Contro l’etichetta “lettore forte”

Mi ha sempre lasciato indifferente, ma verso i margini dell’indignazione, l’incredibile etichetta “lettore forte”, che negli ultimi dieci anni ha preso posto nella platea editoriale, come un meme distorto o una gabbia per piccoli spettacoli circensi di cattiva qualità. Esiste chi legge, esiste chi legge poco, esiste chi non legge. Il meschino brand “lettore forte” è un sintomo dell’incapacità dell’editoria di questo Paese a creare, in questa contemporaneità, un’autorevolezza che abbia un senso politico e civile in genere, oltre che una meschineria semantica che tende a ingraziarsi i soggetti che si autodefiniscono “lettori forti”. Non è tempo di archetipi, questo; se lo fosse, il “lettore forte” sarebbe l’archetipo del cattivo narcisismo, assai diffuso in questi anni, che domina il teatro del sonno della ragione e del sentimento. E’ necessario imporre un principio assoluto di senso, altrimenti il cosiddetto “mercato” dell’editoria andrà ad assistere a un’ulteriore riduzione di senso e di presenza. Che molta parte dell’editoria industriale richieda agli autori un abbassamento delle soglie di difficoltà e di ambiguità del testo, per quanto mi pare, è ben più che il principio di devastazione di un tessuto sociale: è l’esito stesso della devastazione. Chiunque abbia figli in età scolare sa perfettamente che il libro, per le nuove generazioni, ha perduto valore veritativo e ha subìto una fatale diminuzione di potenza ontologica: risulta un device spento che implica fatica, senza alcuna possibilità di enunciare qualcosa di destinale né alcun ingaggio di profonde verità. Il libro andrà non tutelato, quasi fosse un panda o un koala a rischio di estinzione, bensì riempito di potenza veritativa. Se si pubblicano le opere complete di Milo De Angelis, il che è un esempio di questi giorni, si misurerà quanta fede e quanto impegno coglie i lettori di poesia, che sembrerebbero più estinti dei poeti stessi, almeno secondo una vulgata ventennale dell’editoria nostrana. Ci vogliono più De Angelis, più DeLillo, più Houellebecq, più McCarthy (Cormac, non il Tom che è protagonista di una voga appunto priva di potenza e senso), più Krasznahorkai: i libri devono ferire, i libri devono ammazzare, i libri devono rendere conto dell’attrito del mondo e degli universali, i libri sono messia della verità e non della realtà, i libri devono arrendersi, i libri devono essere bruciati perché sono pericolosi. Appello al lettore: sii umano, non essere forte.

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