da Dies Irae (Rizzoli, 2006; Mondadori, 2014)
Io, Giuseppe Genna – Milano – Gennaio 1997
Dall’alto della stanza sono l’uomo-stella.
Sono l’uomo leonardesco.
Disteso sulla schiena sul tappeto che urtica, nudo, la braccia allargate ad asse, le gambe divaricate.
Sono bendato e non vedo.
In piedi, attorno a me, si aggira la donna brutta. La donna brutta è sovrappeso, indossa calze e reggicalze al bacino, niente slip, il seno grasso nudo, guanti di qualche materiale che non ho memorizzato, e gira attorno a me.
Sono l’uomo solo, privo di pelle, congegnato per reagire con intelligenza agli stimoli esterni, cerco stimoli esterni e per questo sono qui.
La donna brutta e sovrappeso nella mano destra guantata stringe una candela rossa e accesa. La inclina, a fasi irregolari, in momenti distonici, e la cera fusa cola su di me e macchia il mio corpo scottando sulla pelle e io non sento niente ma so.
So che questa è la trasgressione eccitante.
So che sto cercando un abisso che sostituisca un genere più perverso di abisso, del tutto individuale, un abisso raggelato, dove le forme si cristallizzano, le parole altrui si ghiacciano penetrando e si spezzano in frammenti gelati, scaglie che basculano nello spazio mio interno, questa temperatura frigida insopportabile, che agghiaccia ogni lacrima prima ancora che essa venga germinata, i miei occhi asciutti, secchi, le sclere disidratate, da anni.
Maura mi sembra ieri.
Montecitorio e OMISSIS mi sembrano dieci anni fa.
Sono disoccupato, collaboro a qualche iniziativa editoriale di poco conto grazie ad amici cari, giusto i soldi per pagare l’affitto, ho l’aiuto di amici cari che sopportano la visione del pieno che bilancia l’abisso glaciale in me: sopportano me, un corpo insenziente che fibrilla e trema, senza requie attivo, paritetico alla valanga di intuizioni e movenze della mente senza posa, senza respiro né riposo, la mente iperattiva che difende dagli affetti, che frena il crollo.
Io sono il Mente, l’uomo che attacca e si difende con la Mente, il cui corpo è su Orione.
Soffro questo strappo, questa trapanazione cerebrale. Il fantasma di Maura ha trivellato, ha strappato, ha lacerato, ha inaugurato un vuoto che è andato ad allargarsi, buio, freddo, non riempito da alcuna materia umana o da alcuna vibrazione disumana, nessun segno di grazia.
Cerco stimoli.
Il mio corpo è costellato di gocce rosse di cera solidificata, dall’alto sono l’uomo-stella, composto di nane rosse esplose e spente, un demiurgo femminile e grasso stila la mia cosmogonia con materia incandescente.
L’estate mi hanno invitato a una vacanza, non avevo i soldi. Un amico, lasciato solo dalla donna, triste ma reattivo, silenzioso ma senza vuoti o abissi glaciali spalancati dall’assenza di chi l’aveva abbandonato, distante miliardi di miglia interiori dal largo, accecante archetipo che interiormente mi è diventata Maura e soffro.
Quattro giorni in Sardegna per rilassarsi, in un posto esclusivo, mi dice l’amico.
Un posto per i vip.
Il tempo si sta ulteriormente rovesciando e la tragedia di questo Paese matura in forma di gossip. Ci prepariamo (ma siamo allo stato pre-embrionale) a una nuova saturazione della libido, a una nuova indifferenza al dolore e al piacere, a un nuovo condizionamento di massa.
Sono nel momento statico che genera il vortice di una nuova mutazione del Sistema Politico Sergio Baracco: l’era dei vip che non sono vip, del gossip che non causa nulla e si trasforma in avanguardia estrema della pubblicità personale. Non l’era del Cattivo Gusto, ma l’era in un cui non esiste Gusto. La giusta evoluzione della saga delle televendite. Non l’immaginazione, ma la televendita al potere. Ovunque.
E’ il ’96 e siamo all’inizio. Queste microere, microsfere interne a una piccola ruota di tempo. Modulazioni frangibilissime di un popolo fattosi gente spettatrice.
La destinazione sarda dei quattro giorni di vacanza è un paese cresciuto istantaneamente, fungino, accanto a Porto Cervo, luogo amatissimo dai vip e dall’ex premier Berlusconi. Questo paese è un paese privato, cioè non è un paese ma è un posto posseduto da privati, semplicemente una banchina lungomare dove attraccano yacht prestigiosi. Mentre stiamo andando lì, è attraccato lo yacht di Khashoggi, che il gossip sentenzia avere offerto un diamante da due miliardi di lire a Lory Del Santo per una notte di amore. Questo paese appartiene a un consorzio guidato dall’ex comico e chansonnier e presentatore televisivo Umberto Smaila. Uomo famoso a ripetizione. Il gossip sussurra che sia un intimo dell’ex premier. Partecipò a una devastante stagione comica, quella di un quartetto noto come I Gatti del Vicolo Miracoli: lui, Smaila, il robusto factotum; Jerry Calà, che diventerà iscrivibile nella memoria detritica generazionale per l’inutile pellicola Vado a vivere da solo, in cui si narra la sua storia di emancipazione, consistente nell’affitto di uno scantinato sotterraneo senza pareti e illuminato dal neon, che egli riadatta a parodia di un attico e dove capitano alcune donne (Elvire Audrey, già protagonista del film Usa Caligola reincarnato in Hitler) e anche Lando Buzzanca; Franco Oppini, magro allampanato e segnato da perenni occhiaie, un caschetto di capelli dal taglio estraneo a qualunque moda di qualunque tempo, marito separato di Alba Parietti, una delle regine sempiterne del Sistema Sergio Baracco; e Nini Salerno, protagonista di un’unica regia, Arrivano i miei. Inesplicabilmente, a un dato punto, il quartetto si scioglie e la reazione non è propriamente quella del pianeta di fronte alla separazione dei Beatles. Tra i sopravvissuti, Umberto Smaila è protagonista della rivoluzione televisiva dell’erotismo spettacolare di una generazione deprivata di impegno: inventa e presenta, alla fine degli Ottanta, al culmine dell’irradiazione craxiana, lo show Colpo Grosso, trasmesso sul circuito Italia 7: un mix tra spogliarello ardito e giochi mutuati dalla tradizione dei casinò. E’ un successo dapprima italiano e poi globale: il format del programma viene acquistato in una miriade di nazioni. Alto 1.82 metri, Umberto Smaila ingrassa prodigiosamente, preparando la massa lipidica al giorno in cui lo vedo io.
Il paese che si inventa, acquistando un microscopico tratto di costa in prossimità di Porto Cervo, si chiama Poltu Quatu. E’ un insieme di piccoli appartamenti in stile residence di eccellenza seppur marineggianti, nascosti dietro il lungomare in cui la gente viene ad ammirare vip che trascorrono indolentemente il proprio tempo ai bar che si sporgono sulla banchina medesima, oppure si imbarcano su qualche yacht di qualche amico (ogni vip è amico di ogni vip, dal primo momento in cui si incontrano non conoscendosi) e si espongono in topless al sole, per la gioia dei paparazzi di second’ordine che si appostano sulla costa.
Il primo evento dello sbarco a Poltu Quatu è la sbarra biancorossa a cui fanno sentinelle dei vigilantes privati, in tutto e per tutto simili alla guardia giurata della trasmissione Forum di Canale 5, quella in cui il giudice Sante Licheri, mediante letture esoteriche del codice civile, ripara a zuffe di vicini, familiari, ex amici: una parodia seriale e quotidiana di Un giorno in pretura, un geniale suggerimento su cosa dovrebbe davvero essere una magistratura degna del suo prestigio – il tutto diretto dalla figlia del generale Alberto Dalla Chiesa, assassinato con la moglie dalla mafia (dalla mafia?) nel 1982, mentre indagava su Pecorelli e la P2, oltre che sul delitto Moro, uno dei protagonisti della strategia con cui lo Stato ha sbaragliato il terrorismo rosso italiano.
Poltu Quatu è un’ansa soleggiata. Le rocce sembrano artificiali, infatti mi suggeriscono che sono state scolpite ad arte. Valga la medesima voce circa l’innaturale, foltissima vegetazione supermediterranea. Gli yacht sono attraccati, ma non si vede nessuno. In fondo alla banchina c’è una cabina regia all’opposto del locale detto Smaila’s, la cabina è di Radio 105 ed è capitanata dal dj Gianni Manuel, che trasmette in diretta porzioni di palinsesto da questa meraviglia della stagione estiva: una cabina di regia che convoca gli ospiti prestigiosi di Smaila, che quest’anno sono, tra i molti, la telegiornalista Rosanna Cancellieri, il telegiornalista Giampiero Galeazzi, il capitano della nazionale di basket Carlton Myers, l’attore e showman Diego Abatantuono.
E’ con costoro che condivido il mio tempo.
Gianni Manuel, venuto a conoscenza del mio incarico a Montecitorio, mi chiede lumi sulla sua eventuale carriera politica, calcola la sua audience e cerca di estrarne la revenue elettorale, continua ad avanzare l’esempio di Gerry Scotti, dal microfono all’Europarlamento. Carlton Myers ha seduta accanto a sé una giovane russa che indossa l’intera Torre dei Gioielli della Corona. Umberto Smaila e Galeazzi si siedono sul medesimo panchetto, che non regge il peso e si spezza.
Trascorro notti allucinanti.
Cerco stimoli che scuotano il corpo, mi getto a mare. Decado, come certi elementi della tavola di Mendeleev.
Per trascorre queste ore prive di senso, polverizzo cocaina e insufflo una quantità sufficiente a non farmi dormire per 72 ore. Come sentenzierà tre anni dopo un giornalista, a commento della dichiarazione con cui il figlio di Camilla Parker Bowles (la futura consorte dell’erede al trono Carlo) ammette l’uso della sostanza stupefacente, “la cocaina è il contante della capitale”.
Una notte sono al Billionaire di Flavio Briatore, che abbraccio inopinatamente come un fratello e a cui chiedo se diventerà presidente della Juventus e lui rimane sul vago, sorpreso, e beve un cocktail che si chiama Submarine. Da qualche parte c’è anche Naomi. Io sono disinibito, gelido ma sciolto, come certe pozze acquee polari tra un iceberg e un altro. Non penso al fatto che frammento la coca non con una carta di credito, di cui non dispongo ma che sarebbe di rito, bensì con il badge scaduto di OMISSIS. Non penso a Maura con sforzo, quindi penso: Maura. Sono in uno scintillio buio estraneo, con Flavio Briatore e Gianni Manuel impegnati in discussioni politiche che sono il ventricolo destro del Sistema Politico Sergio Baracco. Naomi pare che si sia serrata dentro una toilette e fa i capricci. Abatantuono è stanco. Rosanna Cancellieri dov’è?
Torniamo col SUV a Poltu Quatu e ci inoculiamo in un auditorium sul cui palco Adriano Galliani e Gino Paoli intonano, sudatissimi, Sapore di mare, per l’entusiasmo del pubblico urlante che accalca l’auditorium e che scopro essere una massa indistinta di venditori di Publitalia, la grande società di raccolta pubblicitaria fondata da Marcello Dell’Utri. Mi sembra che Gino Paoli abbia la dentiera, ma sono dispercettivo, mi sembra che la dentiera si scolli, ma forse non è vero.
La mattina, mentre si beve whiskey con Ginger Ale, fumo la mia pipa, nel cui tabacco ho miscelato cocaina.
Mi sono stimolato. Ho scosso il corpo. Sento: niente.
Prima di abbandonare Poltu Quatu mi faccio fotografare dall’amico che mi ha portato lì: il volto vitreo, vagamente depresso e psicofarmacologico, reclinato sulla spalla, le mani che reggono, coprendo il torace, la prima pagina della Repubblica. E’ un tableau vivant che fa la parodia crudele (crudele in quale direzione?) di una delle più celebri fotografie della prigionia di Moro.
Quando torno a Milano sono nel tremito.
Lo spettro di Maura mi fa tremare.
La disoccupazione mi fa tremare.
La carità degli amici mi fa tremare.
L’etilismo di mio padre mi fa tremare.
L’instabilità esistenziale di mia madre mi fa tremare.
La solitudine mi fa tremare.
L’assenza di viaggi ed esperienze umane mi fa tremare.
La mia anomala vita sessuale mi fa tremare.
Il mio corpo insenziente mi fa tremare.
Il mio dolore inequivocabile, non invocabile davanti a nessuno, mi fa tremare.
L’assunzione di paroxetinici mi ammorbidisce il tremore.
Sono solo, in un appartamento di 35 mq, e compulsivamente traccio il bilancio di ventisei anni di ansie, repentine depressioni, choc psichici, traumi emotivi, stress, tensioni, esaurimenti nervosi, tremori neurovegetativi, psicosomatosi inarginabili.
Non sono niente e non so niente: sarebbe lo stato dell’illuminato, solo che è polarmente opposto a quello.
Sono assediato dalla paura, dalla sensazione di inadeguatezza, dalle continue accuse interiori di non sapere, non avere studiato, non conoscere abbastanza.
Il Dies Irae è abbandonato, se solo spalanco il faldone dei materiali accumulati in questi anni, la bibbia del Dies Irae, vengo assaltato da un disgusto concreto, da fiotti di vomito cremoso.
Non so cosa fare.
Dispongo di un computer.
Mi connetto a Internet.
E’ un nuovo esordio.
Trascorro ore nelle prime chat della storia della Rete italiana.
Scopro on line una ambigua comunità di utenti, che pratica sadomaso.
Vengo invitato ai loro incontri, a cui mai mi presento.
Finché, invece, mi presento presso la casa editrice che monopolizza il giro sadomaso in Italia. Edita una rivista la cui tiratura raggiunge le ventimila copie. Il nome di uno dei proprietari di questa casa editrice: me lo ricordo, alla periferia della Mappa stilata ai giorni di Montecitorio.
Suppongo che i Servizi controllino.
L’idea è propormi per un lavoro, creare un official bdsm site sul nascente Web, un sito che trascini in digitale un repertorio di foto porno di enorme valore per perversi americani, gente che usa on line, con disinibizione, le carte di credito, di cui tuttora non dispongo.
La casa editrice ha sede in una traversa di corso Buenos Aires.
Telefono. Mi spaccio per giornalista. Ottengo un appuntamento col direttore della rivista.
Vado.
La casa editrice è una clinica svizzera. Tutto è chiaro e l’odore ovunque è di ammonio medicale. La stanza della redazione: tre ragazzi che lavorano a enormi Mac, su riviste sadomaso e gay. Il direttore è magro, i capelli accuratamente, zelantemente pettinati fino a ridurli a un’obbedienza innaturale, lisci e nerissimi, i baffi curati, gli occhiali a montatura in titanio.
Mi parla del mondo sadomaso e io so che sono qui per esplorare.
Mi parla del giro delle feste, a volte di rave che si tengono in hangar o magazzini dell’hinterland di Milano e io so che sono qui per vedere di vedere.
Mi parla dell’immensa quantità di racconti porno sadomaso che arrivano in redazioni, scritti da lettrici, donne che fanno esplodere su carta fantasie incontenibili.
Lui, al momento, è il monopolista del sadomaso italiano, perché sulla sua rivista appare una rubrica di annunci, che è l’unico tramite con cui gli amanti del genere si contattano: via lettera, ai fermoposta.
Mi presenta Re Franco: un docente universitario che si traveste e compie performance bdsm con ragazzi e ragazze, nascondendosi dietro quel nickname altisonante. Si traveste come una deità anonima e indifferenziata, il volto occultato dalla maschera bianca veneziana senza espressione e sempre utilizzando un bastone da prestigiatore, un aggeggio che sembra sottratto al baule di Silvan.
Il contatto è stabilito, l’editore mi presenta via via alcuni protagonisti del suo giro milanese. L’uomo che, al piano superiore, passa il tempo a montare videocassette sadomaso acquistate in ogni parte del mondo. Vedo scene su più schermi, tra loro incollate, appartenenti perlopiù a video acquistati all’estero e fatte collassare in prodotti distribuiti nelle edicole italiane: il ragazzo rapato a zero sollevato dal pavimento con un sistema complesso di legature, i testicoli fitti di mollette da bucato che stringono la pelle e pesi metallici agganciati ai capezzoli, la bocca bloccata da un bavaglio con una sfera rossa che la ottura, e un uomo apparentemente indonesiano che ne saggia il corpo e inizia a picchiarlo con una paletta larga di cuoio nero; un uomo maturo con la pancia sporgente che prende in bocca un enorme fallo finto, cinto da una donna il cui trucco è eccessivo e disturbante, una fellatio che dura monotona ripetendo ossessivamente i gesti della testa semicalva di lui e i finti gemiti della donna; sospeso per aria un corpo maschile completamente coperto di pellicola domopak, tranne che i glutei e l’ano, dove una ragazza bellissima si sta scatenando con una canna che riga e illividisce la pelle, prima che il compagno di lei si avventi sulla plica anale dell’uomo in domopak sospeso, lo unga di una crema bianca e inizi meticolosamente a intrudere le dita nel canale rettale aperto e inerme; le urla realistiche, le urla vere della donna bionda a quattro zampe, riprese da una cinepresa casalinga, traballante, mentre un uomo di mezza età, con i genitali molli all’aria, la frusta mediante un aggeggio a più liste di cuoio e lo zoom dilettantesco sui lividi e i capillari esplosi su quei glutei.
L’editore mi presenta alcune donne che praticano sadomaso a pagamento. Un appuntamento in un bar deprimente in piazzale Loreto, c’è questa trentenne alta, col mento prominente, rossa artificiale, i capelli lisci, non bella, impellicciata, una pelliccia anni Settanta, sembra l’emulazione non riuscita di Histoire d’O, ma soltanto per quanto concerne l’abbigliamento. Ogni tanto il cellulare squilla e lei risponde “Sì, schiavo” o “Sì, puttana”, poi interrompe la telefonata e sbuffa. Mi dice che a metà mese ha già fatto più di cinque milioni e le restanti due settimane si occupa della casa. Mi racconta di un congressista di passaggio a Milano, che l’ha contattata: un coprofilo, desiderava che lei gli cagasse addosso. Gli ha chiesto due milioni, l’ha fatto. Questa è una donna che ha cagato addosso a un uomo.
L’editore mi presenta un suo assistente, un ricercatore universitario che gli ha allestito un monolocale dietro zona Loreto, dove si girano video sadomaso originali. Approfondiscono l’amicizia con certe ragazze o donne rimediate chissà come, o forse con le lettrici che scrivono racconti intensi e li spediscono alla rivista, e ne fanno delle starlette sadomaso, personaggi con pseudonimo che tutti i ventimila acquirenti della rivista+cassetta mitizzeranno.
L’editore mi procura il contatto con un giovane appassionato, che ha un suo giro di donne piuttosto consistente. Lo incontro separatamente, dopo cinque minuti ammette di essere appartenente ai Servizi. E’ sì un appassionato, ma fa parte dei Servizi. Relaziona, a volte. Stanno molto attenti alle comunità che si contattano tramite fermoposta. Temono giri di bambini, soprattutto in Mugello, dove opera un gruppo che viene monitorato costantemente. Lui è anche sul versante satanista. E’ stato nella zona dei Castelli Romani, al Lago di Nemi. Gli chiedo se sapeva che a pochi chilometri da lì era sprofondato e morto Alfredino. Beve il suo caffè, mi guarda dritto nelle pupille, mi risponde: “Sì”.
C’è una festa a tema sadomaso in un nuovo locale sui Navigli, il Madame X. Mi presento vestito come andassi a un colloquio di lavoro. Finisce, questo party, su tutte le cronache cittadine, è pieno di giornalisti arrazzati e curiosi. Questa sessualità è pronta a diventare di massa, a elevarsi a norma, a integrarsi con ogni rapporto sessuale. La situazione, a detta degli esperti e delle esperte della comunità s/m, è da sempre questa: il sadomaso come culmine del sesso, le dinamiche di potere non sono che erotizzazioni traslate e viceversa. Parlare con questi personaggi, spesso monomaniacali, è avvilente. Il loro lessico è elementare, la loro sintassi è dialettale. La festa al Madame X culmina in uno show dove tre “professionisti della scena” (la scena bdsm, all’inglese) si esibiscono in uno spettacolino a base di finte frustate e gemiti eccessivi. I maschi sono l’80% del totale del pubblico e il 20% rimanente è accoppiato. Un sosia di Adriano Panatta, chiamato sul palco per ricevere schiaffoni da una delle performer, si avvicina al direttore della rivista e gli dice che “è stata la serata più bella della mia vita”. Dopo nemmeno una settimana, il locale è chiuso, la gestrice è fuggita in Venezuela, non ha pagato, c’è dietro un affare di cocaina abbastanza consistente, le edizioni cittadine dei quotidiani si scatenano.
Conosco decine di amanti del sadomaso.
Parlo con loro e non “pratico mai”.
Cerco stimoli.
Mi innamoro di una lesbica, ovviamente senza corrispondenza di senso alcuno.
Con il ragazzo dei Servizi e un’amica della lesbica mi presento a un ulteriore party, organizzato verso la Barona, in un locale dove normalmente si pratica scambio di coppie. Il locale è strapieno di amanti del bdsm convenuti da mezza Italia. Si inscenano performance di gruppo: signorine che camminano sopra un tappeto umano, maschi vestiti stesi che si prestano a essere calpestati. Una si toglie una scarpa e sfonda la bocca spalancata di un mio coetaneo, prono sul di lei piede. Appaiono Drag Queen: travestiti in forma di odalische stellari. Mi siedo accanto a una di loro. La musica è dozzinale.
Mi dice. “Io sono nata così, già regina”.
“Nel senso che comandi?”
“Sempre, anche nella vita reale”.
“E ti obbediscono?”
“Sì. Anche tu mi devi rispetto.”.
Silenzio.
“E adesso o fai o te ne vai, perché standomi accanto mi allontani i candidati schiavi”.
“Cosa dovrei fare?”
“Ti inginocchi e cominci a leccarmi le scarpe”.
“E poi?”
“Poi risali lungo le calze e arrivi agli slip. Lì ti strusci”.
Gli slip sono minuscoli, gonfi del membro eccitato.
“E allora io ti porto alla toilette, tu mi segui a quattro zampe. E lì mi supplichi di dartelo”.
Mi allontano.
Parlo con una coppia emiliana le cui uniche passioni sono il sadomaso e le Harley Davidson.
L’editore è in fibrillazione, completamente coperto da una tuta di latex nero, magrissimo, fotografa tutti i partecipanti, questo è l’evento, il servizio di apertura del prossimo numero. Mi ricorda Louis De Funes che imita Fantomas.
A casa sono solo, con le mie devianze trattenute, gli psicofarmaci nell’armadietto del bagno microscopico, che culmina con la doccia a tenda, a contatto di una finestrella che non trattiene il freddo esterno.
A casa scrivo.
Scrivo un giallo, per non pensare. Scrivo un giallo che ha per protagonista il Contatto di Roma, l’uomo dei Servizi, a cui dò un nome falso e distante per sonorità da quello autentico, Guido Lopez.
Passano, come cicloni, nel raggio cerebrale, a una a una, ossessioni di cui il Dies Irae sembra avere decretato l’espulsione dalle proprie pagine. Non funziona più. Non posso staccarmi di dosso le larve neroviola né vive né morte delle immagini traumatiche, staccarmele come sanguisughe e ucciderle pressando sulla carta.
Posso soltanto fingere.
Fingere di scrivere. Scrivere finzioni.
Il giallo è una finzione che mio padre ama: scrivo un giallo.
Sono talmente disperato (e tremo) che cerco di addormentarmi alle dieci di sera. Non riesco a leggere. Frantumo le parole con una vista instabile.
Una notte non dormo.
E’ sempre più spesso così: non dormo.
Telefono a una delle tipe del giro sadomaso.
Un’avvocatessa. Sta a Cremona.
E’ pronta, ha voglia.
Inforco la mia moto Guzzi, disastrata, nel gelo. Vedo la luna.
Impiego più di un’ora e mezzo ad arrivare a Cremona.
Nella mente si accalca quello che non è stato, che non ho potuto.
Quando è stato chiuso il breviario della speranza?
Perché risalgono, sempre, continuamente variate, le immagini della colpa incerta ma ghigliottinante, che recide?
Il mio bilancio. La mia gioventù ignorata, gettata via, decaduta come un elemento chimico precocemente consumato.
La sagoma biancoverde di mio padre, al ralenty, che cade sul marciapiede ubriaco e perde l’incisivo, la corsa al pronto soccorso, il suo alito indescrivibile prima che riacquistasse coscienza, tre ore accanto a lui in carrozzella. Papà, papà mio, che hai compiuto quanto dovevi e potevi compiere, come posso aiutarti a strapparti di dosso la larva neroviola né viva né morta del tuo senso di colpa, della tua mania di inadeguatezza, questa rigidità degli arti, questa preclusione agli abbracci, questo pudore per le emozioni che è carcerario, papà mio? Mia madre confusa, gettata nell’esistenza, che piange, piange all’anniversario in cui sua madre, tramortita dagli elettrochoc, si è lanciata nel vuoto, mia mamma che piange, che equivoca, che sbaglia, che non invecchia, che non si accantona e reclama una scena, reclama l’attenzione che ogni abbandono le ha sottratto, piangendo e piangendo, la fragile, la pallida, che dispercepisce e ha terrore e paura, e si ammala di malattie non vere, mamma, cosa posso fare io per te, per cancellarmi da te, per essere liberato dalle tue rivendicazioni commiste a colpa, il tuo amore che esige l’equivalente amore? Gisella, ce la fai? Riesci? Tu riesci? Maura, cosa ho fatto? Mi avresti protetto da questo sisma continuo, da questa precarietà imbelle, che mi piega fino a baciare i piedi fra un’ora a un’avvocatessa cicciona, pur di respingere il comando silenzioso, imperativo, che emerge la notte da quella Sostanza luminosa e muta, ammutolente, Dea bianca che castra senza movimento? Dove sei? Sposata? Sei felice?
Sogni, sorelle immagini che mi abbandonate, è tutto così, questo fievole spegnersi di giorno in giorno, senza sentire, senza percepire, senza urlare? Dove siete amici cari? Dove siete, umani?
Mi getto nel gelo, corro nel gelo, mi getto via.
Chi non si conquista, si perde.
Non tutto è perduto, ma io sì.
Posteggio la moto in piazza del Duomo a Cremona.
L’appartamento dà su piazza del Duomo.
La donna è sgradevole, cicciona.
Mi dice: “Leccami i piedi”.