Come chiunque sa (anche il guardiano notturno del garage di via Ripamonti, che ha un cane unto di olio per auto, indolente ma ferocissimo. Si chiama Nugnez, il cane.), a Milano sfilano le modelle su delle passerelle con dei vestiti cuciti da delle ditte che si chiamano stilisti. Ciò richiama molta pubblica attenzione: giornalisti, blogger, buyer, concorrenti. E una vasta comunità internazionale che ruota attorno a un perno fondamentale del sistema economico italiano.
In questi giorni, sto partecipando a molte sfilate, in qualità di inviato particolare (in quanto profano della materia) per una grande testata. Sono totalmente inesperto di questo universo parallelo. Oggi ho assistito a una sfilata e adesso cerco, in forma diaristica e sospesa, di comunicarvi spezzoni percettivi che non riesco a ridurre a unità organica. La cosa più bella che sia mai stata scritta circa modelle&passerelle sta nei Canti del caos di Antonio Moresco: queste sagome che esulano dal fenomeno umano vengono scartavetrate fino alle ossa, mentre incedono sotto i riflettori, cantando il proprio annullamento fisico, preparandosi a divenire sagome di aria morta nell’aria. In pratica, dovrei copiare la splendida prosa di quel Moresco, per concedere a chi sta leggendo una pallida idea che emuli quanto ho visto (o: non ho visto) e sentito, seduto su un cubo a bordo pista, mentre sfrecciavano avanti e indietro le medesime fisionomie. Qui, però, non si fa letteratura: vero?
Prima è successo ciò che è normale che accada.
In un luogo compressi, questi corpi femminili anodini o elettrizzati, composti in una lega metallica e poi siliconata quasi, vengono allineati davanti a specchi lucenti, attraggono rifacitori che pittano, ombreggiano, incidono i volti. Larghissimi zigomi siberiani, ucraini, ossature facciali abnormi e larghissime, il cranio slavo eccelso e ricoperto di gomma grassa ed epidermide plasticata, resa opaca dal trucco.
Qui sta il trucco.
Dentro un enorme Trucco, che è il mercato, sta un trucco, che è l’ostensione rituale e bistagionale di corpi vestiti in maniera esotica, e dentro quel trucco i corpi e le facce sono truccati. Chi trucca sono professionisti a volte indistinguibili dai corpi che truccano. Omosessuali di colore che ridono forzosamente, controllandosi nello specchio, scrutando la dentina (se per caso non sia eccessiva). Ex modelle o fallite tali che si occupano della cura delle mani. Le mani: affusolatissimi arti che farebbero gridare alla mutazione genetica in corso, se non fossero armi morbide, artigliate e che artigliano la stoffa dei sogni. Molti a scolpire le capigliature, vagamente tirolesi. Un capocoiffeur abbigliato da contadino canadese o cool hunter anni Novanta. Gli anni Novanta premono ovunque: poi è giunta la Crisi e la percezione generalizzata è un tremito che scuote vibratile l’aria, la preoccupazione dei giornalisti per la presenza dei blogger e di voraci piranha giovanissimi, pronti a trasformare il Mercato in assenza di modelli di Mercato.
Spezzoni di dialoghi aerei, volatili, immemorabili.
“Da Mondadori hanno tagliato 600 persone, i magazine però forse stanno riprendendo…”
“Il mercato non regge, ma qui i fatturati salgono…”
“Hanno inaugurato vogue.it…”
“La donna aggressiva, che non si faccia soverchiare non solo dai maschi, ma internazionalmente…”
“Inoltre, se scrivo una didascalia, oramai vale quasi più di un articolo, per il crollo dell’attenzione…”
“Qui si respira calma…”
“Metto un’ombra marrone, ma con un prodotto naturale, per accentuare la profondità del cristallino…”
“Sono scioccata dai blogger…”
“Datemi una mela, voglio mordere una mela”.
Una donna ultraumana addenta una mela: un morso fatale, poi lancia in un cestino il corpo del frutto, non succoso.
La feritoia delle quinte, verso l’abbaglio accecante della passerella. Qui i corpi trapassano: in una fessura neonatale.
Qui la natura muta.
Gli ospiti, gli addetti ai lavori, i detentori di verità provvisorie, gli antiumanisti, i compratori, gli orientali del Far East, le mummie botulinizzate, i direttori, gli organizzatori, le spie industriali, gli anonimi inviati dei competitor, i vip, i personaggi apparenti ma privi di patente, gli imbucati, gli uomini biondi dalla capigliatura a forma masai tenuta a bada da cerchietti di grafite, le tedesche alte e robuste che prendono appunti quando non c’è ancora nulla da appuntare, i sales e i buyer, quelli che chiedono assessment ai partner, addirittura due bambine ottenni, indossatrici invecchiate, vecchie glorie della tv, veline e postulanti per conto di videocamere amatoriali, narcisi del web e blogger troppo competenti, tre nani giapponesi, tre che sembrano i gormìti, ex direttrici gossipare, finanzieri evidentemente lubrichi, videoartisti che frequentano locali lounge, americani invitati dalla maison in quanto grandi acquirenti, marketeer e trend solver, neocronisti internet e pierre, compagni colossali di minuzie femminine vestite in abiti magri serali, tristi uomini soli in postura da angeli dureriani melanconici, macrocefali e idropisiaci, urticanti pettegole, studentesse che vedono profilarsi la carriera – e me.
Tutti seduti su cubi.
Al centro, la passerella luminosa, numinosa.
Al termine di questa, una parete umana: di fotografi stipati uno sopra l’altro, compressi, un muro umano perlomeno alto quattro metri e sopra di loro una griglia di trenta fari che di colpo
si accendono
e la colonna sonora negroide ferocissima ulula a un insostenibile volume, ritmando
in asincrono esce la prima modella, è una macchia di luce indistinta a trenta metri di orizzonte da me, proviene dalla luce, cammina nella luce, sta andando verso la luce, mentre impazzano i flash a mitraglia dei fotografi, eccola, il collo da zebra con il bacino osteo spostato in avanti di almeno venti centimetri e la schiena piegata all’indietro, eccola a due metri da me, nell’etere, in questa sostanza filamentosa fatta di luminosità viscosa, abbacinante eppure tetra, eccola che incede, la falsa emulazione di una nefertiti venuta da pianori kazaki, la capigliatura è una trama di fili luminosi, gli occhi irradiano luce, i movimenti asincroni rispetto alla musica che batte un ritmo preistorico, indecente, e la modella è una macula fosforescente, un antiglaucoma fosforeo e sta per raggiungere il termine estremo della passerella
questo territorio limitato, lineare, pericolosissimo: gladiatorio
e ruota all’indietro, flessibile, con fare pneumatico, mostrando l’altra guancia alle centinaia di donne che invidiano questo corpo oblungo e ossuto, questo titanio umano che pendola tra l’abisso luminoso sotto i suoi piedi e l’abisso lugubre e buio sulla sua testa aliena, deformata dalla capigliatura che fluttua nell’aria condizionata e a un preciso passo
incrocia la seconda modella
la quale incede al medesimo passo di colei che l’ha preceduta e la incontra in controsenso, nel clamore della batteria di bonghi neanderthaliani con cui percuotono i padiglioni auricolari, io riprendo tutto, vedo tutto, vi sto offrendo me stesso in questa visione non originale, stravista e metabolizzata, io non mi sorprendo più di nulla e nemmeno voi, eccovi, arguite dalla vostra assenza la reale caratura del privilegio di essere qui, a osservare l’anca metallica e onirica che sembra staccarsi della seconda modella, la capigliatura in crocchio eccessivo che sembra fare crollare all’indietro l’intero peso del capo come se uno sparo avesse raggiunto la fronte, fracassando l’occipite, e già cadavere quel corpo femminino lungo e disarticolato stesse camminando verso un tunnel buio forato dalla luce e dalle aspettative, mentre dagli spalti uno shangai di sguardi rimane sospeso nell’aria densa e atrofica, tutti i vizi umani compressi nelle aste dolenti e dure di quegli sguardi (l’invidia, l’iracondia, l’orgoglio, il disamore, l’accidia, la saccenza, la frode, la lussuria, l’avidità più avara), e intanto a ogni modella
corrisponde l’arrivo della modella successiva
per un arco incalcolabile di tempo, io qui inviato in questa atmosfera non respirabile, inadatta all’umano che sono stato, qui apparso e scomparso in un battito di ciglia, le ciglia lunghissime delle extraplanetarie modelle di colore, anch’esse luminescenti fino all’impossibile, acquee, glomeruli che si ovoidalizzano, mentre la musica avanza le sue tonalità minacciose, semidivine senza toccare terra, questi corpi traslati in sepolcro, questi sepolcri imbiancatissimi.
Così, in Balzac, in Zola, davanti alla lumescenza delle monete: i Rothschild abbarbicati su pile di cambiali e di segmenti immateriali, che eiettano lucore aureo. Questa metafisica per niente solare. Questa astralità che ristà nel ritrovarsi a contatto dello spostamento di luce e di acqua, il crollo nell’aria.
Questa era la sfilata, lo è stata. Una forma compulsiva di sostituzione dei corpi, ognuno all’altro simile, delle dimensioni disumane e delle proprzioni agrressivamente disturbanti. L’applauso allo stilista è stato un crepitìo interessante nella prospettiva degli entomologi, che dovranno abituarsi ad applicare le loro analisi a noi umani.
Sono arrivate, insieme, abbigliate con il vestito indiscernibile per la troppa luce, quello dell’uscita precedente, tutte le modelle, a mo’ di esercito, di plotone, ritmato il passo in asincrono da un nuovo battito percussorio.
I vizi sono rientrati nelle fisionomie di chi ha guardato.
Una forma di oscenità che non è valutabile moralmente.
Ciò che sgomenta è l’esteriorizzazione di ciò che in ere precedenti fu interiore.
L’apocalisse dell’uscita in strada, dove non tutto ritorna normale.
Io rimango, inebetito, solo, come sempre solo, immedicabilmente attonito, accanto al motorino, sotto la pioggia di Milano.
Mi consegno a voi.