Una delle apicalità raggiunte dall’occidente è incarnata da Stephen Hawking. E’ l’ultimo uomo: il terminale del pop, l’ultimo essere vivente in grado di imporre alle menti il graffio che fu detto: l’immaginario. La sua storia personale è densa di aspettative del superamento a cui l’occidente educò le anime belle e anche quelle meno belle, che ebbero la ventura di apprendere la preghiera alla speranza frontale o che miscredettero, anticipando in forma divina l’esperienza televisiva. Il continuo, sebbene non eterno, superamento che Hawking interpreta vivendo e continuando ad apparire in ciò che è decisivo, con le vesti del profeta così simili al camice dello scienziato, ha il suo contrappunto nell’esperienza fisica che, sinestesia vivente, Hawking stimola in noi a livello quasi subcorticale. La sofferenza del suo martirio privo di sviluppo e però con un passato, di fatto, è un’allerta per i sensi degli spettatori che eravamo e che abbiamo in testa di non essere più, immergendoci e identificandoci nelle esperienze più o meno virtuali che desideriamo compiere, ormai senza più desiderare nulla, quindi occupando eufemisticamente un’espressione che fu una zona antropica, un’esperienza cruda e sensibile dell’umano. L’abominio dei tendini, l’azzurrità cromagnon del teschio e della dentatura impensabile e prefossile, la vividezza dello sguardo chiuso in un segreto autistico che è tutto il contrario dell’autistico, la virilità esercitata come predominio intellettuale privo di concorrenza, la stimolazione alla pietà che spalanca la fessura alla vendetta dell’intuizione ultima e prossima all’intimità fisiologica con il deus sive natura, l’emissione analogica e digitale e via etere o via cavo della vita gioiosa e utile e stupefacente davanti agli obbiettivi delle nazioni unite, quell’Oscar che è il Nobel che dal futuro pressa da anni sul sempiterno presente: sono tutti caratteri della spettacolarità finale interpretata da Hawking, questo genio che da sempre mi appare nella vita, con il suo episcopato laicissimo e debordante. Pur non disponendo di una televisione, si sa, la televisione la si sa – quindi intercetto l’estremo spot in cui Stephen Hawking appare e è: laddove un attore pronuncia l’enfasi per cui “Siamo i signori dello spazio e del tempo”, in location e mood da James Bond à la Mendes (e quindi da Star Trek à la Abrahms o da Mission Impossible à la Qualunque Regista, etc), e qualche secondo dopo Stephen Hawking fa ciò che si ritiene impossibile fisiognomicamente, fisiologicamente: ride. In quelle immagini si dà qualcosa di già visto eppure mai visto prima ma continuamente visto: da comprimario l’oltreuomo si rovescia in protagonista e da buono si capotta in cattivo, capovolgendo le gerarchie che l’arte e lo spettacolo assegnavano a chi si agitava sulla scena, il che Hawking non può e non vuole fare. E tuttavia egli può fare peggio e lo fa: ride. C’è un’estasi: è il riso, che denota il fenomeno umano e scandalizzò le chiese di tutte le nazioni disunite e unitesi nell’odio contro la risata. Questo spot è il “2001 – Odissea nello spazio” della pubblicità, la quale smette di esistere in questi giorni, perlomeno nella forma in cui la conoscemmo. Non siamo affatto i signori dello spazio e del tempo, nemmeno siamo geni: siamo solo coloro che arrivarono sempre dopo, che da semifinali si fecero finali, che perpetrarono sulla realtà l’omicidio imperfetto con un cervello fumante, lasciando indizi ovunque ma nessuna prova, poiché non c’era nessuno a constatare le prove.
Tutto ciò e molto più di tutto ciò è detto per me ora e qui: il contemporaneo.