Un certo signore giapponese, ammonendo Marguerite Duras che lo ricordò in un’intervista, si permise di avere ragione asserendo che noi occidentali abbiamo i nostri classici, da Platone a Goethe, e i giapponesi hanno il loro: Hiroshima. Quale dei classici è più classico: l’umanistico o lo storico, che è anche conseguenza scientifica? Al momento la questione sembrerebbe non darsi nemmeno, a un occidentale medio, per il quale si sarebbe tentati di ricordare che non esiste forse tutta questa grande differenza tra Platone e Hiroshima, e cioè tra come gli occidentali hanno prima letto l'”Apologia” e poi pensato e prodotto l’atomica.
Però la questione mi pare in questi giorni svelare un’ulteriore profondità e addivenire allo stato di terza lama di un rasoio, di incrinatura inattesa, di variabile tutt’altro che impazzita. Che l’idea sia della stessa consistenza immateriale, quasi spiritica, della radioattività – questo è un fatto. Che si finisca per essere radioattività: questo non è ancora un fatto ed è molto inatteso. Le menti che hanno compreso la differenza tra conoscenza e saggezza si attestano sul discrimine tra silenzio e pensieri, la folla sterminata dei quali è, come tutta la folla, follia. Per questo motivo grandi artisti ricercarono il vuoto e, con esso, la sua ovviamente fallimentare rappresentazione. Il vuoto premeva da sempre il fatto stesso dell’esistenza e, quindi, a maggiore ragione, pressava l’arte, tentava di spezzarne i vetri e i filtri, desiderava entrare dove sempre desidera ritrovarsi: in noi, cioè in una forma di se stesso. L’arte svolge ancora una simile funzione in questo giro di anni? Certamente, si tratta dell’arte autentica, la cui precondizione è il rapporto col vuoto. Però, più che prima, è del tutto indifferente che l’estetico si incarichi di una missione tanto scottante e impegnativa: è infatti la storia stessa a dimostrare di giorno in giorno che quella verità dell’arte è il punto di fuga dei tempi. Si va a essere ciò che si è, ineluttabilmente. Quando si emetteva una simile sentenza ai tempi in cui ero ragazzo, davvero, si trattava di un rischio intellettuale e di una qualificazione esotica conferita a ciò che è sconosciuto. Quel rischio e quell’esotismo li ritrovo intatti, sia pure trasformati, nei giorni in cui si vede come la mente non umana, che pensa artificialmente e intelligentemente, è pronta a integrarsi con la nostra. Stanno per emergere stati mentali generalissimi, in modo metallico eppure immateriale. Platone si confonde con Hiroshima, ma in una maniera più greve e alla mano di quanto già fosse. Saremo letteralmente radiazioni, dentro le quali scorgeremo sagome e possibilità di esperienza, alla ricerca continua di possibilità di calcolo e innesti energetici – l’energia per una forma continua di alimentazione, sostantivo in cui già vediamo riunificati le batterie elettriche e l’apparato digerente. Andremo a perdere il corpo? Già prima non lo perdevamo? “Nelle opere cerco di creare, sopra ogni cosa, quell’incommensurabile vuoto in cui ha vita il permanente, assoluto spirito liberato dalle dimensioni” disse Yves Klein, autore di “People begin to fly” (nell’immagine). Era il 1961 e l’accelerazione, che oggi viviamo iperbolicamente, veniva avvertita in modi drammatici, ma storici e quindi sedimentabili, dagli spiriti non liberati dei tempi. Oggi la questione è la medesima, l’attrito solo è maturato, intensificandosi, tra la storia che sta per accadere (già accade) e il vuoto che sempre c’è. Dove è la saggezza che abbiamo perso in conoscenza? E’ nella revocabilità di tutto, nella rievocabilità istantanea della saggezza sempre ora qui ovunque.