A che cosa si riduce oramai, per me e soltanto per me, quell’entità polimorfa, fatta tutta di voce interna e di immagini prive di figure, che è stato ed è il romanzo? Me lo chiedo pressantemente in questi giorni, al lavoro sulla stesura del nuovo libro, in uscita nel 2017 per Mondadori. Me lo chiedo perché avverto che qualcosa, per me e soltanto per me, è mutato, nell’organizzazione e nella polifonia e nella monodia con cui e su cui lavoro da anni. Si tratta di seguire una voce della mente, di fare esperienza di una mente, che non è quella dello scrittore e non è quella di chi legge. E’ un’esperienza mentale in cui il tempo è alterato o inesistente, non si tratta di sogno eppure qualcosa ha a che fare con il sogno, si intesse apparentemente di realtà eppure non tutto torna nell’apparenza, spartisce qualcosa di necessario con la poesia e poesia non è. E’ come un viaggio mentale, stupefacente senza stupefacenti, una surplus di energia mentale, che implica una certa fatica, una sedimentazione, un’attenzione, al di là del principio di realtà e di quello di piacere. Questa filosofia che si dispega in modo irregolare ma non inerte, questa tramatura a nuvola tossica o radioattiva, spartisce alcuni caratteri con la malattia psichica e ottiene certi effetti sul corpo, sia fisico sia emotivo. Oramai l’esperienza di scrittura si dirige verso un raso zero, una tabula rasa, attraverso modalità che sembrano confondere, anzitutto i generi, quindi gli stilemi, le strutture, le identità che si muovono nello spazio raccontato, scritto, letto. Quanto avverto è letteralmente: un getto, uno strappo di tantissime fibre, una pena, una dolenzia interiore, un senso di colpa. Tuttavia vado. Avverto la possibile irritazione e l’eventuale identificazione di chi compirà magari il gesto affettuoso di comperare e leggere il libro che si sta facendo. La prosa è inusuale rispetto alla mia precedente. Mi pare un’intensificazione di quella che era venuta fuori ne “La vita umana sul pianeta Terra”. Qualcosa è andato oltre la figurazione del male, la superficiale fisionomia di un umano storico. Mi pare che progressivamente, da “L’anno luce” in poi, si sia trattato di un rompersi degli argini. Avverto intatto il centro della ricerca che è questo viaggiare della mente nella scrittura, atto allucinogeno non privo di sue leggi e specificità – e questo centro è la possibilità di “testimoniare” la coscienza, nemmeno l’atto di coscienza, proprio il vitreo sguardo in cui i fenomeni accadono in forma di percezione, un altro genere di allucinazione che ha le sue leggi e le proprie specificità. Cosa resti dei personaggi e della trama, poiché qualcosa resta e mi pare comunque maggioritario e decisivo in questo libro, è da vedere, appunto, come allucinazione tra il verisimile e l’improbabile, non per questo distante da ciò che è vero e potrebbe essere falso, con i rispettivi viceversa. Non c’è nemmeno enfasi sul perturbante. Enorme rettiliano, esso si fa, passandomi per lo sterno e per le dita e per l’occipite. A me fa tremare. Le platee sono indistinte, ma lo è anche il palcoscenico, per non dire degli attori che si avvicendano su quelle malferme assi – anzi, la metafora non tiene più. Nessuna metafora tiene più, non nel senso che non la si possa fare o enunciare o utilizzare, ma nel senso che non è più all’altezza di certo assolutismo, di certa vertigine che oramai, del tutto singolarmente, ovvero personalmente, e questo vale per me e soltanto per me, prende il campo e lo fa proprio, lo distorce o meno, lo quantizza, lo trascende. E’ un certo romanzo. E’ il libro della buonanotte. E’ questo, semplicemente: questo qui.