Ieri, sugli scalini nel cortile a fumare, tra una scrittura e l’altra, c’è una bambina che va in quinta elementare e dice: “Non si legge un libro prima della terza o della quarta. Se ci si riesce, è Geronimo Stilton. C’è un animale che ti insegna le lettere, uno diverso per classe: un pesciolino o un riccio. Mio fratello ha un riccio, insegna le lettere alla sua classe, in seconda. Non si scrive in corsivo prima della seconda. In terza c’è una fata che ti insegna le parole. Poi ci sono anche gnomi ed elfi. C’è una scatola dedicata a questi animale, noi andiamo in quella scatola a estrarre le lettere o i concetti. A leggere l’orologio si impara verso la quarta elementare, io non lo so leggere, nella mia classe ci sono tre bambini che hanno l’orologino al polso, ma per bellezza, non lo sanno leggere. L’anno scorso, in quarta, abbiamo fatto due temi. In quarta si fanno i pensierini. Nessuno legge i libri, al massimo Geronimo Stilton. Le tabelline si fanno secondo me tardi. In gita andiamo su un pullman, ci sono due televisori attaccati al soffitto e durante il viaggio li guardiamo, di solito danno cartoni animati di Geronimo Stilton. Poi molti di noi vomitano, perché si vomita a guardare in alto la tv, se sei in pullman. No, nessuno di noi canta. Col programma di storia si arriva ai Romani, in quinta. Non andiamo a comperare le cose, non sappiamo i soldi. Non usciamo da soli, è un pericolo attraversare le strade. Vado in quinta. Ho tutti i libri di Geronimo Stilton, a me piace molto leggere, alle medie ci massacreranno di comiti e dobbiamo sapere tutti tutto a memoria tantissime cose, io ho molta paura delle medie”. Il sistema educativo primario si è trasformato radicalmente negli ultimi quattro anni. Già esprimendomi così, trasudo ipocrisia, poiché dovrei dire che non si è trasformato radicalmente: è crollato. Però mi viene il senso di colpa, perché io non penso come certi miei ex colleghi (oggi non ne ho, non esiste più la figura specifica dello scrittore e dell’intellettuale), i quali ritengono che è finito un mondo umanistico e adesso è tutto decadenza. Tuttavia è anche così e non dal punto di vista dei saperi intellettivi o cognitivi: è il sesto senso esperienziale che evapora, è il corpo emotivo che resta raggelato e si intrude in un corpo fisico in sviluppo clamoroso, con gli ormoni che girano vorticosamente e le gambe che si allungano e i piedi e le ascelle incominciano a puzzare e, in media, a nove anni e mezzo si notano le tracce del premestruo. A dodici anni e mezzo hanno rapporti sessuali, a nove hanno imparato a leggere l’orologio. L’amimismo facciale domina i volti di questi preadoloescenti che sono fragilissimi emotivamente. La preparazione all’esperienza, l’elemento iniziatico, la negazione che la realtà opera rispetto ai desideri e alle proiezioni: questo calderone interiore e mondano, ribollente di pulsioni e censure e quindi foriero di adattamenti progressivi sempre più raffinati, resta congelato in un tempo nullo, un’interiorità azotata. Non sanno collocarsi temporalmente, cioè storicamente, e nemmeno spazialmente, cioè anche geograficamente. La tecnologia viene loro in soccorso istantaneo, con la sua predicazione che si insinua nelle fibre della mente e del sistema nervoso: la tecnologia predica l’istantaneo e nasconde l’istante, che è il qui e ora, ovvero il buco bianco da cui l’umano passa per conoscersi sperimentandosi. Salta il legame causa/effetto, che deve essere trasceso, ma, per essere trasceso, va sperimentato con tutte le fibre della mente e del corpo. Pare un umano in transizione, in evoluzione, verso un paradigma aereo e metallizzato, inaccettabile per chi ha sperimentato il sistema educativo, ovvero esperienziale, che vigeva quando io ero piccolo, quando i miei genitori o i miei nonni erano piccoli. Certo è stata fatalità, cioè idiosincrasia, il fatto che a otto anni rubavo al supermercatino Pracchi la barretta Lion, prendevo il tram 23 senza pagare il biglietto e senza dirlo a mia mamma, leggevo “Papillon” in quattro giorni di avidità e follia fantastica, scrivevo temi di quattro pagine. Il nonno siculo lavorava a nove anni nei campi, divorando uova sode sotto gli ulivi e rubava il sapere la notte, leggendo alla luce di lampade a olio, avendo sottratto in segreto una “Divina Commedia” nel comò di suo padre e avrebbe frustato a cinghiate mio papà quando disse che non voleva andare a scuola. Vedo bambini: di sette, otto, nove, dieci, undici anni: sono cinquenni, in parte, parlano incredibilmente con le vocine, strane gnagnere che i genitori faticano a levargli dalle boccucce rosso ciliegia. Amano “Frozen” e fra due anni scopano. Se fossi un genitore, non soltanto mi preoccuperei: sarei disperato. A otto anni non ti viene in mente che puoi leggere un libro. Non sai stare solo, non tolleri la noia. L’avventura è tutta mentale ed è visione interiore supportata da schermi. Non sai che, se mangi una carrubba, farai fatica a cacare, poiché non sai nemmeno cos’è una carrubba. Imitazione capovolta dell’iniziazione, arriva il bullismo in cui sta, stai lì a soffrire, l’ombra della morte per suicidio, tipica dell’adolescenza, è lì che preme e non ti inizia a niente. La sopravvivenza è data per scontata. Il mondo si contrae in un piccolo fossile vivente che sei tu. Tu ti dài per scontato, ma tu ti sconti: fai lo sconto su te stesso, hai da scontare te stesso, questo peso piuma che ti condanna a una sopportazione impossibile da tollerare. Le cazzate, le cazzate, le cazzate, continuamente le cazzate, mentre escrescenze di peli forano il derma e il grasso bruno si accumula nei fianchi precocemente.
E’ anche per questo che non esiste più lo scrittore, che sapeva benissimo non sapere come fare e adesso lo sa male, non sa bene non sapere più se stesso. Però lo scrittore infigge ancora gli occhi in un futuro remoto, apprezza la bavaglia di pelo del primate mentre guarda Orione, va a trovare le deità asserendo con ragione che non esistono, in quanto esiste qualcosa di più mobile e trascendente di queste statue mute e viventi, le deità, sempre le deità.
Abbiamo la testa fuori dell’acqua e siamo in grado di pensare. Noi vi daremo, bambini, i nostri occhi cavati su un vassoio di metallo cattivo.