Speravo da anni che si vedesse con nitore profilarsi, all’orizzonte di un paesaggio mobile come quello che stiamo vivendo e vivremo, la weirdness della letteratura europea, che si propone quale pulviscolo di autori, capaci di riempire e strabordare oltre i precedenti contenitori poetici, confondendo generi e territori, fino all’evaporazione degli stessi. Non è un movimento coerente, poiché si tratta di autori, qualcuno eccezionale, che propongono verticalizzazioni, mentre la questione della comunità poetica viene desunta da un’eventuale orizzontalità. Vanni Santoni, scrittore e critico eccellente, fornisce lo specchio di una simile orizzontalità, proponendo una serie di nomi che, a mio davvero modesto parere, fanno il presente letterario. Si tratta di autori europei. Già questo fatto costituisce una novità. Eravamo abituati ad attendere dagli Stati Uniti le etichette e le eccezioni, nei decenni passati. Da almeno un decennio non accade che i nordamericani propongano qualcosa di significativo, a parte un paio di anomalie, di cui una è certamente Jeffrey Vandermeer e l’altra è Thomas Ligotti. Non basta. A fronte di questo transitorio depauperamento della proposta americana, conviene considerare alcune voci che Vanni Santoni, su Prismomag, identifica e propaga. Un dato su cui eventualmente riflettere è che tali autori non sono propriamente novità. Ciò induce a un severo giudizio sullo stato dell’editoria di scoperta e della traduzione in Italia, così come della ricursione critica. La riflessione dovrebbe allargarsi su quanto si sta perdendo della letteratura africana e di quella estremorientale. Faccio un nome per tutti: Boualem Sansal, pubblicato qui da Neri Pozza. Merita davvero qualcosa di più, ma il tempo è questo, non tanto povero di poeti, quanto di persone che ci indichino quali poeti leggere. Che soltanto questo ottobre (2016) appaia, per la benemerita cura di Bompiani, la versione italiana di Satantango, uno dei capolavori di Laszlo Krasznahorkai, la dice lunga, ma è inutile anche che la dica: l’abbiamo capita da tempo. Non è nemmeno una questione italiana. Si sono accorti di Satantango perché la traduzione inglese ha permesso a Krasznahorkai di vincere il Man Booker Prize nel 2015: non è bastato che Béla Tarr ne ricavasse, decenni addietro, un’opera cinematografica imprescindibile. La koinè individuata da Santoni fa luce sull’opera di Antoine Volodine, personalità volatile in qualunque sua ricorrenza onomastica (utilizza molti pseudonimi, ma già si chiamerebbe Volodin, è russo). La sghemba “metafisica”, all’insegna della quale viene presentato questo autore, che del resto si presenta già da sé come sghembo metafisico, non è per nulla metafisica: è invece una declinazione del fantastico. E’ come se si vivesse nel dopobomba, qualche minuto dopo che sono esplosi i generi. La scrittura di Volodine è manierata (la nominazione delle varietà neobotaniche in Terminus radioso ne è un esempio) quanto basta per dire che è autoriale, altoletteraria, in realtà non essendolo per niente, poiché questo autore francorusso utilizza la visione, la struttura e la narrazione come variabili, grazie a cui individuarne la scrittura. E’ uno scrittore dell’immaginario, che appare nel tempo della nebulizzazione dell’immaginario. In questa parcellizzazione, assai ambigua, crescono scritture che, mi pare, guardano a Kafka o a certo Joyce, tentando la strada del massimalismo. Qua siamo nell’àmbito del gusto e delle idiosincrasie poetiche, categorie che riemergono potenti grazie alla parcellizzazione dei canoni, che sarebbe poi una nebulizzazione della percezione dei canoni: i canoni rimangono lì, utilizzabili. Vale la pena di leggere il prospetto che Vanni Santoni regala, in forma di instabile ma significativa planimetria, per quanto riguarda il presente letterario – del che, essendo avanguardia, come sempre può interessare ai pochi che si interessano, avendo la consapevolezza che l’avanguardia non è più storica, cioè non ha ricadute sociali immediate e (si presume) future sulla socializzazione della letteratura stessa.
Un’altra notevole incusrione nel presente è questa intervista a Jeffrey Vandermeer, l’autore della trilogia sull’Area X, ovvero una delle opere letterarie più interessanti di questi anni, è un esempio della contraddizione attuale in cui si trova chi scrive e chi legge romanzi. C’è davvero tutto: da un lato si trova l’ossessione per il genere e per l’uscita dal genere, la mania del racconto della realtà, l’aggiornamento e lo storytelling, il mainstream e i tropi, la visione come visuale, la massimalizzazione del numero dei lettori; d’altro canto si entra nel flusso artistico attraverso la filosofia, lo spaesamento, il processo conscio e subconscio e inconscio e superconscio, la casualità e l’errore, la poesia, l’orrore e la mimesi, una tradizione e l’evitamento delle tradizioni. Chi ha condotto per il Tascabile l’intervista, cioè Timothy Small, è bravissimo, è rigoroso e non offre irrigidimenti, senza tuttavia eccedere nelle ingenuità o nel pop ideologico. Consiglio di leggere il tutto, compresi i libri di cui si parla, e soprattutto il primo esile e potente romanzo, “Annichilimento”, poiché gli altri due eccedono nei difetti di cui si diceva sopra, rendendo la lettura faticosa e francamente noiosa. Si è però davanti all’unica novità interessante che la letteratura statunitense ha proposto in questi anni.