GIOVANNI PASCOLI
Sotto la neve, nella neve vibra il vocale e stona
male la vita di Giovanni Pascoli. Era un uomo magro
che arrampicava per un everest in voci
settembrine o decembrine, erano le scrivanie
tra cui la dantesca immemore di lettere mangiate dalle tarme
in una polvere sua, di voce e strani morti
a mummia, i fiorellini nella glottide e l’epigastrio
e l’infanzia. Era un uomo magro con i ramponi azzurri
sulle nevi perennità distendendo l’opera su canneti e padri
indefinitamente.
Dileguando l’opra, l’ombra della sorella
e delle sorelle e della madre in un volto barbaricino
pallido era al lume il suo volto al buio della magione
tra i chicchi di riso perdonando a chiunque la propria morte,
riso al latte nella scodella, dico. Alito
gelido e freddissimo sembiante stava
davanti a lui davanti, nella salita,
ascendendo a, ventoso, un monte
l’uomo ombroso di tutti noi, davanti: era un poeta.
E a lui diceva: “Vanni, dileguare e cuore
sono la stessa età e dimora, tradendo, la mano stanca
e la tua luna fantasma: fa paura. Ho paura. E freddo.
Questi era la poesia eterica, era lume
all’umano negozio, alle vesti, e nella neve affondo.
Hi!, fondo il mio regno qui: senza carne
agnosticamente, tra Arno e Arno”.
Così diceva. Si sfaldano le lane,
le tarme umane friggono nel legno
nella temperie affonda e è presente
forza beltà vita anima, tutto.
In un muscolo e la terra empia
lo saprà morendo, grande cadavere roteando e mota
dello spazio, in un muscolo si saprà morendo contrarre cosa sia
ed è ricavare un padre che ritorna morto
a bordo di un’animale, tanto bella e muta
andava e ritornava invano la sua monta,
con una voce stridula di piccina già antica
con i vocii di donne tra le stanze
in fuga all’infinito le vieta
se infinitamente va a morire
Giovanni Pascoli.
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