• Il testo del TRITTICO DELLA VALLIS LACRYMARUM
Comincio dalla fine.
La prima stesura della frase finale (non si tratta di un verso) era: IO ADESSO AZZERO TUTTO. L’accento, dunque, è sull’io: l’io azzera tutto, cioè esibisce la potenza di epoché, di annullare la percezione e la prospettiva da cui il mondo è guardato. E’ così? No: poiché io non azzera il mondo: pretende di azzerare tutto – cioè ogni possibilità di percezione, vale a dire ogni possibilità di presenza di configurazioni percettive. L’adozione del maiuscolo, che è un unicum nel testo, è mutuata da un segmento del poema Il disperso di Maurizio Cucchi, titolata In treno:
“Ecco… | ECCO | Così SCAGIONATE perbacco | a passeggio REALI qua e là | LE PERSONE E LE COSE”
In questo finale di Cucchi, il maiuscolo evidenzia esattamente l’opposto a cui tendo io col finale del Trittico: la stupefazione del poeta che osserva, nella loro nudità, le realtà del mondo nel loro indiscutibile oggettivarsi, nella loro perfezione liscia a cui farebbe violenza ogni movimento dell’io che non fosse questo incredibile e autoconsapevole mirare (la stupefazione inattesa è sottolineata dall’utilizzo, in minuscolo, dell’esclamativo colloquiale “perbacco”, che è una mossa antipetrarchesca tipica del Disperso di Cucchi). Questa salita di intensità è mutuata nel Trittico e rivolta ad altra direzione: quella dell’azzeramento. Anche questo azzeramento è mutuato da un movimento che, nel Disperso, segue il finale di In treno. Nella poesia successiva, Nuove ragioni, la seconda parte inizia con questo verso:
“(ma a chi appartiene l’occhio dello spettatore?)”
il che evidenzia un movimento penultimo, cioè il tentativo di ripiegare l’occhio su se stesso, affinché l’occhio veda se stesso, del resto amplificato da un verso che precede questo movimento, suppongo di riferimento esistenzialista, jaspersiano:
“Le molteplici possibilità inespresse…”
con l’epoché finale ad alludere la possibilità di vedere questa molteplicità che potrebbe manifestarsi, farsi forma, farsi corpo. Lo stato dello sguardo, qui, in Cucchi, è esterno e interiorizzato, una visione capace di osservare il mondo e di intuire la sagoma numinosa di ciò che potrebbe molteplicemente essere. Non è l’azzeramento, ma è sicuramente il punto sorgivo da cui possono emergere ed esprimersi le molteplici possibilità.
Lo spostamento violento di autoconsapevolezza è una delle cifre della poesia di Maurizio Cucchi e si potrebbe ravvisare nell’ammorbidimento di questa potenza di spostamento una sorta di riconciliazione psichica che Cucchi manifesta di libro in libro, di raccolta in raccolta (per esempio, nel poemetto Retebeuf, il finale che è conciliatorio e inquietante, in quanto eco evangelico:
“E intanto le due donne | stavano guardando dove lo mettevano”
– con dislocazione dello sguardo oggettivato e, tuttavia, per il richiamo biblico, mitologico).
Torno alla frase finale del Trittico. Se io adesso azzero tutto, cosa rimane? Cosa è lo zero? Cosa vedo? Continuo a vedere qualcosa? E se non c’è qualcosa, cosa resta? Non intendo, evidentemente sostare sulla superficie stilistica. Abbisogno di una retorica di tipo differente: sotterranea. E questo mi si appalesa nelle variazioni che compio sulla frase.
La seconda versione recita infatti: IO ADESSO AZZERA TUTTO. E’ l’io che azzera e io non sono io, non coincido con l’io, eppure posso dire questa cosa. Utilizzo la terza persona secondo una retorica del gesto arcaico: nella Commedia e nella Vita Nova (essendo quest’ultima un riferimento per me fondamentale nella stesura del Trittico), l’io parla secondo la moda dei tempi: in terza persona:
“ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: ‘Ego dominus tuus'”
Dunque è in continuum con questa tradizione, che possiamo ascrivere a una lingua arcaica e al deposito sacrale che essa lascia alla contemporaneità, che io adotto la terza persona coordinandola con l’io. Però, facendo questo, la frase slitta e permette a TUTTO di diventarne il soggetto e IO l’oggetto in traiectio: può essere che TUTTO annienta adesso IO.
Non si tratta dell’unico accento – non certo accento metrico, sia chiaro. C’è accento sull’ADESSO: di cosa si tratta? Quando è adesso? Cosa è adesso? Adesso, l’istantaneo, ha radici storiche? E’ embricato con futuro e con presente? ADESSO è la traduzione del qui e ora, spazio in cui io e tutto saltano, spazio atemporale che fonda il tempo senza appartenervi, ma essendoci, così come il punto fonda lo spazio ma non vi appartiene.
La terza versione completa questo movimento di accenti che non sono ascrivibili a ritmo fonico, bensì a un ritmo interno, che è significante e significato indifferentemente: IO ADESSO AZZERAVA TUTTO. L’entrata dell’imperfetto nella terza persona del verbo è in linea con la tradizione mnemonica della lingua della Vita Nova, dove io agisce in terza persona nel ricordo. Lo slittamento, per quanto sia compiuto un movimento di adesione maggiore a questa tradizione arcaica, accelera la dialettica dell’ADESSO: l’ADESSO è collocato come intermittenza inafferrabile e a-temporale in un qualunque passato, è possibile che in qualunque tempo irrompa il qui e ora in cui o IO AZZERA TUTTO o TUTTO AZZERA IO. Cioè, si mostra che il lavoro di evasione verso la presenza testimoniale (che viene dedotta da Celan, ma questo sarà evidente glossando il Trittico dall’inizio) può avvenire in ogni tempo: in ogni tempo c’è il qui e ora che significa lo spostamento dall’identificazione e dal rapporto reciproco tra IO e TUTTO.
Questa logica del double bind è retorica. Per esempio, il massimo mahavakya della metafisica induista, TAT TVAM ASI (“TU SEI QUELLO“) porta in sé il mesimo movimento, sebbene a un livello metafisico più profondo: se TU è QUELLO, cioè se IO è QUELLO, allora QUELLO è IO, ma ciò è comprensibile solo se viene effettuato uno smottamento dell’identificazione dell’io rispetto a tutto ciò che è configurato, per cogliere l’identità dell’io con la presenza testimoniale che è coscienza – coscienza vuota, laddove il vuoto è in forma di apertura, di domanda: cos’è il vuoto? E’ niente? E’ possibile la domanda che precede? Cioè: può il niente essere? L’accento fondante la frase gnomica della metafisica induista è su ASI, cioè sul verso “essere”, che la struttura della lingua sanscrita accentua ponendolo a reggere la frase intera in posizione estrema: alla fine.