Nelle ore alternative ai riti funebri che svolgiamo distruggendo uno per uno i ricordi di cui disponiamo, la cui tecnica di disgregazione non ricordiamo già più se ci è stata inculcata dai precettori del collegio al colle Tenda o è stata scovata per ventura da qualche birba delle nostre, la quale non si è fatta problema di inzigare il camerata più prossimo e di carattere floscio a praticarla per gioco, così da attirare via via i temperamenti più aggressivi e mimetici a un ludo e una mania, un uzzolo, un ticchio, con il sembiante di un’innocenzuola e invece salutare, di un salutismo da ventennio, costituendo tutt’assieme una gilda votata incrollabilmente alla meta e all’ambizione della smemoratezza: si fa così: cosa sono dopotutto i ricordi?, se non immagini un poco fatte di gelatina strana della materia più satin e leggera, e un poco di cinematografia, che s’ammassano e parassitano sulle superfici viscose del cervello, e nel suo corpo gellificato e poroso, tutto convoluzioni ed endocrinologie, che s’avvizzano depositandosi a dormire da sveglie, sempre sveglie tali e tante immagini dei ricordi che più chi se ne ricorda i numeri, qualcuna con la voglia sfacciata di farsi un kajak nel cerebrospinale e il liquido glielo permette pure, l’homunculus motorio e quello sensitivus del tutto attoniti e paghi di quei rudi e insidiosi fotogrammi, la cui indipendenza è una sfacciataggine della natura, una bestemmia che vindice vorrebbe l’ablazione della testa o un buio etterno, affinché tutti si stia con la compostezza attenta a un bel niente che fu degli scribi egizi un tempo d’aurea e liminale consistenza, noi, bipedi seduti nella postura del loto a prendere nota senza chiedere un cazzo e stare lì, a ravvedere le stelle nelle stelle e i cardi nei cardi e le mani nelle mani, facendo di tutto uno e trascrivendo in segni crittati che neanche lo Champollion avrebbe avuto esito di rendere codice e cifra e discorsetto, poiché scriventi sì, ma non vogliamo intendere nulla, fermi seduti in un tempio di sabbia concrezionata, uno accanto all’altro, a distanza di qualche cubito o piede o palmo come erme e dunque silenti, muovendoci il giusto con lo stilo sulla terracotta fresca e umettata dai servitori disposti all’uso; quindi, individuatala, l’immaginetta del ricordo, a forma di fotogramma spiritico, farla stare ferma che vibra, l’ologramma che stipa l’affetto nella natura seconda e nella sua finta invisibilità, per proporre il patto dissennatissimo tra tempo e vita, fottendosene dell’esistenza, insultando gli dèi delle arti e dei mestieri, del progredior, dell’ammalarsi in un chi ha avuto ha avuto e sempre lo ripete, differentemente no, celenterato che succhia la vivescenza altrui per stare in piedi col tesoretto di sentimento e batticuore che ti dà riassistere al tremolare della salma quasi della mamma, quando sul letto, detto di morte, stava esalandolo, l’ultimo ricordo, ch’è il respiro, poiché come qualunque ciclicità l’è un ricordo anche il respiro, e l’innaffiarsi di quella mota che è l’esistenza il corpo tutto automatico il mattino; e procedere a cancellare quella mobile superficie che si adatta e che non c’è, proprio sui tessuti irrorati e venati di verde morto del cervello, strofinare con una manina altrettanto immaginaria una paglietta di metallo infuso ad arte, che cancella le spiritualità, uno per uno, quando ti nacque tra guardinfante il fratellino che poppava abusivo e strafottente dalla pera della mamma, smammellando dov’eri tu e penetrando nella frenesia volatile che la larva ricordo rattiene per sua natura perfida e perversa: dalli!, cancellarlo è bene. E così la portiamo a zero, lucida di cera e varechina ideale, la superficie vera, dell’organo che pensa, il quale è materiale e materiale deve restare. E dicevo che, quando i riti funerei dello strofinamento che fa un tondo zero delle finestrelle di ricordi lasciano qualche ora per noi libera alla ricreazione e all’illudersi che vivere va bene e è cosa bella, ci piace immaginare di essere un negro, magari piccolo, magari ligneo, magari un automa proprio, e suggerire le diavolerie più insensate e sozze all’adulto di turno, spesso vestito in un Galles di rappresentanza, e sussurrare l’acuto nihil nelle sue orecchie colme di cerume e di ricordi, onde scompaia immanifestamente in quel gran transito del mondo, che è una diavoleria a sé stante, un nihil più grosso, da screpolare e ridurre a polverina, per soffiarla via, nel turbinio cosmico che tocca gli zero kappa.