Del libro che si fa attualmente, a chi interessi

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Sono giorni di scrittura, eremitici e distanti dall’orizzonte mobile delle cose usuali, come un evitamento o un’elusione, di carne e di spese, un incapsulamento che è un arroccamento e l’usuale, mai definitiva, pena della delusione, il calcolo dello sguardo altrui, della delusione e della pena che commino, chi aprirà questo libro, cercando cosa?, pena e delusione?, il divertimento abolito?, una tensione a verità incerte di sé e del mondo, forse, forse la maiolica della lingua, tutta screziata per le crepature, l’inveramento che mi commina l’abisso delle sentenze altrui, su di me, cosa sono, perché scrivere parole alla fine delle parole, perché montare un’azione minima e una visione a tratti contorta e astratta, sulla tela grezza della mente vuota, che si predispone ad aprire un libro e a spalancare ore di affanno a un’esperienza altra, tra parole e immagini e giri di frase, forse cercando l’azione irredenta o redimibile delle piccole sagome che si dovrebbero agitare in quel libro, un piccolo universo di simulazione e poca estasi, la descrizione dei tappeti in cui si raggrincia il mondo per gli antichi persiani, la tramatura secca e decisa e plutonica delle azioni tragiche, qualche personaggio colpito da disgrazia, da causa ed effetto, da religione, che dice il mondo, ripete l’inevitabilità del male terreno, la connessione aurea con un ordine di cose a cui si è impreparati, divino, scrivendo leggendo vedendo ascoltando – la miseria della rappresentazione, nemmeno della scrittura, poiché a questo si è finalmente giusti: è una rappresentazione, non un racconto a snodi e colpi di scena, il deus ex machina è come si rappresenta, come ti calamita l’attenzione, come ti espone al disastro universale… Questo derivare, nella descrizione, che tiene in sé un microgrammo della narrazione più abietta e piacevole, questa abolizione del rapporto erotico tra personaggi e lettori, la quale è anzitutto abolizione della popolazione erotica all’interno dello scrittore, è sostenibile, come si dice oggi, o respingente? E’ troppo alta? Mi sembra di dipingere una tela astratta a materie fluorescenti e nere, poche visioni dell’oggi, in un’astrazione che per caso soltanto si può dire romanzesca, e non è ragionamento e non è poesia, è uno spalmare sulla tela grezza la materia greve, la materia residuale del vivente che fui e sono io. Lo sviluppo è strano, ho presenti alcuni sguardi interessati, dei benevoli che mi vogliono bene e che mi seguono o accompagnano, dire: “Hai visto, Giseppe, dove ti portava quest’astrazione? Hai visto quanto cerebrale? Hai visto che ti interessi al presente più che alla letteratura? Hai visto che hai scelto la nicchia e sei finito a non raccontare?” e il capo pencola in delusione e pena, la materia residuale del vivente, come fecero i grandi padri, i geni folgoranti, quegli esseri d’oro e asfalto, così piccini nella loro esistenza, o roboanti e enfatici, prima dei linfomi, prima che la leggenda dei loro testi fosse fiorita e ascendesse a aureole sopra il capo immaginifico di loro, trapassati, i grandi morti a cui abbiamo guardato e che abbiamo letto o ignorato a bella posta, tutto il timore e il tremore che concedevano in quell’aldilà dei loro libri, una volta spalancati, quando ne emergeva con il testo una moltitudine di tracce, di una mente artificiale, trapassato il corpo e la biologia, tracce e tramature che resistono e si insinuano, piste fatte di oro e asfalto in cui perdersi all’infinito, un’esperienza minima tra le altre grandi, le grandi musiche tedesche, gli archi voltaici delle pitture e delle figure scolpite, arti e arti che non conosco, chiuso nell’arroccamento, predisposto a un’esperienza povera di ascolto minimo e profondo, l’orecchio teso agli ultrasuoni di una realtà in cui ero immerso, a diciassette, a ventisei, a trentaquattro anni, fino ai quarantasette ora, quando le trame si sono rese più pallide che confuse, nebule, limbi, irregimentazioni a basso indice seduttivo, una lingua scritta apposta per trapassare ed essere dimenticata, all’istante, per apparire soltanto nel momento in cui uno sguardo la legga, con la sua illusione ottica sghemba e poca storia: iscrivere un testo nella storia dei testi non è più un dominio del sé, fu una passione giovanile, un tentativo disperato di farsi amare, una preghiera di amarmi ora, quel museo dei testi era una simulazione, una seduzione previa, una difesa.
Tutte le biblioteche sono incendiate e bruciano in fiamme altissime.
Le ravvediamo lontani dalle coste, nel mare diaccio, navigando al buio notturno, vediamo i roghi alti delle varie Alessandria, alti fuochi in cui sono bruciati tutti i libri chiusi, ammutoliti.
Ecco, è scritto così all’incirca.

[Non c’entra niente, questo libro che si fa, nel dicembre 2016, con il “Sátántangó” di Béla Tarr, da cui è tratta l’immagine sopra, ndr]

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