce, perché non lasciare pur sempre aperta la «porticina della storia» da cui in ogni istante potrebbe entrare il Messia?
La questione posta da Benjamin (che era ateo) è la perdita, nell’ateismo di massa, di ogni contenuto utopico [Ma la scienza è utopica e istituisce universali: la possibilità di estinzione della specie, operata per disfunzione scientifica, è un universale: e Benjamin fu così ingenuo da non coglierlo? gg]. Lo scientismo dominante ha contribuito a far crollare quelle costruzioni, giuste o sbagliate che fossero, dinanzi a cui la cattiva realtà doveva rispondere. È anche in tal senso che Benjamin, tra i primi nella tradizione marxista, critica il vuoto progresso riformista che non distingue tra una migliore riproduzione della vita e una vita realizzata, cioè felice. Il capitalismo non si manifesta solo attraverso lo sfruttamento e la repressione, ma anche attraverso il fallimento di una vita non realizzata. Così, accanto al benessere e alla libertà, va rivendicata la felicità. E la felicità diviene una categoria politica. Se esistesse infatti un’emancipazione infelice? Un benessere e una libertà senza felicità?
Ma le questioni che si aprono rinviano anche al modo di interpretare la sua figura e il suo pensiero: fino a che punto Benjamin si lasci collocare oggi nella prospettiva della lotta di classe, in che misura, come si chiede Habermas, sia ancora attuale come «teologo della rivoluzione», se e come gli si attagli la definizione del «marxista più sui generis» della storia, che di lui dà Hannah Arendt, se davvero sia stato un «teologo trasferito in campo profano», come dice Scholem.
La questione più difficile, ma anche più affascinante, è però se quel matrimonio tra un burattino e una nana, tra comunismo e teologia ebraica, di cui Benjamin si era proposto come sensale, sia finito in una separazione, o addirittura in un divorzio; se l’angelo messianico non abbia fatto di tutto, non faccia di tutto, in tempi come questi, per tenere insieme una coppia tanto temibile quanto sovversiva.